L'immagine odierna di Lucio Dalla
si presta a inquietanti analogie con quella del celebre "scimmione senza
ragione" di una vecchia canzone del Banco.
Prima però che un delirio pre-senile lo colpisse, proiettandolo da improbabili
balli coi lupi ad ancor più opinabili musical-operette, l'uomo nato il
4 marzo 1943 si è rivelato uno dei più innovativi e versatili interpreti
della canzone italiana. Merito di una serie consecutiva di album che ha donato
nuova linfa allo stagnante paesaggio musicale nostrano. Questa monografia ha quindi
un duplice obiettivo: discernere il grano dalla gramigna nella sua vasta produzione
e indurre qualche detrattore dell'ultim'ora a un ri-ascolto più mirato.
Dai
Flippers a Gesù Bambino La storia non può
non iniziare il 4 marzo 1943. Oltre a segnare la nascita di Lucio Dalla, infatti,
la data diverrà anche il titolo di uno dei suoi grandi classici, meglio
noto come "Gesù Bambino". Niente porti, però, né
marinai a fargli da contorno, bensì la Bologna del dopoguerra, pronta a
trainare l'Italia negli anni del boom. Lucio è un ragazzino sgraziato e
irrequieto, con il pallino della musica. Suona il clarinetto, passando dal repertorio
popolare emiliano al jazz di New Orleans. Inizia a esibirsi in pubblico fin da
giovanissimo: sale da ballo a iosa, poi il jazz tradizionale, a Roma. Prima una
breve militanza nella Reno Jazz Gang, poi l'approdo nella Second Roman New Orleans
Jazz Band e infine nei Flippers, ensemble nato sotto l'egida del maestro Carlo
Loffredo con, tra gli altri, Fabrizio Zampa, Massimo Catalano e Franco Bracardi. Dalla
è un ottimo clarinettista e un buffo cantante, che sperimenta tecniche
ignote alla realtà italiana dell'epoca: vocalizzi estemporanei in stile
"scat" (poi ripresi goffamente anche da Celentano), escursioni vocali
disarmoniche al limite della stonatura, uno stile "black" che si rifà
più alle asprezze proto-funk di James Brown che al "bel canto"
soul di Marvin Gaye. E' Gino Paoli
a scoprirlo e ad avviarlo alla carriera solista: in lui vede il primo cantante
soul italiano. Ma soul, jazz e canzone sono per Dalla solo ingredienti per buffi
divertissement musicali, scritti quasi per gioco. E infatti molti di questi
non vengono neanche trasposti su vinile. Dal vivo, poi, l'esito è disastroso.
Al Cantagiro del 1965 sono più i pomodori sul palco che gli applausi. Dalla
è un provocatore: se ne infischia della etichetta, va in giro vestito male,
canta (per l'epoca) male, si pone male. Ed è anche parecchio bruttino.
Di una bruttezza ispida, scontrosa, che non muove a simpatia o a tenerezza come
quella del "molleggiato" Celentano. All'Italia che canta "Non ho
l'età" e lascia alla deriva Luigi Tenco, uno così non può
piacere. Testardamente,
però, Dalla va avanti. Dal 1965 al 1970 prosegue il suo percorso eccentrico,
che spesso entra in contatto con il movimento beat. Nel 1966 scende
nell'arena del festival di Sanremo con "Paff... bum": al suo fianco
nientedimeno che gli Yardbirds, leggendario gruppo-culla del blues rock inglese.
Il pezzo, firmato da Reverberi e Bardotti, è bislacco, canzonatorio (il
titolo vorrebbe simulare il battito del cuore quando incontra una ragazza!), ma
allineato ai suoni dei tempi. Passerà praticamente inosservato. Nello
stesso anno Dalla pubblica il suo primo album, 1999. Un guazzabuglio di
matrice jazz-pop, che alterna tracce brillanti, come la title track e la
raffinata "Tutto il male del mondo" (riproposta più di trent'anni
dopo col nuovo titolo di "Amici"), a esperimenti velleitari ("Lsd",
"Quando ero soldato"). L'album è un fiasco
e nei quattro anni successivi Dalla appare confuso, indeciso se proseguire nella
sua opera di dissacrazione dei feticismi canzonettari o cedere alle sirene dell'industria
discografica. Nel 1967 partecipa di nuovo al Festival della canzone insieme ai
Rokes con "Bisogna saper perdere" e fa da spalla addirittura a Jimi
Hendrix nel concerto al Piper di Milano. Brani toccanti come "Lucio dove
vai" e "Il cielo" dimostrano che il talento non l'ha abbandonato.
E la sua tenacia è premiata nel 1970 dal primo successo come compositore:
Gianni Morandi incide la sua "Occhi di ragazza" e la porta in vetta
alle classifiche. Il pezzo non vale granché, ma è grazie ad esso
che l'Italia gli schiude le porte. All'inizio del nuovo
decennio, Dalla piazza subito una zampata. L'album Terra di Gaibola (1970),
infatti, sfoggia alcune delle sue canzoni più graffianti del periodo -
da "Il fiume e la città" a "Non sono matto (o la capra Elisabetta)",
primo testo uscito dalla sua penna, musicato da Gino Paoli - più una efficace
reinterpretazione di "Occhi di ragazza" e un paio di ballate più
fiacche come "Sylvie" e "Dolce Susanna", quest'ultima composta
per un giovanissimo Ron. Gli arrangiamenti dei fratelli De Angelis (meglio noti
in seguito come Oliver Onions) sono calibrati. E i testi di autori come Sergio
Bardotti, Gianfranco Baldazzi e Paola Pallottino ammantano il disco d'un lirismo
trasognato, in cui la periferia bolognese di Gaibola assurge a luogo leggendario. Storie
di casa mia (1971) conferma la sua vena a corrente alternata, tra piccoli
gioielli di struggente pop melodico ("La casa in riva al mare", "Per
due innamorati" e "Il gigante e la bambina", destinato a divenire
uno degli hit dell'amico Ron), confusi quadretti naif ("Un uomo come me",
"Il bambino di fumo") e vere cadute di stile (il pacchiano coro di "Itaca"). Ma
a trascinare il disco è il singolo "4 marzo 1943" di cui sopra,
benedetto tra i fiori di Sanremo e lanciato anche in Brasile (nella versione di
Chico Buarque De Hollanda), in Francia (a cura di Dalida) e in Giappone. E' una
fiaba agrodolce, firmata da Paola Pallottino e accompagnata solo dal violino "alticcio"
di Renzo Fontanella: Dalla la interpreta con piglio da cantastorie, esaltandone
lo spirito dissacrante (la canzone sarà vieppiù censurata) e bohémienne.
Uno spirito che troverà ancor più compiuta affermazione un anno
dopo nel clochard della struggente "Piazza Grande", che farà
inumidire gli occhi anche al compassato pubblico del Teatro Ariston. Il
motore del Duemila Dalla è pronto per il grande
salto. Non vuole però sfruttare la comoda scia sanremese, e si imbarca
così in una scommessa ad alto rischio: una trilogia in collaborazione con
il poeta bolognese Roberto Roversi, intellettuale marxista e fondatore, insieme
a Pasolini e Fortini, della rivista letteraria "Officina". Invece di
cavalcare la tradizione della canzone popolare, come stavano facendo con successo
molti suoi colleghi (da Battisti in giù), Dalla la prende di petto e la
fa a pezzettini: arrangiamenti stranianti, linee melodiche eccentriche, suoni
e rumori "concreti", storie spiazzanti e interpretazioni vocali d'impronta
jazzistica, tutte giocate sulle improvvisazioni e sui cambi di registro, compongono
un universo musicale avanti anni luce rispetto alla scena italiana dell'epoca
(e di gran parte di quella a venire). La "canzone politica" di Dalla
e Roversi dà voce alle ansie di quella Italia che non si piega alle "verità
ufficiali", che vuole bucare il muro di gomma del potere e del perbenismo,
che reclama un cambiamento profondo della società. L'esordio
del duo, Il giorno aveva cinque teste (1973), è un album multiforme
ed ermetico, discontinuo, ma illuminato da sprazzi geniali. Il lirismo di Roversi
fa emergere una livida vena di denuncia sociale rimasta fino a quel momento sottotraccia
nel canzoniere di Dalla. "Questo luogo del cielo è chiamato Torino/
lunghi e grandi viali/ splendidi monti di neve/ illuminate tutte le sponde del
Po/ mattoni su mattoni/ sono condannati i terroni/ a costruire per gli altri/
appartamenti da 50 milioni", è la chiusa di "Un'auto targata
Torino", spicchio agro d'immigrazione (e speculazione edilizia) nel falso
eldorado del Nord. Dalla non si limita a musicare le (bellissime) poesie di
Roversi, mettendoci molto del suo. Nel canto, anzitutto, che non è solo
strumento di comunicazione, ma sostanza creativa autonoma. A volte non serve neanche
la musica, basta la voce per esprimere l'idea di un brano ("E' lì");
altre volte, se è solo la musica a essere messaggio, come in "Pezzo
Zero", il canto si può ridurre a un miscuglio di fonemi. Così
disaggregate, le parole perdono ogni senso secondo i tradizionali codici linguistici,
acquistando però un'istintiva musicalità, quasi a simboleggiare
il ritorno a un primitivismo che scardini l'umanità dalle convenzioni.
Un'umanità più che mai alienata, nei meccanismi automatizzati dell'industria
("L'operaio Gerolamo") o nei rituali ripetitivi della quotidianità
("Alla fermata del tram"). La rivalsa sulla ragione de "Il coyote",
il guasto nelle macchine ("Il grippaggio") e il ritorno allo spirito
innocente de "La "Bambina" non sono che ulteriori riprove di questo
anelito "naturalista" che pervade il disco. Nel
secondo capitolo, Anidride solforosa (1975), la coppia è ancor più
affiatata: la scrittura di Roversi si cala meglio nel formato-canzone e Dalla
canta con debordante verve, al punto da fare persino il verso a una nobildonna
emiliana nella splendida title track, immersa in un oceano di proto-computer.
Surrogato nocivo dell'aria da respirare, l'anidride solforosa simboleggia l'annebbiamento
dell'individuo, la nube tossica che fa "vedere a malapena" le città,
in un mondo sempre più robotizzato, in cui "sapremo quante volte fare
l'amore e quante volte i fiumi in Italia traboccano". L'incubo della
società industrializzata è ancora una volta il leit-motiv
di brani poliedrici, in cui il lato musicale si fa più consistente, tra
cori stranianti, vocalizzi strozzati, archi impazziti, cambi improvvisi di ritmo
e orchestrazioni para-jazz. Si affastellano ricordi d'infanzia, denunce politiche,
ritratti di eccentrici ed emarginati: dalla piccola gitana abbandonata tra i rifiuti
("Carmen Colon") al detenuto del carcere minorile bollato come "Mela
da scarto", dagli amici ormai irriconoscibili ("Non era più lui")
alla rielaborazione di miti guerrieri (la splendida "Ulisse coperto di sale"),
da nostalgie irrisolte ("Tu parlavi una lingua meravigliosa", "Un
mazzo di fiori") a invettive anticapitaliste mascherate dal nonsense
(lo sproloquio dei titoli azionari de "La borsa valori"). Si chiude
con il rompicapo di "Le parole incrociate", in cui il gioco enigmistico
si tramuta in una galoppata a ritroso nella storia. L'ultimo
capitolo della trilogia, il concept-album Automobili, è il
più travagliato: incappa infatti nella censura della Rca che pretende l'eliminazione
di due brani considerati troppo politicizzati. Dalla, a malincuore, accetta, Roversi
ritira la firma per protesta, celandosi dietro lo pseudonimo di "Norisso".
Il filo rosso resta sempre il rapporto tra l'uomo e il progresso tecnologico,
raffigurato nello specifico dalla civiltà dell'automobile. L'auto, anzitutto,
come settore nevralgico del potere industriale, già turbato però
dai primi sintomi di crisi ("stecco di legno sull'onda"): ecco allora
la geniale "Intervista con l'Avvocato", in cui Gianni Agnelli illustra
a un cronista del Manchester Guardian il futuro del settore automobilistico;
Dalla la interpreta da par suo: fa recitare al padrone della Fiat un comico grammelot
pseudo-inglese, canta in "scat" e si produce in un pazzesco "solo"
vocale. Ma auto è anche sinonimo di mito: il mito del progresso, della
velocità, del trionfo. E la parabola di Nuvolari ne è la perfetta
incarnazione. Introdotta dalle percussioni "tarantellate" di Tony
Esposito, la suite di "Mille miglia" si addentra nelle rovine
dell'Italia contadina devastata dalla Grande Guerra, che vive col "cuore
divorato" le imprese degli assi delle corse. In un'epopea di "spruzzi
d'olio e sbruffi di terra", il "mantovano volante" domina la sua
vettura: "Nuvola, Nuvolari, sei una nuvola nera!" è il ritornello,
illuminato da un charleston alla Bixio. Ma in Nuvolari (e siamo al brano omonimo),
Dalla vede anche la proiezione dei suoi limiti fisici: è "basso di
statura", "al di sotto del normale", "ha cinquanta chili d'ossa".
Limiti superati, però, da una forza sovrannaturale, perché "c'è
sempre un numero in più nel destino quando corre Nuvolari" e così
anche quando la sua monoposto esce di strada, in un inferno di "acqua, grandine
e vento", lui "rinasce come rinasce il ramarro/ batte Varzi, Campari/
Borzacchini e Fagioli/ Brilliperi e Ascari...". Brano leggendario, trascinato
da un riff scatenato e da coretti femminili deliziosamente retrò: solo
Paolo Conte con la sua "Bartali"
riuscirà a dipingere le gesta di un campione con altrettanta poesia. Nella
seconda parte il disco si fa più oscuro. L'incubo autostradale de "L'ingorgo"
parte piano, con la voce distorta dall'eco e gli accordi solenni dell'organo,
poi prende quota al ritmo degli sbuffi dei synth. E poi arriva l'ode al "Motore
del Duemila", che sarà "bello e lucente.../ Avrà lo scarico
calibrato e un odore che non inquina/ Lo potrà respirare un bambino o una
bambina". Una profezia ottimistica (si pensi agli attuali dispositivi para-ecologici),
che invece ghiaccia il sangue, complici anche gli stacchi spettrali dei synth
e il dilemma finale: sappiamo tutto sul motore, ma come funzionerà il cuore
del ragazzo del Duemila? In tanta caligine, il finale apre un raggio di luce:
la storia, sottolineata dagli accordi di un eminent, dei "Due ragazzi",
che scelgono un'auto in rottamazione come dimora dei loro incontri d'amore. Ritrovando
la propria intimità, l'individuo si è finalmente riappropriato di
sé stesso. Pur musicalmente ostico, il disco ottiene
buoni riscontri di pubblico, supportato da buffi spettacoli, vicini al teatro
di Dario Fo e Giorgio Gaber. Ma
la vicenda della censura ha ormai aperto un solco nel duo bolognese. Roversi torna
alla sua attività di poeta, Dalla decide di compiere il grande passo: sarà
lui stesso a scrivere i testi delle sue canzoni. Stomp
and go L'esordio del Dalla paroliere non potrebbe essere
più felice. Come è profondo il mare (1977), infatti, sfodera
un attacco folgorante: "Siamo noi, siamo in tanti, ci nascondiamo di notte
per paura degli automobilisti, dei linotipisti. Siamo i gatti neri, siamo pessimisti,
siamo i cattivi pensieri, e non abbiamo da mangiare...". Finalmente consapevole
dei propri mezzi espressivi, Dalla si rivela autore sensibile e fantasioso, mescolando
idealismo politico e sentimenti, eccentricità e humour. Come è
profondo il mare è un disco di storie quotidiane a sfondo autobiografico,
di cani randagi braccati e di anime perse. Un racconto scandito da una varietà
di ritmi e stili: il blues, il rock, il soul, lo stomp, la ballata melodica. E'
un disco più accessibile, ma ancora denso di richiami allegorici. Il mare
della title track, ad esempio, raffigura il pensiero, che "dà
fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce", ma "non lo
puoi bloccare, non lo puoi recintare". E così i potenti si accaniscono
sul mare: lo vogliono bruciare, uccidere, umiliare. Cantilena lenta e dolcissima,
cadenzata sul basso liquido di Marco Nanni, ti si insinua, inesorabile, nelle
orecchie e nel cuore. Ma è solo l'inizio. Perché c'è da
tuffarsi nella tenerezza del "Cucciolo Alfredo", che vaga sperduto nelle
vie del centro tra la gente che "con gli occhi per terra prepara la guerra",
sognando di fuggire sulle note di una canzone d'amore. Melodia che apre il cuore
e testo ispiratissimo, con punte d'ironia bruciante ("la musica andina, che
noia mortale!/ sono più di tre anni che si ripete sempre uguale...";
"uno scudo crociato e una stella cometa fanno pubblicità da un muro
a una dieta"). La metropoli mostra il suo volto feroce anche in "Corso
Buenos Aires", dove un terrone, un cane e un bambino rubano del tonno, un
salame e una banana scatenando il "furore sacro" dei tutori dell'ordine.
Un'allucinazione urbana a ritmo di blues-rock. All'elegia fiabesca del primo
lato, subentra la sensualità sboccata di "Disperato erotico stomp",
che caracolla su un ritmo ripetitivo e beffardo, scandendo la storia di ordinaria
depressione di un uomo abbandonato dalla propria donna, dei suoi incontri in una
Bologna grottesca (la puttana "ottimista e di sinistra", il berlinese
che si è perduto in centro...), del suo autoerotismo consolatorio, unico
epilogo possibile. Volgarità, sì, ma arguta e graffiante: intere
generazioni di canzonettari italiani, più o meno spiritosi, cercheranno
di emularla. Prima dell'epilogo, affidato al nuovo sogno di "Barcarola",
c'è ancora tempo per ubriacarsi di malinconia: "Quale allegria"
potrà mai esservi quando sei "a letto insieme senza pace/ senza più
niente da inventare" e non resta che "farsi anche del male per potersi
con dolcezza perdonare, e continuare"? Una semplice ballata pop. Da groppo
in gola. Anche il suono si irrobustisce, grazie a un gruppo
di strumentisti bolognesi che poi confluirà in parte negli Stadio (dal
tastierista Fabio Liberatori al chitarrista Ricky Portera). Nasce così
il tipico "Dalla-sound" del periodo, che mescola timbri mediterranei
a cadenze soft-rock. Berretto rosso o blu in testa, braghe di tela e canottiera,
Lucio Dalla porta in giro per l'Italia uno show trascinante, rivelando una presenza
scenica sconosciuta ai nostri cantautori e cavalcando il successo di Come è
profondo il mare. Il piccolo clown peloso incompreso
e dileggiato negli anni 60 diviene una star. Una rivincita per Dalla, il quale,
pur restando sempre con i piedi ben saldi nella canzone d'autore, non aveva mai
nascosto di mirare al grande pubblico. L'idillio avviene però con una nuova
generazione, quella che ha messo da parte "i favolosi anni 60", i Watussi
e Bandiera Gialla, e vive tutte le incertezze di un decennio di contraddizioni,
nato sulle ceneri del '68 e destinato a spegnersi negli anni di piombo. Dalla
è comunista, eccentrico, scomodo, ma i suoi testi, sempre profondamente
umani, e il suo grande talento melodico lo rendono sdoganabile anche alla "maggioranza
silenziosa" ("quello che dicono le mie canzoni potrebbe dirlo anche
mia zia", ha sempre tenuto a ribadire). Quando esce
Lucio Dalla (1978), il botto è servito. Più curato, anche
se meno vario del precedente, il disco si affida essenzialmente alla ballata melodica,
senza disdegnare improvvisi scatti di ritmo e incursioni in territori blues-rock.
Rispetto al passato, emerge soprattutto quella chitarra dalla quale Dalla si era
sempre tenuto a distanza, quasi a rimarcare la differenza con i colleghi di impostazione
folk (De Gregori, Guccini,
Venditti, Vecchioni, De André).
La chitarra è però soprattutto quella elettrica di Ricky Portera,
che con i suoi "solo" sottolinea gli episodi più rock. Perfettamente
funzionali al progetto anche gli inserti di fiati, da sempre cari a Dalla, e gli
arrangiamenti d'archi di Giampiero Reverberi, che aggiungono un tocco di epos
in più. Testi poetici, giocati sulle assonanze in un miscuglio di lingua
colta, sintassi parlata e dialetto, e interpretazioni sanguigne, ricche di colpi
di scena, completano un quadro pressoché perfetto. Colpisce la tenerezza
infinita di brani come "Stella di mare" (soft-rock che si impenna
in un bell'assolo conclusivo di chitarra) e "Anna e Marco" (lirico quadretto
di periferia). Ma dietro la piacevolezza melodica si nascondono anche storie poco
tranquillizzanti: dall'apocalisse elettro-rock de "L'ultima luna" (affollata
di mostri e foschi presagi, dove "lo scimmione si aggirava tra la giostra
e il bar" e perfino "l'angelo di Dio bestemmiava, facendo sforzi di
petto"), alla inquietante "Notte", dal grottesco ritratto del Potere
impersonato da "La signora" all'amara ode a "Milano", sospesa
tra modernità e nostalgia ("poi Milan e Benfica, Milano che fatica...").
E se "Cosa sarà", primo frutto del sodalizio con De Gregori,
nasconde la malinconia nel ritmo allegro, "L'anno che verrà"
ritrae un'era svogliata ("Caro amico ti scrivo, così mi distraggo
un po'..."), in cui il tramonto delle utopie rischia di scivolare nella disillusione.
Il verso finale - "Io mi sto preparando, è questa la novità"
- può così essere letto come l'ultimo scatto di ottimismo o la definitiva
capitolazione al realignment dell'incombente decennio 80. Ballata pressoché
perfetta, resterà il suo manifesto definitivo. Al
culmine della popolarità, Dalla parte insieme a Francesco
De Gregori per il tour-evento di Banana Republic (1979), dal quale
saranno tratti l'omonimo doppio live e un film. Ne scaturiscono anche pezzi
inediti, talora un po' ruffiani ("Come fanno i marinai"), talaltra decisamente
incisivi (la struggente title track, riadattamento di un brano americano
da parte di De Gregori). Tra "l'istrione plebeo di strada" (Dalla) e "il principe
malinconico e fascinoso" (De Gregori) - come li definiva l'enfatica stampa di
allora - la collaborazione vive sempre sul filo della tensione. Decisivo il ruolo
di mediazione del solito Ron, che affianca anche i due sul palco. Banana Republic
celebra una Italia che cerca una via d'uscita dagli anni di piombo inseguendo
atolli tropicali o eremi politici cubano-caraibici. Sarà un grande successo,
con stadi sempre gremiti e 500.000 copie vendute. Il sodalizio tra i due, però,
non avrà più seguito. Futura e altre storie Dalla
(1980) consolida la formula, aggiungendo però un pugno di nuove, formidabili
ballate. "Futura" è uno dei suoi massimi capolavori melodici:
la riflessione di due innamorati su dubbi e paure del futuro ("Chissà
chissà domani/ su che cosa metteremo le mani/ se si potrà contare
ancora le onde del mare/ e alzare la testa") si scioglie in un crescendo
che combacia con l'orgasmo. L'altra serenata notturna di "Cara" rinnova
il miracolo, con un testo di straripante malinconia e una melodia avvolgente,
cullata dal piano. Anche "Balla balla ballerino" gioca la carta dell'accelerazione
improvvisa di ritmo, spingendo sulla chitarra spavalda di Portera, e sublima nelle
mosse di un danzatore vent'anni di pacifismo ("Balla anche per tutti i violenti.../
Se capissero vedendoti ballare/ di essere morti da sempre/ anche se possono respirare").
Ma resta anche l'ironia surreale, che illumina la tragicomica fine di un amore
in "Mambo" ("se ne è andata sbattendo la porta, e avevo
in mezzo la mano") o personaggi come "Meri Luis", la ragazza triste
che però alla fine "ha benedetto il cielo come fosse un fratello,
per le sue grandi tette e per l'amico che le vuole toccare". L'intero
disco è un viaggio a ritroso in un tormentato percorso sentimentale. "A
metà strada tra Ferrara e la luna", Dalla ritorna nelle giostre dell'infanzia
("Il parco della luna"), si ferma a "fare a pezzi una canzone"
nei vicoli di Roma, sognando una "Sera dei miracoli" (e inventandosi
un'altra delle sue melodie mozzafiato), interroga perfino delle ottuse divinità
sul senso della vita ("Siamo dei"). A queste canzoni non servono effetti
speciali. "Che commozione, che tenerezza" annuncia Dalla fin dall'inizio.
E' questo il segreto. Dopo aver espugnato anche il n. 1 delle
classifiche senza aver mai venduto l'anima al diavolo, Dalla si avvia alla parabola
discendente della sua carriera. Prima, però, c'è spazio ancora per
un interessante lavoro, un Q-Disc (1981), in cui alla cover jazzistica
della "You've Got A Friend" di Carole
King si affiancano un bel blues malinconico ("Madonna disperazione"),
un'altra ballata melodica doc ("Telefonami tra vent'anni", sorta di
aggiornamento in chiave ancor più rassegnata de "L'anno che verrà")
e un pop-rock a tinte un po' grevi ("Ciao a te", dove nel mirino finiscono
i padri e i cattivi maestri). L'epitaffio della stagione
d'oro di Lucio Dalla è un tris di concerti a Castel Sant'Angelo (Roma)
di fronte a centomila persone. Il tour sarà anche l'occasione per il debutto
ufficiale degli Stadio, destinati a una carriera dalle alterne fortune negli anni
a venire. Già con 1983, infatti, l'impressione è che l'incantesimo
si sia rotto. I brani sono meno ispirati, la scrittura meno fluida e brillante,
le soluzioni armoniche più forzate. La suite omonima, sorta di rassegna
di quarant'anni di storia italiana, affoga qualche buona intuizione in un eccesso
di verbosità. "Noi come voi" tenta di tenere a galla col ritmo
idee un po' bolse. La dance demenziale di "Stronzo" (in "scat")
è gradevole, ma innocua. Dalla, semmai, riesce ancora a graffiare quando
scava nella malinconia di "L'altra parte del mondo", cui l'uso dell'elettronica
conferisce un senso di profondità. Lucio dove vai?
- Gli anni del declino Resosi conto che qualcosa s'è
inceppato, Dalla prova a cambiare registro con Viaggi organizzati (1984).
Il passaggio dal sound degli Stadio a quello di Mauro Malavasi riduce gli
accenti rock in favore di una elettronica al limite della dance, che dovrebbe
rinvigorire le canzoni, e invece le affossa definitivamente. Fa eccezione "Washington",
che attornia di pulsazioni sintetiche l'avventura tragicomica di due bombardieri
dell'aviazione ("qui c'è solo un sasso... non si vede un casso!").
Il "nuovo" Dalla ha perso la passionalità: è più
freddo, cerebrale, studiato. Ha ancora voglia di essere insolente, ma non ha più
le armi adatte per riuscire a esserlo. Due anni dopo, Bugie
fa indietro tutta, ritornando al format della ballata, ma paga il prezzo
del deja vu. Il singolo "Se io fossi un angelo" tradisce un crollo
nella scrittura di proporzioni imbarazzanti. Dalla si aggrappa al mestiere per
cesellare un paio di buone canzoni d'amore ("Chissà se lo sai"
e "Scusami tanto se ho solo te") e cerca quantomeno di rinnovare la
sua verve interpretativa (la vocalità sincopata e nervosa di "Luk",
quella più frenetica di "Navigando"). Ma è tutto qui. Opportunamente,
DallAmeriCaruso (1986) cerca allora di riportare l'attenzione sui suoi
(sempre ottimi) show dal vivo, documentando un concerto al Village Gate di New
York. Ma l'asso nella manica è l'inedita "Caruso", composta in
estate nell'albergo di Sorrento dove il tenore Enrico Caruso trascorse i suoi
ultimi giorni. Rivisitazione straziante del tema "Te voglio bene assaie"
di Donizetti in chiave melodico-napoletana, diverrà uno dei più
grandi successi di Dalla, con nove milioni di copie vendute in tutto il mondo
in decine di versioni (una delle quali a cura dell'immancabile Pavarotti). Quando
però Dalla decide di imbarcarsi nel tour col vecchio amico Gianni Morandi,
campione della canzonetta italiana (Dalla/Morandi, 1988), si intuisce che
il suo passato è definitivamente sepolto. Ormai più showman
che cantautore, il cantastorie degli anni 70 rischia di trasformarsi rapidamente
in macchietta. Cosa che puntualmente avviene qualche mese dopo, quando mette in
scena la pantomima di "Attenti al lupo". E' il singolo che trascina
al successo Cambio (un milione e mezzo di copie vendute), oscurando due
tracce interessanti come "Le rondini" (composta con Malavasi) e "Comunista",
rielaborazione di un testo scritto da Roversi quindici anni prima e che suona
ora come un doloroso amarcord. Nel complesso, però, il disco è uno
stanco ripetersi di stili, suoni e perfino parole (stelle, lune, occhi, mare,
mani, telefoni...). Seguirà un prolungato tour, documentato nel live Amen. Con
Henna (1994), se non altro, Dalla mostra di ritrovare a sprazzi la vitalità
sardonica degli anni d'oro (la spassosa gag di "Merdman", che torna
a raccontare l'emarginazione attraverso la storia di un alieno che finisce in
un talk-show) e la voglia di sperimentare qualcosa in più anche
sul fronte del sound (la misticheggiante title track, la rielaborazione
in chiave moderna del Modugno di "Vecchio Frack" in "Latin Lover").
Una piccola boccata d'ossigeno, insomma. Due anni dopo, tuttavia, Canzoni
riprende la parabola discendente. "Ayrton" (ovvero Senna, mito brasiliano
della F1) tenta invano di ritrovare l'incanto epico di "Nuvolari", il
singolo "Canzone" si affida alla penna di Samuele Bersani ma senza lasciare
il segno; l'unica sorpresa, così, è la stridente ghost-track:
una reprise di "Disperato erotico stomp" cui segue un inno religioso
cantato da un monaco con il solo accompagnamento di organo. Come a dire: il profano
e il sacro... Premiato anche con la laurea honoris causa
del Dams di Bologna in "Discipline dell'arte, musica e spettacolo",
nel 1999 Dalla pubblica Ciao, che vorrebbe dire salutare il secolo nel
clima mesto dei Balcani in fiamme, ma è un altro flop (la title track,
con la voce filtrata e resa irriconoscibile, verrà perfino usata come segreteria
del numero verde Telecom!). Luna Matàna (2001) prolunga l'agonia,
tra archi fuori misura, inopportuni ricorsi al vocoder e sfacciati ammiccamenti
commerciali (la stanca ode calcistica di "Baggio Baggio", la patacca
gitana à la Gipsy Kings di "Zingaro"); limitano appena i danni
"Kamikaze", cupa profezia dei nostri giorni, e la più lineare
"Siciliano", appena "disturbata" da un fugace intervento di
Carmen Consoli. Nel 2001
Einaudi gli dedica "Parole e canzoni" (2001), un cofanetto con tutti
i testi delle canzoni e un video; nello stesso anno Dalla pubblica il suo primo
libro di racconti "Bella Lavita", edito da Rizzoli. In
pieno delirio artistico, Dalla abbraccia perfino la lirica, con il melenso polpettone
di Tosca. Amore disperato (2003), ispirato all'opera di Puccini. La serata
ad hoc nel salotto di Bruno Vespa incornicia malinconicamente il crepuscolo
dell'ex menestrello politico degli anni 70. Nello stesso periodo esce il nuovo
album Lucio, che assembla tracce eterogenee, come il tema del film "Prima
dammi un bacio" di Ambrogio Lo Giudice, canzoni stiracchiate come "Le
stelle nel sacco", "Yesterday o Lady Jane?", due estratti da "Tosca"
("Per Te" e "Amore disperato", cantata in duetto con Mina),
più un ripescaggio del tema del mago di Oz ("Over the Rainbow")
di cui invero non si sentiva la necessità. Nel frattempo,
Dalla ha portato avanti una carriera parallela come compositore di colonne sonore,
per Monicelli, Antonioni, Giannarelli, Verdone, Campiotti, Placido e altri. La
sua predisposizione alla tv lo ha spinto a imbarcarsi in trasmissioni Rai più
o meno di successo come "Taxi", "Te voglio bene assaje", "Mezzanotte:
angeli in piazza" e il famigerato "La Bella e la Besthia", insieme
a Sabrina Ferilli. Ma della sua musica, ormai, è rimasta solo l'ombra. Come
spesso accade in questi casi, si fa presto a inchiodare un artista alle miserie
del suo presente, rimuovendo dalla memoria collettiva ciò che di buono
aveva fatto in precedenza. Una operazione sempre disonesta e che, nel caso di
Dalla, sarebbe perfino delittuosa. Tanto più per un paese che, di cantautori
del suo rango, ne ha conosciuti pochi, se non pochissimi. | |