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Home / Guida al rock italiano / Lucio Dalla

Lucio Dalla

Discografia
    

1999 (1966)

5/10
Terra di Gaibola (1970) 6/10
Storie di casa mia (1970) 6,5/10
Il giorno aveva cinque teste (1973)7/10

Quel fenomeno di Lucio Dalla (antologia, 1973)

 
L'album di... Lucio Dalla (antologia, 1974) 
Anidride solforosa (1975)7/10
Automobili (1976)7,5/10

4 Marzo 1943 (antologia, 1976)

 
Come è profondo il mare (1977)8/10

Lucio Dalla (1978)

8/10

Banana Republic (live, 1979)

7/10

Dalla (1980)

7,5/10
Q-Disc (1981) 6,5/10
Torino, Milano e dintorni (antologia, 1981)  
Gli anni Settanta (antologia, 1981)  

1983 (1983)

5/10

Viaggi organizzati (1984)

4/10
Bugie (1985)5/10

The best of Lucio Dalla (antologia, 1985)

 
DallameriCaruso (1986) 6/10
Dalla/Morandi (live, 1988)4/10
Cambio (1988) 4,5/10

Il motore del 2000 (antologia, 1990)

 
Il primo Lucio Dalla (antologia, 1990)  

Amen (live, 1992)

5/10

Henna (1993)

6/10

Le origini (antologia, 1996)

 

Canzoni (1996)

4/10
Ciao (1999)3/10

Luna Matana (2001)

3/10

Tosca. Amore disperato (2003)

4/10

Lucio (2003)

4/10
    

 


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disco consigliato da Onda Rock

 

LUCIO DALLA
Fra la via Emilia e la Luna
di Claudio Fabretti

Formatosi nelle orchestrine jazz degli anni 60, a stretto contatto con la "generazione beat", Lucio Dalla č divenuto nel decennio successivo uno dei cantautori italiani di riferimento, sviluppando un universo poetico capace di spaziare dalla canzone politica a struggenti ballate notturne. Poi, il declino, che gli ha alienato le simpatie di gran parte della critica, senza privarlo, tuttavia, del successo commerciale. Luci e ombre di uno dei personaggi pių singolari del cantautorato "made in Italy"


L'immagine odierna di Lucio Dalla si presta a inquietanti analogie con quella del celebre "scimmione senza ragione" di una vecchia canzone del Banco. Prima però che un delirio pre-senile lo colpisse, proiettandolo da improbabili balli coi lupi ad ancor più opinabili musical-operette, l'uomo nato il 4 marzo 1943 si è rivelato uno dei più innovativi e versatili interpreti della canzone italiana. Merito di una serie consecutiva di album che ha donato nuova linfa allo stagnante paesaggio musicale nostrano. Questa monografia ha quindi un duplice obiettivo: discernere il grano dalla gramigna nella sua vasta produzione e indurre qualche detrattore dell'ultim'ora a un ri-ascolto più mirato.

Dai Flippers a Gesù Bambino

La storia non può non iniziare il 4 marzo 1943. Oltre a segnare la nascita di Lucio Dalla, infatti, la data diverrà anche il titolo di uno dei suoi grandi classici, meglio noto come "Gesù Bambino". Niente porti, però, né marinai a fargli da contorno, bensì la Bologna del dopoguerra, pronta a trainare l'Italia negli anni del boom. Lucio è un ragazzino sgraziato e irrequieto, con il pallino della musica. Suona il clarinetto, passando dal repertorio popolare emiliano al jazz di New Orleans. Inizia a esibirsi in pubblico fin da giovanissimo: sale da ballo a iosa, poi il jazz tradizionale, a Roma. Prima una breve militanza nella Reno Jazz Gang, poi l'approdo nella Second Roman New Orleans Jazz Band e infine nei Flippers, ensemble nato sotto l'egida del maestro Carlo Loffredo con, tra gli altri, Fabrizio Zampa, Massimo Catalano e Franco Bracardi.

Dalla è un ottimo clarinettista e un buffo cantante, che sperimenta tecniche ignote alla realtà italiana dell'epoca: vocalizzi estemporanei in stile "scat" (poi ripresi goffamente anche da Celentano), escursioni vocali disarmoniche al limite della stonatura, uno stile "black" che si rifà più alle asprezze proto-funk di James Brown che al "bel canto" soul di Marvin Gaye. E' Gino Paoli a scoprirlo e ad avviarlo alla carriera solista: in lui vede il primo cantante soul italiano. Ma soul, jazz e canzone sono per Dalla solo ingredienti per buffi divertissement musicali, scritti quasi per gioco. E infatti molti di questi non vengono neanche trasposti su vinile. Dal vivo, poi, l'esito è disastroso. Al Cantagiro del 1965 sono più i pomodori sul palco che gli applausi.
Dalla è un provocatore: se ne infischia della etichetta, va in giro vestito male, canta (per l'epoca) male, si pone male. Ed è anche parecchio bruttino. Di una bruttezza ispida, scontrosa, che non muove a simpatia o a tenerezza come quella del "molleggiato" Celentano. All'Italia che canta "Non ho l'età" e lascia alla deriva Luigi Tenco, uno così non può piacere.

Lucio Dalla, Patty Pravo e Luigi TencoTestardamente, però, Dalla va avanti. Dal 1965 al 1970 prosegue il suo percorso eccentrico, che spesso entra in contatto con il movimento beat.
Nel 1966 scende nell'arena del festival di Sanremo con "Paff... bum": al suo fianco nientedimeno che gli Yardbirds, leggendario gruppo-culla del blues rock inglese. Il pezzo, firmato da Reverberi e Bardotti, è bislacco, canzonatorio (il titolo vorrebbe simulare il battito del cuore quando incontra una ragazza!), ma allineato ai suoni dei tempi. Passerà praticamente inosservato.
Nello stesso anno Dalla pubblica il suo primo album, 1999. Un guazzabuglio di matrice jazz-pop, che alterna tracce brillanti, come la title track e la raffinata "Tutto il male del mondo" (riproposta più di trent'anni dopo col nuovo titolo di "Amici"), a esperimenti velleitari ("Lsd", "Quando ero soldato").

L'album è un fiasco e nei quattro anni successivi Dalla appare confuso, indeciso se proseguire nella sua opera di dissacrazione dei feticismi canzonettari o cedere alle sirene dell'industria discografica. Nel 1967 partecipa di nuovo al Festival della canzone insieme ai Rokes con "Bisogna saper perdere" e fa da spalla addirittura a Jimi Hendrix nel concerto al Piper di Milano. Brani toccanti come "Lucio dove vai" e "Il cielo" dimostrano che il talento non l'ha abbandonato. E la sua tenacia è premiata nel 1970 dal primo successo come compositore: Gianni Morandi incide la sua "Occhi di ragazza" e la porta in vetta alle classifiche. Il pezzo non vale granché, ma è grazie ad esso che l'Italia gli schiude le porte.

All'inizio del nuovo decennio, Dalla piazza subito una zampata. L'album Terra di Gaibola (1970), infatti, sfoggia alcune delle sue canzoni più graffianti del periodo - da "Il fiume e la città" a "Non sono matto (o la capra Elisabetta)", primo testo uscito dalla sua penna, musicato da Gino Paoli - più una efficace reinterpretazione di "Occhi di ragazza" e un paio di ballate più fiacche come "Sylvie" e "Dolce Susanna", quest'ultima composta per un giovanissimo Ron. Gli arrangiamenti dei fratelli De Angelis (meglio noti in seguito come Oliver Onions) sono calibrati. E i testi di autori come Sergio Bardotti, Gianfranco Baldazzi e Paola Pallottino ammantano il disco d'un lirismo trasognato, in cui la periferia bolognese di Gaibola assurge a luogo leggendario.

Storie di casa mia (1971) conferma la sua vena a corrente alternata, tra piccoli gioielli di struggente pop melodico ("La casa in riva al mare", "Per due innamorati" e "Il gigante e la bambina", destinato a divenire uno degli hit dell'amico Ron), confusi quadretti naif ("Un uomo come me", "Il bambino di fumo") e vere cadute di stile (il pacchiano coro di "Itaca").
Ma a trascinare il disco è il singolo "4 marzo 1943" di cui sopra, benedetto tra i fiori di Sanremo e lanciato anche in Brasile (nella versione di Chico Buarque De Hollanda), in Francia (a cura di Dalida) e in Giappone. E' una fiaba agrodolce, firmata da Paola Pallottino e accompagnata solo dal violino "alticcio" di Renzo Fontanella: Dalla la interpreta con piglio da cantastorie, esaltandone lo spirito dissacrante (la canzone sarà vieppiù censurata) e bohémienne. Uno spirito che troverà ancor più compiuta affermazione un anno dopo nel clochard della struggente "Piazza Grande", che farà inumidire gli occhi anche al compassato pubblico del Teatro Ariston.

Il motore del Duemila

Dalla è pronto per il grande salto. Non vuole però sfruttare la comoda scia sanremese, e si imbarca così in una scommessa ad alto rischio: una trilogia in collaborazione con il poeta bolognese Roberto Roversi, intellettuale marxista e fondatore, insieme a Pasolini e Fortini, della rivista letteraria "Officina". Invece di cavalcare la tradizione della canzone popolare, come stavano facendo con successo molti suoi colleghi (da Battisti in giù), Dalla la prende di petto e la fa a pezzettini: arrangiamenti stranianti, linee melodiche eccentriche, suoni e rumori "concreti", storie spiazzanti e interpretazioni vocali d'impronta jazzistica, tutte giocate sulle improvvisazioni e sui cambi di registro, compongono un universo musicale avanti anni luce rispetto alla scena italiana dell'epoca (e di gran parte di quella a venire). La "canzone politica" di Dalla e Roversi dà voce alle ansie di quella Italia che non si piega alle "verità ufficiali", che vuole bucare il muro di gomma del potere e del perbenismo, che reclama un cambiamento profondo della società.

L'esordio del duo, Il giorno aveva cinque teste (1973), è un album multiforme ed ermetico, discontinuo, ma illuminato da sprazzi geniali. Il lirismo di Roversi fa emergere una livida vena di denuncia sociale rimasta fino a quel momento sottotraccia nel canzoniere di Dalla. "Questo luogo del cielo è chiamato Torino/ lunghi e grandi viali/ splendidi monti di neve/ illuminate tutte le sponde del Po/ mattoni su mattoni/ sono condannati i terroni/ a costruire per gli altri/ appartamenti da 50 milioni", è la chiusa di "Un'auto targata Torino", spicchio agro d'immigrazione (e speculazione edilizia) nel falso eldorado del Nord.
Dalla non si limita a musicare le (bellissime) poesie di Roversi, mettendoci molto del suo. Nel canto, anzitutto, che non è solo strumento di comunicazione, ma sostanza creativa autonoma. A volte non serve neanche la musica, basta la voce per esprimere l'idea di un brano ("E' lì"); altre volte, se è solo la musica a essere messaggio, come in "Pezzo Zero", il canto si può ridurre a un miscuglio di fonemi. Così disaggregate, le parole perdono ogni senso secondo i tradizionali codici linguistici, acquistando però un'istintiva musicalità, quasi a simboleggiare il ritorno a un primitivismo che scardini l'umanità dalle convenzioni. Un'umanità più che mai alienata, nei meccanismi automatizzati dell'industria ("L'operaio Gerolamo") o nei rituali ripetitivi della quotidianità ("Alla fermata del tram"). La rivalsa sulla ragione de "Il coyote", il guasto nelle macchine ("Il grippaggio") e il ritorno allo spirito innocente de "La "Bambina" non sono che ulteriori riprove di questo anelito "naturalista" che pervade il disco.

Nel secondo capitolo, Anidride solforosa (1975), la coppia è ancor più affiatata: la scrittura di Roversi si cala meglio nel formato-canzone e Dalla canta con debordante verve, al punto da fare persino il verso a una nobildonna emiliana nella splendida title track, immersa in un oceano di proto-computer. Surrogato nocivo dell'aria da respirare, l'anidride solforosa simboleggia l'annebbiamento dell'individuo, la nube tossica che fa "vedere a malapena" le città, in un mondo sempre più robotizzato, in cui "sapremo quante volte fare l'amore e quante volte i fiumi in Italia traboccano".
L'incubo della società industrializzata è ancora una volta il leit-motiv di brani poliedrici, in cui il lato musicale si fa più consistente, tra cori stranianti, vocalizzi strozzati, archi impazziti, cambi improvvisi di ritmo e orchestrazioni para-jazz. Si affastellano ricordi d'infanzia, denunce politiche, ritratti di eccentrici ed emarginati: dalla piccola gitana abbandonata tra i rifiuti ("Carmen Colon") al detenuto del carcere minorile bollato come "Mela da scarto", dagli amici ormai irriconoscibili ("Non era più lui") alla rielaborazione di miti guerrieri (la splendida "Ulisse coperto di sale"), da nostalgie irrisolte ("Tu parlavi una lingua meravigliosa", "Un mazzo di fiori") a invettive anticapitaliste mascherate dal nonsense (lo sproloquio dei titoli azionari de "La borsa valori"). Si chiude con il rompicapo di "Le parole incrociate", in cui il gioco enigmistico si tramuta in una galoppata a ritroso nella storia.

L'ultimo capitolo della trilogia, il concept-album Automobili, è il più travagliato: incappa infatti nella censura della Rca che pretende l'eliminazione di due brani considerati troppo politicizzati. Dalla, a malincuore, accetta, Roversi ritira la firma per protesta, celandosi dietro lo pseudonimo di "Norisso". Il filo rosso resta sempre il rapporto tra l'uomo e il progresso tecnologico, raffigurato nello specifico dalla civiltà dell'automobile. L'auto, anzitutto, come settore nevralgico del potere industriale, già turbato però dai primi sintomi di crisi ("stecco di legno sull'onda"): ecco allora la geniale "Intervista con l'Avvocato", in cui Gianni Agnelli illustra a un cronista del Manchester Guardian il futuro del settore automobilistico; Dalla la interpreta da par suo: fa recitare al padrone della Fiat un comico grammelot pseudo-inglese, canta in "scat" e si produce in un pazzesco "solo" vocale.
Ma auto è anche sinonimo di mito: il mito del progresso, della velocità, del trionfo. E la parabola di Nuvolari ne è la perfetta incarnazione. Introdotta dalle percussioni "tarantellate" di Tony Esposito, la suite di "Mille miglia" si addentra nelle rovine dell'Italia contadina devastata dalla Grande Guerra, che vive col "cuore divorato" le imprese degli assi delle corse. In un'epopea di "spruzzi d'olio e sbruffi di terra", il "mantovano volante" domina la sua vettura: "Nuvola, Nuvolari, sei una nuvola nera!" è il ritornello, illuminato da un charleston alla Bixio. Ma in Nuvolari (e siamo al brano omonimo), Dalla vede anche la proiezione dei suoi limiti fisici: è "basso di statura", "al di sotto del normale", "ha cinquanta chili d'ossa". Limiti superati, però, da una forza sovrannaturale, perché "c'è sempre un numero in più nel destino quando corre Nuvolari" e così anche quando la sua monoposto esce di strada, in un inferno di "acqua, grandine e vento", lui "rinasce come rinasce il ramarro/ batte Varzi, Campari/ Borzacchini e Fagioli/ Brilliperi e Ascari...". Brano leggendario, trascinato da un riff scatenato e da coretti femminili deliziosamente retrò: solo Paolo Conte con la sua "Bartali" riuscirà a dipingere le gesta di un campione con altrettanta poesia.
Nella seconda parte il disco si fa più oscuro. L'incubo autostradale de "L'ingorgo" parte piano, con la voce distorta dall'eco e gli accordi solenni dell'organo, poi prende quota al ritmo degli sbuffi dei synth. E poi arriva l'ode al "Motore del Duemila", che sarà "bello e lucente.../ Avrà lo scarico calibrato e un odore che non inquina/ Lo potrà respirare un bambino o una bambina". Una profezia ottimistica (si pensi agli attuali dispositivi para-ecologici), che invece ghiaccia il sangue, complici anche gli stacchi spettrali dei synth e il dilemma finale: sappiamo tutto sul motore, ma come funzionerà il cuore del ragazzo del Duemila? In tanta caligine, il finale apre un raggio di luce: la storia, sottolineata dagli accordi di un eminent, dei "Due ragazzi", che scelgono un'auto in rottamazione come dimora dei loro incontri d'amore. Ritrovando la propria intimità, l'individuo si è finalmente riappropriato di sé stesso.

Pur musicalmente ostico, il disco ottiene buoni riscontri di pubblico, supportato da buffi spettacoli, vicini al teatro di Dario Fo e Giorgio Gaber. Ma la vicenda della censura ha ormai aperto un solco nel duo bolognese. Roversi torna alla sua attività di poeta, Dalla decide di compiere il grande passo: sarà lui stesso a scrivere i testi delle sue canzoni.

Lucio DallaStomp and go

L'esordio del Dalla paroliere non potrebbe essere più felice. Come è profondo il mare (1977), infatti, sfodera un attacco folgorante: "Siamo noi, siamo in tanti, ci nascondiamo di notte per paura degli automobilisti, dei linotipisti. Siamo i gatti neri, siamo pessimisti, siamo i cattivi pensieri, e non abbiamo da mangiare...". Finalmente consapevole dei propri mezzi espressivi, Dalla si rivela autore sensibile e fantasioso, mescolando idealismo politico e sentimenti, eccentricità e humour.
Come è profondo il mare è un disco di storie quotidiane a sfondo autobiografico, di cani randagi braccati e di anime perse. Un racconto scandito da una varietà di ritmi e stili: il blues, il rock, il soul, lo stomp, la ballata melodica. E' un disco più accessibile, ma ancora denso di richiami allegorici. Il mare della title track, ad esempio, raffigura il pensiero, che "dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce", ma "non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare". E così i potenti si accaniscono sul mare: lo vogliono bruciare, uccidere, umiliare. Cantilena lenta e dolcissima, cadenzata sul basso liquido di Marco Nanni, ti si insinua, inesorabile, nelle orecchie e nel cuore.
Ma è solo l'inizio. Perché c'è da tuffarsi nella tenerezza del "Cucciolo Alfredo", che vaga sperduto nelle vie del centro tra la gente che "con gli occhi per terra prepara la guerra", sognando di fuggire sulle note di una canzone d'amore. Melodia che apre il cuore e testo ispiratissimo, con punte d'ironia bruciante ("la musica andina, che noia mortale!/ sono più di tre anni che si ripete sempre uguale..."; "uno scudo crociato e una stella cometa fanno pubblicità da un muro a una dieta"). La metropoli mostra il suo volto feroce anche in "Corso Buenos Aires", dove un terrone, un cane e un bambino rubano del tonno, un salame e una banana scatenando il "furore sacro" dei tutori dell'ordine. Un'allucinazione urbana a ritmo di blues-rock.
All'elegia fiabesca del primo lato, subentra la sensualità sboccata di "Disperato erotico stomp", che caracolla su un ritmo ripetitivo e beffardo, scandendo la storia di ordinaria depressione di un uomo abbandonato dalla propria donna, dei suoi incontri in una Bologna grottesca (la puttana "ottimista e di sinistra", il berlinese che si è perduto in centro...), del suo autoerotismo consolatorio, unico epilogo possibile. Volgarità, sì, ma arguta e graffiante: intere generazioni di canzonettari italiani, più o meno spiritosi, cercheranno di emularla. Prima dell'epilogo, affidato al nuovo sogno di "Barcarola", c'è ancora tempo per ubriacarsi di malinconia: "Quale allegria" potrà mai esservi quando sei "a letto insieme senza pace/ senza più niente da inventare" e non resta che "farsi anche del male per potersi con dolcezza perdonare, e continuare"? Una semplice ballata pop. Da groppo in gola.

Anche il suono si irrobustisce, grazie a un gruppo di strumentisti bolognesi che poi confluirà in parte negli Stadio (dal tastierista Fabio Liberatori al chitarrista Ricky Portera). Nasce così il tipico "Dalla-sound" del periodo, che mescola timbri mediterranei a cadenze soft-rock. Berretto rosso o blu in testa, braghe di tela e canottiera, Lucio Dalla porta in giro per l'Italia uno show trascinante, rivelando una presenza scenica sconosciuta ai nostri cantautori e cavalcando il successo di Come è profondo il mare.

Il piccolo clown peloso incompreso e dileggiato negli anni 60 diviene una star. Una rivincita per Dalla, il quale, pur restando sempre con i piedi ben saldi nella canzone d'autore, non aveva mai nascosto di mirare al grande pubblico. L'idillio avviene però con una nuova generazione, quella che ha messo da parte "i favolosi anni 60", i Watussi e Bandiera Gialla, e vive tutte le incertezze di un decennio di contraddizioni, nato sulle ceneri del '68 e destinato a spegnersi negli anni di piombo. Dalla è comunista, eccentrico, scomodo, ma i suoi testi, sempre profondamente umani, e il suo grande talento melodico lo rendono sdoganabile anche alla "maggioranza silenziosa" ("quello che dicono le mie canzoni potrebbe dirlo anche mia zia", ha sempre tenuto a ribadire).

Quando esce Lucio Dalla (1978), il botto è servito. Più curato, anche se meno vario del precedente, il disco si affida essenzialmente alla ballata melodica, senza disdegnare improvvisi scatti di ritmo e incursioni in territori blues-rock. Rispetto al passato, emerge soprattutto quella chitarra dalla quale Dalla si era sempre tenuto a distanza, quasi a rimarcare la differenza con i colleghi di impostazione folk (De Gregori, Guccini, Venditti, Vecchioni, De André). La chitarra è però soprattutto quella elettrica di Ricky Portera, che con i suoi "solo" sottolinea gli episodi più rock. Perfettamente funzionali al progetto anche gli inserti di fiati, da sempre cari a Dalla, e gli arrangiamenti d'archi di Giampiero Reverberi, che aggiungono un tocco di epos in più. Testi poetici, giocati sulle assonanze in un miscuglio di lingua colta, sintassi parlata e dialetto, e interpretazioni sanguigne, ricche di colpi di scena, completano un quadro pressoché perfetto.
Colpisce la tenerezza infinita di brani come "Stella di mare" (soft-rock che si impenna in un bell'assolo conclusivo di chitarra) e "Anna e Marco" (lirico quadretto di periferia). Ma dietro la piacevolezza melodica si nascondono anche storie poco tranquillizzanti: dall'apocalisse elettro-rock de "L'ultima luna" (affollata di mostri e foschi presagi, dove "lo scimmione si aggirava tra la giostra e il bar" e perfino "l'angelo di Dio bestemmiava, facendo sforzi di petto"), alla inquietante "Notte", dal grottesco ritratto del Potere impersonato da "La signora" all'amara ode a "Milano", sospesa tra modernità e nostalgia ("poi Milan e Benfica, Milano che fatica..."). E se "Cosa sarà", primo frutto del sodalizio con De Gregori, nasconde la malinconia nel ritmo allegro, "L'anno che verrà" ritrae un'era svogliata ("Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po'..."), in cui il tramonto delle utopie rischia di scivolare nella disillusione. Il verso finale - "Io mi sto preparando, è questa la novità" - può così essere letto come l'ultimo scatto di ottimismo o la definitiva capitolazione al realignment dell'incombente decennio 80. Ballata pressoché perfetta, resterà il suo manifesto definitivo.

Lucio Dalla & Francesco De GregoriAl culmine della popolarità, Dalla parte insieme a Francesco De Gregori per il tour-evento di Banana Republic (1979), dal quale saranno tratti l'omonimo doppio live e un film. Ne scaturiscono anche pezzi inediti, talora un po' ruffiani ("Come fanno i marinai"), talaltra decisamente incisivi (la struggente title track, riadattamento di un brano americano da parte di De Gregori). Tra "l'istrione plebeo di strada" (Dalla) e "il principe malinconico e fascinoso" (De Gregori) - come li definiva l'enfatica stampa di allora - la collaborazione vive sempre sul filo della tensione. Decisivo il ruolo di mediazione del solito Ron, che affianca anche i due sul palco. Banana Republic celebra una Italia che cerca una via d'uscita dagli anni di piombo inseguendo atolli tropicali o eremi politici cubano-caraibici. Sarà un grande successo, con stadi sempre gremiti e 500.000 copie vendute. Il sodalizio tra i due, però, non avrà più seguito.

Futura e altre storie

Dalla (1980) consolida la formula, aggiungendo però un pugno di nuove, formidabili ballate. "Futura" è uno dei suoi massimi capolavori melodici: la riflessione di due innamorati su dubbi e paure del futuro ("Chissà chissà domani/ su che cosa metteremo le mani/ se si potrà contare ancora le onde del mare/ e alzare la testa") si scioglie in un crescendo che combacia con l'orgasmo. L'altra serenata notturna di "Cara" rinnova il miracolo, con un testo di straripante malinconia e una melodia avvolgente, cullata dal piano. Anche "Balla balla ballerino" gioca la carta dell'accelerazione improvvisa di ritmo, spingendo sulla chitarra spavalda di Portera, e sublima nelle mosse di un danzatore vent'anni di pacifismo ("Balla anche per tutti i violenti.../ Se capissero vedendoti ballare/ di essere morti da sempre/ anche se possono respirare").
Ma resta anche l'ironia surreale, che illumina la tragicomica fine di un amore in "Mambo" ("se ne è andata sbattendo la porta, e avevo in mezzo la mano") o personaggi come "Meri Luis", la ragazza triste che però alla fine "ha benedetto il cielo come fosse un fratello, per le sue grandi tette e per l'amico che le vuole toccare".
L'intero disco è un viaggio a ritroso in un tormentato percorso sentimentale. "A metà strada tra Ferrara e la luna", Dalla ritorna nelle giostre dell'infanzia ("Il parco della luna"), si ferma a "fare a pezzi una canzone" nei vicoli di Roma, sognando una "Sera dei miracoli" (e inventandosi un'altra delle sue melodie mozzafiato), interroga perfino delle ottuse divinità sul senso della vita ("Siamo dei"). A queste canzoni non servono effetti speciali. "Che commozione, che tenerezza" annuncia Dalla fin dall'inizio. E' questo il segreto.

Dopo aver espugnato anche il n. 1 delle classifiche senza aver mai venduto l'anima al diavolo, Dalla si avvia alla parabola discendente della sua carriera. Prima, però, c'è spazio ancora per un interessante lavoro, un Q-Disc (1981), in cui alla cover jazzistica della "You've Got A Friend" di Carole King si affiancano un bel blues malinconico ("Madonna disperazione"), un'altra ballata melodica doc ("Telefonami tra vent'anni", sorta di aggiornamento in chiave ancor più rassegnata de "L'anno che verrà") e un pop-rock a tinte un po' grevi ("Ciao a te", dove nel mirino finiscono i padri e i cattivi maestri).

L'epitaffio della stagione d'oro di Lucio Dalla è un tris di concerti a Castel Sant'Angelo (Roma) di fronte a centomila persone. Il tour sarà anche l'occasione per il debutto ufficiale degli Stadio, destinati a una carriera dalle alterne fortune negli anni a venire.
Già con 1983, infatti, l'impressione è che l'incantesimo si sia rotto. I brani sono meno ispirati, la scrittura meno fluida e brillante, le soluzioni armoniche più forzate. La suite omonima, sorta di rassegna di quarant'anni di storia italiana, affoga qualche buona intuizione in un eccesso di verbosità. "Noi come voi" tenta di tenere a galla col ritmo idee un po' bolse. La dance demenziale di "Stronzo" (in "scat") è gradevole, ma innocua. Dalla, semmai, riesce ancora a graffiare quando scava nella malinconia di "L'altra parte del mondo", cui l'uso dell'elettronica conferisce un senso di profondità.

Lucio dove vai? - Gli anni del declino

Resosi conto che qualcosa s'è inceppato, Dalla prova a cambiare registro con Viaggi organizzati (1984). Il passaggio dal sound degli Stadio a quello di Mauro Malavasi riduce gli accenti rock in favore di una elettronica al limite della dance, che dovrebbe rinvigorire le canzoni, e invece le affossa definitivamente. Fa eccezione "Washington", che attornia di pulsazioni sintetiche l'avventura tragicomica di due bombardieri dell'aviazione ("qui c'è solo un sasso... non si vede un casso!"). Il "nuovo" Dalla ha perso la passionalità: è più freddo, cerebrale, studiato. Ha ancora voglia di essere insolente, ma non ha più le armi adatte per riuscire a esserlo.

Due anni dopo, Bugie fa indietro tutta, ritornando al format della ballata, ma paga il prezzo del deja vu. Il singolo "Se io fossi un angelo" tradisce un crollo nella scrittura di proporzioni imbarazzanti. Dalla si aggrappa al mestiere per cesellare un paio di buone canzoni d'amore ("Chissà se lo sai" e "Scusami tanto se ho solo te") e cerca quantomeno di rinnovare la sua verve interpretativa (la vocalità sincopata e nervosa di "Luk", quella più frenetica di "Navigando"). Ma è tutto qui.

Opportunamente, DallAmeriCaruso (1986) cerca allora di riportare l'attenzione sui suoi (sempre ottimi) show dal vivo, documentando un concerto al Village Gate di New York. Ma l'asso nella manica è l'inedita "Caruso", composta in estate nell'albergo di Sorrento dove il tenore Enrico Caruso trascorse i suoi ultimi giorni. Rivisitazione straziante del tema "Te voglio bene assaie" di Donizetti in chiave melodico-napoletana, diverrà uno dei più grandi successi di Dalla, con nove milioni di copie vendute in tutto il mondo in decine di versioni (una delle quali a cura dell'immancabile Pavarotti).

Quando però Dalla decide di imbarcarsi nel tour col vecchio amico Gianni Morandi, campione della canzonetta italiana (Dalla/Morandi, 1988), si intuisce che il suo passato è definitivamente sepolto. Ormai più showman che cantautore, il cantastorie degli anni 70 rischia di trasformarsi rapidamente in macchietta. Cosa che puntualmente avviene qualche mese dopo, quando mette in scena la pantomima di "Attenti al lupo". E' il singolo che trascina al successo Cambio (un milione e mezzo di copie vendute), oscurando due tracce interessanti come "Le rondini" (composta con Malavasi) e "Comunista", rielaborazione di un testo scritto da Roversi quindici anni prima e che suona ora come un doloroso amarcord. Nel complesso, però, il disco è uno stanco ripetersi di stili, suoni e perfino parole (stelle, lune, occhi, mare, mani, telefoni...). Seguirà un prolungato tour, documentato nel live Amen.

Con Henna (1994), se non altro, Dalla mostra di ritrovare a sprazzi la vitalità sardonica degli anni d'oro (la spassosa gag di "Merdman", che torna a raccontare l'emarginazione attraverso la storia di un alieno che finisce in un talk-show) e la voglia di sperimentare qualcosa in più anche sul fronte del sound (la misticheggiante title track, la rielaborazione in chiave moderna del Modugno di "Vecchio Frack" in "Latin Lover"). Una piccola boccata d'ossigeno, insomma. Due anni dopo, tuttavia, Canzoni riprende la parabola discendente. "Ayrton" (ovvero Senna, mito brasiliano della F1) tenta invano di ritrovare l'incanto epico di "Nuvolari", il singolo "Canzone" si affida alla penna di Samuele Bersani ma senza lasciare il segno; l'unica sorpresa, così, è la stridente ghost-track: una reprise di "Disperato erotico stomp" cui segue un inno religioso cantato da un monaco con il solo accompagnamento di organo. Come a dire: il profano e il sacro...

Premiato anche con la laurea honoris causa del Dams di Bologna in "Discipline dell'arte, musica e spettacolo", nel 1999 Dalla pubblica Ciao, che vorrebbe dire salutare il secolo nel clima mesto dei Balcani in fiamme, ma è un altro flop (la title track, con la voce filtrata e resa irriconoscibile, verrà perfino usata come segreteria del numero verde Telecom!). Luna Matàna (2001) prolunga l'agonia, tra archi fuori misura, inopportuni ricorsi al vocoder e sfacciati ammiccamenti commerciali (la stanca ode calcistica di "Baggio Baggio", la patacca gitana à la Gipsy Kings di "Zingaro"); limitano appena i danni "Kamikaze", cupa profezia dei nostri giorni, e la più lineare "Siciliano", appena "disturbata" da un fugace intervento di Carmen Consoli.
Nel 2001 Einaudi gli dedica "Parole e canzoni" (2001), un cofanetto con tutti i testi delle canzoni e un video; nello stesso anno Dalla pubblica il suo primo libro di racconti "Bella Lavita", edito da Rizzoli.

In pieno delirio artistico, Dalla abbraccia perfino la lirica, con il melenso polpettone di Tosca. Amore disperato (2003), ispirato all'opera di Puccini. La serata ad hoc nel salotto di Bruno Vespa incornicia malinconicamente il crepuscolo dell'ex menestrello politico degli anni 70. Nello stesso periodo esce il nuovo album Lucio, che assembla tracce eterogenee, come il tema del film "Prima dammi un bacio" di Ambrogio Lo Giudice, canzoni stiracchiate come "Le stelle nel sacco", "Yesterday o Lady Jane?", due estratti da "Tosca" ("Per Te" e "Amore disperato", cantata in duetto con Mina), più un ripescaggio del tema del mago di Oz ("Over the Rainbow") di cui invero non si sentiva la necessità.

Nel frattempo, Dalla ha portato avanti una carriera parallela come compositore di colonne sonore, per Monicelli, Antonioni, Giannarelli, Verdone, Campiotti, Placido e altri. La sua predisposizione alla tv lo ha spinto a imbarcarsi in trasmissioni Rai più o meno di successo come "Taxi", "Te voglio bene assaje", "Mezzanotte: angeli in piazza" e il famigerato "La Bella e la Besthia", insieme a Sabrina Ferilli. Ma della sua musica, ormai, è rimasta solo l'ombra.

Come spesso accade in questi casi, si fa presto a inchiodare un artista alle miserie del suo presente, rimuovendo dalla memoria collettiva ciò che di buono aveva fatto in precedenza. Una operazione sempre disonesta e che, nel caso di Dalla, sarebbe perfino delittuosa. Tanto più per un paese che, di cantautori del suo rango, ne ha conosciuti pochi, se non pochissimi.


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