Poetico
e graffiante, discepolo dei migliori folksinger d'oltreoceano, Francesco
De Gregori è uno dei capostipiti della canzone "made in Italy". Nonostante
lui stesso abbia più volte affermato di non gradire quella definizione,
a tutt'oggi rappresenta il prototipo di "cantautore" italiano, per il
suo modo di comporre e interpretare le canzoni, utilizzando testi ricchi di metafore,
di costrutti logico-sintattici inusuali, e accompagnandoli con una musica defilata,
ma originale e complessa, pur affidandosi quasi sempre a strumenti tradizionali.
Peculiare anche il suo modo di interpretare le canzoni, con quella voce nasale
e con l'uso largo delle vocali: lo stile "alla De Gregori", che sarà
scimmiottato da intere generazioni di emuli. Intellettuale e appassionato di
musica popolare, ha sempre costruito le sue canzoni avendo come riferimento strutturale
e stilistico la migliore produzione poetica europea del Novecento e si è
servito di questo bagaglio culturale e di quella dote naturale che è la
sua poesia (pubblicata anche sui libri scolastici) per vestire le sue canzoni
con versi dalla prepotente forza evocativa. Versi che potrebbero fare anche a
meno della musica perché cantano, stranamente, da soli. La sua ritrosia,
il suo disinteresse per l'immagine pubblica filtrata da media e il carattere in
un certo senso aristocratico, elitario della sua musica e (soprattutto) dei suoi
versi, gli sono valsi il celebre soprannome di "Principe" della canzone
italiana. Nato a Roma il 4 aprile 1951, trascorre l'adolescenza
a Pescara e ritorna nella capitale con la sua famiglia alla fine degli anni Sessanta.
Frequenta il Liceo classico "Virgilio", dove vive di persona gli eventi
politici del movimento studentesco del '68. Sempre in quegli anni aiuta il padre,
dirigente delle biblioteche vaticane, a salvare i libri dall'alluvione di Firenze.
Nel frattempo, impara a suonare la chitarra strimpellando nella sua camera quella
di suo nonno (buon sangue non mente) e comincia così a far lavorare il
suo talento, mettendo sul pentagramma le sue letture giovanili (Steinbeck, Cronin,
Pavese, Marcuse, Pasolini) e i suoi amori musicali (Simon
& Garfunkel, De André,
Tenco, Woody Gouthrie, Cohen e
Dylan in testa). Affascinato
e ispirato dal menestrello di Duluth e spinto dal fratello Luigi (in arte Luigi
Grechi), anch'egli bibliotecario ma anche uno dei più apprezzati cantanti
country di casa nostra, comincia diciottenne a esibirsi con alcune traduzioni
dei brani di Dylan al Folkstudio di Giancarlo Cesaroni, un chimico infettato dal
virus della buona musica, suonando e cantando sulla famosa sedia rossa (un po'
scomoda per la sua statura) della nota cantina di Via Garibaldi. Il locale
trasteverino è il "tempio" di altri giovani cantautori (Antonello
Venditti, Ernesto Bassignano, Mario Schiano, Giovanna Marini, Mimmo Locasciulli,
Edoardo De Angelis, Archie Sawage, Stefano Rosso, Riccardo Cocciante, Paolo Pietrangeli,
Giorgio Lo Cascio, ovvero "I giovani del folk") che, sotto le ali protettrici
di Cesaroni, contribuiranno, senza saperlo, a creare la "Scuola romana"
della canzone d'autore. In quel periodo, ancora ventenne, De Gregori gira l'Italia
accompagnando con la chitarra la folksinger Caterina Bueno da Firenze,
autrice della canzone "Cinquecento catenelle" (a cui lo stesso De Gregori
dedicherà poi il brano "Caterina" in Titanic). Dopo
qualche tempo, entra a far parte della scuderia della It di Vincenzo Micocci (colui
che Fortis avrebbe voluto ammazzare in "Milano e Vincenzo") e, a soli
21 anni, realizza il suo primo album, Theorius Campus, ai mezzi con Antonello
Venditti (per motivi economici). E' un disco ancora estremamente acerbo che
presenta Venditti come figura principale, mentre De Gregori è ancora un
cantautore giovanissimo che non convince appieno i discografici, con la metà
della potenza vocale del collega e senza un pezzo di grande impatto (come era
già "Roma Capoccia" di Venditti). Da ricordare comunque "La
signora aquilone", eterea fiaba folk, "La casa del pazzo", un testo
evocativo su una trama oscura di moog composta da Giorgio Lo Cascio, e "Vocazione
1 e ½", l'unico brano composto da entrambi i cantautori, sorretto
da cori celestiali. Nel
1973 De Gregori passa alla Rca e non fallisce la prima prova sulla lunga distanza
con suo primo vero Lp, Alice non lo sa. Il successo commerciale non arriverà
neanche questa volta, ma il suo nome comincia a circolare fra il pubblico giovanile
più esperto, e il pezzo d'impatto c'è: è l'"Alice"
che dà il nome al disco, canzone costruita su chitarra e sottilissimi violini,
che racconta la dolce passività dell'infanzia/adolescenza, con un testo
fatto di immagini quasi estranee fra di loro: lo sposo che al momento delle nozze
grida "Non ci sto", Cesare (Pavese, ndr) "perduto nella
pioggia" che aspetta "...da sei ore il suo amore ballerina", o
ancora Lilì Marlène che "...sorride e non dice la sua età",
e, dulcis in fundo, la protagonista Alice, che tutto questo "non lo sa". Da
un lato emerge la passione di De Gregori per la storia (l'incantata "1940"
e "Saigon", un bel folk-blues arricchito dalla chitarra di Roberto Ciotti),
dall'altro iniziano a prendere forma le sue canzoni più complesse ed enigmatiche
(è dopo questo disco che si comincerà a descrivere De Gregori come
ermetico, aggettivo che lo ha sempre infastidito molto): "Buonanotte fratello",
ritmica e dylaniana, dedicata all'amico Lo Cascio e composta da immagini
evocative, "La casa di Hilde", ballata chitarristica per una storia
di formazione e "contrabbando", composta insieme a Edoardo De Angelis,
e su tutte "Marianna al bivio" - forse la sua canzone effettivamente
più ermetica - che snocciola metafore oscure su una linea di basso e di
percussioni ("e Marianna camminava/ con il sole nei capelli/ aggrappata a
un paradiso di stagnola/ Ogni uomo che passava/ ne toccava la sorgente/ ma lasciava
la sua anima da sola/ e la strada divideva/ due esistenze parallele/ l'orizzonte
ne copriva la realtà/ e Marianna non sapeva/ cosa fosse veramente/ quel
diamante che stringeva nella mano/ mentre il sole la seguiva da lontano"). Il
singolo "Alice" arriverà incredibilmente ultimo a "Un disco
per l'estate" (De Gregori, allora capellone, partecipa alla manifestazione
con i Vianella, sempre della It), ma il disco otterrà comunque un discreto
successo, confermando il Piccolo Principe come uno dei cantanti emergenti più
amati dal pubblico giovanile d'avanguardia. Nel 1974 esce
Francesco De Gregori, griffato in copertina dalla celebre pecora dipinta
da Gordon Fagetter. E' l'album sotterraneo della discografia del cantautore romano:
idolatrato dai suoi fan più stretti e quasi rinnegato dallo stesso De Gregori
(anni dopo lo definirà il suo lavoro peggiore). Le tracce, tutte chitarra/voce
arricchite da echi di piano e pochi altri strumenti (la batteria è completamente
assente), sono più dense e personali rispetto ai dischi passati, quasi
dei pensieri sul cuscino. "Niente da capire", l'apertura e la canzone
più famosa del disco, è una risposta alle definizioni di ermetismo
affibbiate a De Gregori l'anno prima, costruita con una sorta di cut-up alla
De Gregori, con frasi come "però se un giorno/ tornerai da queste
parti/ riportami i miei occhi/ e il tuo fucile/ e non c'è niente da capire".
L'ispirazione è palpabile in ogni brano e tocca vertici altissimi in
"Giorno di pioggia" (chitarra e basso quasi in sordina e due note di
pianoforte ripetute), che vanta un testo strepitoso, e "Bene", capolavoro
del disco, canzone intima e dai significati stratificati (l'amore finito, l'esistenza,
la struggente fine dell'adolescenza), talmente privata che si vocifera De Gregori
l'abbia cantata una sola volta oltre alla registrazione su disco. E' sorprendente
come, utilizzando una strumentazione tanto spartana - ed essendo per di più
lui un chitarrista davvero elementare all'epoca - De Gregori sia riuscito a creare
canzoni tanto componibili quanto indipendenti e brillanti di luce propria. La
seconda parte del disco - che ha il suo punto centrale in "Bene" - presenta
testi ancora più complessi ("in fondo alla pianura/ una linea più
buia/ l'esercito degli uomini diversi/ con gli occhi e la bocca pieni di sonno/
aspettava in una buca di due metri/ e noi/ dall'altra parte del concetto/ con
l'anima in fondo alle gavette/ cacciavamo i pensieri come mosche mortali/ e il
nostro cervello era bianco/ l'attacco era fissato per le sette", da "Finestre
di dolore"), e complessivamente mantiene intatto l'ottimo livello compositivo
della prima parte del disco, che si conclude con una frase non certo innocua:
"Ero così distratto, amore mio, quando ti ho morso il cuore". Sono
anni di lotte politiche e di censure. La Rai osteggia apertamente De Gregori,
a causa dei testi e dell'area politica di appartenenza (vicina al Pci): lui ricambia
con un brano al vetriolo come "Informazioni di Vincent" ("Ieri
alla televisione mi hanno detto di stare tranquillo/ Non c'è nessuna ragione
di avere paura/ Non c'è proprio niente che non va"). Ma spiccano anche
tracce come "Cercando un altro Egitto" e "A Lupo". In quest'ultima
(tutti si domandano perché non dice "Al lupo"), oltre che di
vicenda della vita privata e della mitica Renault 4 con la quale De Gregori girava
insieme al suo compagno di viaggio Lo Cascio, si racconta di un impresario soprannominato
"Lupo", che giurava sempre su sua figlia. Un giorno Salvatore Quasimodo
regalò a questi un suo libro con la dedica "A Lupo, anima pura, perché
non giuri più sulla sua bambina". E' l'ennesimo pretesto per la
stampa specializzata, che imbastisce feroci polemiche culturali per quel suo usare
in estrema libertà le parole. Per la prima volta, nel panorama musicale
italiano, la cosiddetta "canzonetta", così attenta al testo,
sembrava non raccontare più niente. Le canzoni di
De Gregori, però, sono solo un mistero apparente. Sono storie sospese tra
realtà e sogno, tra universalità e quotidianità. Spesso,
basta essere a conoscenza di alcune situazioni del testo per catturarne la chiave
di lettura. Seminano indizi, e poi divagano, lasciando alla sensibilità
dell'ascoltatore il compito di ricostruire il resto, sull'onda delle suggestioni
legate a filo doppio con la musica. Sembra quasi che si diverta a scrivere i racconti
degli uomini (compreso sé stesso) usando le metafore come uno stimolante
calcolo matematico, con parole simili a numeri perfetti, incastonati assieme alle
note nella planimetria melodica della canzone che sta per nascere. Peculiare poi,
nel suo songbook, l'uso della sinestesia, la costruzione in cui sono uniti
due termini che si riferiscono a sfere sensoriali diverse ("sorriso ladro",
"notte crucca e assassina", "barattolo di birra disperato"
etc.). Nel 1974 Fabrizio
De André si reca al Folkstudio e chiede a Luigi Grechi di fargli ascoltare
i brani del fratello. Nasce così l'amicizia con il cantautore genovese,
che porta alla realizzazione del disco "Volume ottavo", a nome De André,
ma con la firma di De Gregori in brani come "La cattiva strada", "Dolce
luna", "Le storie di ieri", "Oceano" e "Canzone
per l'estate". Un anno dopo De Gregori pubblica Rimmel,
tuttora il suo album più celebre e pietra miliare della canzone italiana.
Testi dolceamari, a sottolineare una costante ambivalenza sentimentale, arrangiamenti
stavolta più ricchi e curati, e un'abilità melodica straripante
confezionano un album straordinariamente continuo e fluido, laddove i precedenti
avevano mostrato sempre un talento a intermittenza. La title track
indovina un giro melodico di piano irresistibile, ambientando in una cornice da
folk americano storie di amore vissuto, tra lirismo e sarcasmo ("Ora le tue
labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo/ e la mia faccia sovrapporla/ a quella
di chissà chi altro/ I tuoi quattro assi, bada bene, di un colore solo/
li puoi nascondere o giocare come vuoi/ o farli rimanere buoni amici come noi").
Spopola poi la ballata tenerissima di "Buonanotte Fiorellino", ispirata
da "Winterlude" di Dylan, che si fa perdonare qualche leziosità
lessicale di troppo ("fiorellino", uccellini", "monetina")
con rime spiazzanti ("Ora un raggio di sole si è fermato/ proprio
sopra il mio biglietto scaduto") e con un tono complessivamente ironico e
disincantato (si narra peraltro che De Gregori l'avesse dedicata alla prima moglie,
scomparsa in un incidente aereo). L'altro hit di "Piano Bar" - vivido
ritratto di un "uomo di poca malinconia" che "piangere non sa"
- assume i contorni di una ballata avvolgente, imperniata sulla timbrica di tastiere
e chitarra acustica. Altre perle sono "Pablo" - che racconta semplicemente
la storia di un emigrato spagnolo ed è stata attribuita, invece, a numerosi
esuli politici e addirittura a Neruda - con l'arrangiamento eccentrico di Lucio
Dalla; l'incantevole ballata arpeggiata di "Pezzi di vetro" e la
surreale "Quattro cani" (alias Francesco De Gregori, Antonello Venditti,
Lilli Greco e Patty Pravo), allegoria dal piglio farsesco, cadenzata da un fingerpicking
ad effetto. Resta invece un mistero la dedica de "Il signor Hood": -
a M. con autonomia - (si tratta forse di Mimmo Locasciulli, di Pescara? Oppure
di Marco Pannella, anch'egli originario della città abruzzese?). Ma è
anche nelle tracce "minori" che va colta la grandezza del disco, come
testimoniano la dolce "Piccola mela", tenue melodia pop in punta di
voce, e la canzone più politica del lotto, quella "Storie di ieri"
che affronta il tema dell'antifascismo con la consueta sagacia lirica ("La
mascella al cortile parlava/ Troppi morti lo hanno smentito"). I
tempi sono maturi e De Gregori prende in affitto un antico trivani in Via del
Mattonato in Trastevere (di fronte al Folkstudio), abbandonando per sempre la
casa dei genitori che, preoccupati, pensavano con apprensione al loro secondo
figlio che affrontava da solo il mondo, al centro del pericoloso incrocio dei
venti, armato soltanto di una chitarra Eko, anziché del protettivo scudo
della laurea in Lettere, come avrebbero voluto ("Mio padre è un ragazzo
tranquillo... è convinto di avere delle idee/ E suo figlio è una
nave pirata", è il suggello al conflitto generazionale in "Storie
di ieri"). Bisognerebbe
tornare al 1975 per capire quanto sia stato difficile per il cantautore romano
comporre il seguito di Rimmel senza stravolgere la sua arte o cadere nel
ripetitivo. Lui stesso in seguito confiderà a proposito di Bufalo Bill
(1976): "E' la mia croce e delizia: ecco, se potessi probabilmente lo rifarei
curando meglio i suoni e gli arrangiamenti. Lo feci in quel modo, scarno ed essenziale,
per punirmi di aver fatto Rimmel che aveva venduto troppo
roba da matti!".
Eppure lo stesso De Gregori lo definirà "il mio disco più riuscito",
quello del periodo più sereno e felice della sua vita. Attraverso la
descrizione dell'ultimo e penoso spettacolo di Bufalo Bill, va in scena il de
profundis del vecchio mondo americano, che se ne va per lasciare il posto
al mito della Frontiera, alla motorizzazione (il meccanico "culo di gomma"),
alla conquista dell'Ovest, all'avvento dell'ipocrita cultura americana, quella
dei boy scout, delle ragazze pin-up, del sogno americano, del sorriso a
trentadue denti e del falso ottimismo d'oltreoceano. Il disco è splendido,
ispirato, rivoluzionario (sì, rivoluzionario) nella ricerca delle armonie
e di testi che affrontano in maniera ellittica gli argomenti, utilizzando metafore
evocative e matematiche nella loro precisione. E in più, a dispetto di
sopra, è abbastanza compatto e pulito nei suoni, molto più di quanto
lo fossero in quei lontani anni gli altri dischi di produzione italiana. Le canzoni
acquistano una limpidezza e un'ampiezza espressiva straordinarie - assenti nell'intimismo
claustrofobico dei suoi primi album - e una capacità di trasportare l'ascoltatore
verso suggestioni impalpabili e indescrivibili. Anche la voce è perfetta
nell'intonazione, appena nasale e a tratti irriconoscibile in confronto ai dischi
precedenti. L'uso del pianoforte al fianco della chitarra, già sperimentato
in Rimmel, qui migliora ulteriormente in coordinazione e armonia. La
splendida title track, costruita su immagini ampie e nitide, è la
malinconica metafora dell'apertura degli orizzonti in America verso il lontano
ovest, in cui anche un uomo vero come Buffalo finisce per diventare un fenomeno
da circo. Musicalmente, gioca sul rincorrersi di un pianoforte celestiale e una
chitarra country (e sull'intuire costantemente un ritornello che non arriverà
mai) per terminare con uno splendido assolo al piano. "L'uccisione di
Babbo Natale" è - dalle stesse parole di De Gregori - la sua unica
canzone "amorale"; racconta la fine dell'infanzia e delle illusioni
a essa legate (o forse il finto borghese - "il figlio del figlio dei fiori"
- che si ribella e insieme alla proletaria - "Dolly, figlia di minatori"-
uccide la borghesia e poi da lei torna?). Il testo è splendido, e De Gregori
conferma tutta la sua abilità nel lanciare messaggi appena annunciati,
ma graffianti e trasversali, in un'atmosfera fiabesca. "Disastro aereo
sul canale di Sicilia" è un capolavoro di lungimiranza politica ("Risulta
peraltro evidente/ anche nel clima della distensione/ che un eventuale attacco
ai paesi arabi/ vede l'Italia in prima posizione), abilità melodica (splendida
la musica in continuo crescendo emotivo), e di scrittura dei testi ("E la
fabbrica di vedove/ volava/ sola, come un uccello da rapina/ Il mare/ era una
tavola azzurra/ ormai l'Africa era già più vicina"). Nell'onirica
"Ninetto e la colonia" il suono si fa più ritmato e il testo
è ispirato, enigmatico, con probabili richiami a Garcia Marquez ("E
sotto un fondale di stelle/ gli impiegati della compagnia/ rubarono tutta la frutta
dagli alberi/ e la portarono via"). Una probabile allusione alle multinazionali
statunitensi dell'agroalimentare, che hanno monopolizzato le piantagioni in Sudamerica. Ma
è con "Atlantide" che il disco tocca il suo apice. Una ballata
liquida, costruita su una melodia ariosa e su intense e sfalsate immagini di amore
e di sogno ("così pensava l'uomo di passaggio/ mentre volava/ alto/
nel cielo di Napoli/ rubatele pure i soldi/ rubatele anche i ricordi/ ma lasciatele
per sempre/ la sua dolce curiosità/ ditele che l'ho perduta quando l'ho
capita/ ditele che la perdono/ per averla tradita"). Parole malinconiche,
ma dolcemente distaccate, e piano e chitarra a fare da soffice tappeto sonoro,
dispensatore di intense suggestioni oniriche e subacquee. Si diventa apparentemente
ripetitivi ed eccessivamente generosi nel descrivere questo disco, ma le seguenti
"Ipercarmela", "Ultimo discorso registrato", "Festival"
(dedicata alla morte di Luigi Tenco e soprattutto alla reazione ipocrita dell'Italia),
sono anche, inequivocabilmente, canzoni bellissime. "Santa Lucia", chiusura
del disco, è una splendida piano-voce, arricchita nel finale da una coda
blues di chitarra elettrica su base di organo. Una preghiera laica sorretta da
frasi sincere e immense ("Santa Lucia/ il violino dei poveri/ è una
barca sfondata/ e un ragazzino al secondo piano/ che canta ride e stona/ perché
va da lontano/ fa che gli sia dolce/ anche la pioggia nelle scarpe/ anche la solitudine")
. La melodia è fra le più orecchiabili del disco, mantenendosi però
a larga distanza dal banale e dallo stucchevole. Unico passo falso dell'album,
in definitiva, è la bislacca "Giovane esploratore Tobia, scritta in
collaborazione con Lucio Dalla, che narra di un boy-scout e della passività
della sua vita. De Gregori a questo punto ha passato il primo
ostacolo, l'onda di rimando di Rimmel che avrebbe potuto distruggerlo;
le sue canzoni si sono evolute, l'uso del pianoforte al fianco della chitarra
acustica è migliorato nettamente in coordinazione e armonia e, soprattutto,
ogni brano è pregno dell'urgente ispirazione che accompagnava i suoi dischi
precedenti. Il 1977 è l'anno buio di De Gregori che, durante un concerto
al Palalido di Milano, subisce un processo politico da parte di un drappello di
spettatori appartenenti a un gruppo extraparlamentare di sinistra, legato ad Autonomia
Operaia, i cosiddetti "autoriduttori". Qualche tempo dopo il cantautore
romano, commentando l'episodio, dirà: "Per come si erano messe le
cose avrebbero anche potuto spararmi: è stato un piccolo momento della
strategia della tensione". Quella di accusare i cantautori di arricchirsi
con la scusa del messaggio politico era una moda assai frequente in quegli anni.
L'allora giudice di quel processo-farsa, Gianni Muciacia, ex di Jo
Squilo, dichiara ancora oggi che il processo a De Gregori rientrò nel
clima di quegli anni. "Era un fatto di moda e non di voglia" avrebbe
detto Guccini. A farne le
spese, invece, è De Gregori, che ferito nella sua sensibilità, sospende
la tournée e si ritira dalle scene per un lungo periodo durante il quale
decide addirittura di cambiare mestiere, lavorando anche in una libreria romana.
Successivamente, sposa una sua ex compagna di liceo, Alessandra Gobbi, dalla quale
avrà i due figli, Marco e Federico (ai quali sarà poi dedicato il
testo di "Raggio di sole"). Ma è solo una
parentesi. Nel 1978, esce infatti De Gregori, il terzo capitolo della magica
trilogia avviata con Rimmel e Bufalo Bill. Un disco che suona come
la fine di un incubo personale. Liberatorio, fin dalla bella copertina aerea,
dove De Gregori finalmente si mostra, su un prato verde, mentre corre dietro un
pallone. La contestazione subita non ne ha scalfito la vena politica, che
tocca qui punte di feroce denuncia ("Generale", "L'impiccato",
"La campana). Ma resta intatta anche la dolcezza senza pari del suo canzoniere,
che si sublima nella luminosa ballata di "Raggio di sole", la canzone
ideale da dedicare a una nuova vita che nasce. Affabulatore nato, De Gregori
riesce a trasformare in favola anche la più dura delle invettive anti-militariste,
quella "Generale" che immortala in una melodia storica il senso della
sconfitta di un reduce che sogna il ritorno a casa ("Fra due minuti è
quasi giorno, è quasi casa, è quasi amore"). Le cadenze sono
ancora una volta quelle della ballata, trainata da piano e chitarra, ma con una
batteria che via via acquista consistenza, quasi a voler raffigurare il tam tam
della guerra. Sulla stessa falsariga, l'altro singolo "Natale", che
tinge di "allegra tristezza" il ricordo di un amore lontano. Ricordo
che torna su "Renoir", brano suddiviso in due diversi arrangiamenti,
più festoso il primo (con le voci in controcanto dello stesso De Gregori),
più riflessivo il secondo, che si chiude con un'amara autocommiserazione:
"Ora i tempi si sa che cambiano/ passano e tornano tristezza e amore/ da
qualche parte c'è una stanza più calda/ sicuramente esiste un uomo
migliore/ io nel frattempo ho scritto altre canzoni, di lei parlano raramente/
ma non è vero che io l'abbia perduta, dimenticata come dice la gente").
Nostalgia e tenerezza che si mescolano anche ai ricordi dell'infanzia, quelli
de "Il '56", quando si incollavano le fotografie dei carri armati su
pezzi di cartone (è l'anno dell'invasione sovietica in Ungheria) eppure
"tutto sembrava andasse bene". Ma sul disco aleggia la cappa degli
anni di piombo e di una conflittualità politica ormai all'acme. Ecco allora
"La campana" che suona funerei rintocchi, a sottolineare l'emarginazione
degli sconfitti: è quasi il requiem di un'intera generazione ("Con
un fascio di giornali in mano pensavo: si può anche morire di dolore/ E
sotto questo grande cielo azzurro/ finalmente, mi sentivo un uomo solo/ I miei
amici lo sai, sono tutti in galera/ sono tutti fregati"). Eppure c'è
ancora la forza di sputare la propria rabbia contro la violenza del sistema, simboleggiata
dalla repressione e dalle esecuzioni sommarie, come su "L'impiccato",
altra scarna ballata piano-voce, costruita attorno a un'incalzante sequenza di
fatti in uno stile da presa diretta: "Il quinto venne assunto in galera per
un indizio da poco/ e fu crocefisso col ferro e col fuoco/ Forse per un errore
o forse perché era stato scoperto/ forse per un'implicita confessione/
oppure soltanto lo sconforto/ e tutti si domandarono di che segno era il morto".
Una denuncia che si fa anche intima, con una pennellata di piano, quando investe
la dolorosa piaga della violenza domestica ("Babbo in prigione"). Suona
allora quasi come una fuga da tanta oppressione, il "sogno metropolitano"
conclusivo dei " Due zingari", stupenda ode antirazzista, ma anche inno
alla libertà ("ho sempre corso libero, felice come un cane"),
alle tradizioni ormai svanite ("i miei... avevano occhi veloci come il vento
, leggevano la musica nel firmamento"), alla voglia di vivere contro le leggi
del branco ("se potessi ti sposerei per avere figli con le scarpe rotte,
girerebbero questa e altre città , a costruire giostre e a vagabondare").
Una dolce filigrana di piano e l'assolo struggente del sax nel finale suggellano
uno dei brani più intensamente evocativi dell'intero repertorio firmato
De Gregori. L'album
ottiene un buon successo e rilancia De Gregori dopo la disavventura del Palalido.
Ma è nel 1979 che, grazie a una colossale campagna di recupero della Rca
e a Lucio Dalla, ritornerà
sul suo amato palco, cimentandosi in quello che sarà uno dei più
grandi eventi della musica leggera italiana: Banana Republic, un'estate
densa di concerti negli stadi d'Italia e un successo di enormi proporzioni da
cui saranno tratti un doppio album dal vivo e un film. Al termine della tournée
viene pubblicato, sempre nel 1979, Viva l'Italia. A dispetto del titolo,
fintamente nazionalista, si tratta del disco più "americano"
di De Gregori, come testimonia la presenza di un manipolo di valenti strumentisti
d'oltreoceano e la scelta di affidare la produzione a un guru internazionale come
Andrew Loog Oldham, già al fianco dei Rolling
Stones. Le suggestioni latinoamericane ("Eugenio", "Buenos
Aires") e il concept del viaggio che unisce le otto tracce nascondono
tuttavia una disamina lucida della realtà italiana, lacerata dalle stragi
impunite ("...del 12 dicembre"), dalle discriminazioni tra nord e sud
("Nata nell'Africa d'Italia") e dall'emarginazione ("Terra acqua/
acqua e terra/ ecco quello che ho visto io"). Non mancano la consueta filastrocca
dolceamara ("Stella stellina", cullata su indolenti tempi sudamericani)
e l'invocazione antimilitarista ("Gesù bambino"), avvolte in
soffici sonorità folk, mentre "Terra e acqua" è una litania
cantilenata con piglio rabbioso su un arrangiamento spoglio e spettrale. Ma
il capolavoro del disco è ovviamente la title track, dolente ballata
in chiaroscuro sulla storia dell'Italia contemporanea, sospinta da un andamento
solenne, con un'intro orchestrale a precedere la declamazione pacata di De Gregori,
sostenuta da basso, chitarra e batteria. E' il ritratto dell'Italia "dei
valzer e del caffè", dell'Italia "nuda come sempre", ma
anche dell'Italia "che resiste", in una sorta di strenua battaglia contro
sé stessa e i suoi peccati originali. La canzone sarà oggetto di
ripetuti fraintendimenti politici, contro i quali il cantautore romano si batterà
con decisione (ad esempio, vietandone l'uso propagandistico ai post-fascisti del
Movimento sociale). Nonostante il successo sempiterno della title track,
Viva l'Italia si rivela comunque un album di transizione, tra l'era d'oro
di De Gregori e ciò che verrà: un periodo che vedrà affievolirsi
progressivamente la sua vena di compositore musicale, soprattutto, mentre quella
di poeta si conserverà più efficacemente fino ai giorni nostri. Il
decennio 80 comincia con un disco ispirato alla tragedia del celebre transatlantico
della Star Line che il 15 aprile 1912 si scontrò con un iceberg e colò
a picco nei gelidi mari del Nord Atlantico. Ma Titanic non è propriamente
un concept-album (le canzoni legata alla vicenda sono solo tre: la title
track, "I muscoli del capitano" e "L'abbigliamento di un fuochista")
e diventa per De Gregori anche l'occasione per aggiornare la sua canzone politica,
scrostandola delle scorie del '68 e del '77 e riportandola a una dimensione di
pure denuncia sociale. Il contesto italiano è profondamente mutato:
la stagione cupa degli anni di piombo sta ormai lasciando il posto al boom illusorio
degli anni 80, della Milano da bere e di un benessere effimero. De Gregori, allora,
usa la metafora del transatlantico apparentemente inaffondabile per smascherare
le contraddizioni di questo progresso fittizio, che procede a occhi chiusi verso
lo sfascio ("E il Capitano dice al mozzo di bordo: "Signor mozzo, io
non vedo niente/ c'è solo un po' di nebbia che annuncia il sole/ andiamo
avanti tranquillamente") e che penalizza gli strati più deboli della
popolazione ("La prima classe costa mille lire/ la seconda cento/ la terza
dolore e spavento/ e puzza di sudore dal boccaporto/ e odore di mare morto"). Ma
restano anche gli echi di quel '68 "troppo breve da dimenticare", nel
brano che diverrà l'evergreen del disco, "La leva calcistica
della classe '68", metafora sportiva di una generazione che è passata
dalla rivoluzione all'integrazione borghese nello spazio di un decennio. Una bella
ballata pianistica, dalla struggente coda strumentale. Verrà abusata in
ogni sorta di servizio sportivo che ogni sorta di tv manderà in onda. Altro
classico è la title track, affresco corale della varia umanità
a bordo della nave, avvolto in una melodia che sembra anch'essa fluttuare sulle
onde. Meglio ancora fa "L'abbigliamento di un fuochista", giocata su
un andamento incalzante da folk-song (Giovanna Marini è ai back
vocals), con pochi ficcanti accordi e un testo di denuncia sullo sfruttamento
e sull'immigrazione, visti attraverso il dialogo tra una madre e il figlio in
partenza ("Figlio con quali occhi... ti devo vedere/ Coi pantaloni consumati
al sedere/ ...Figlio senza domani/ con questo sguardo di animale in fuga/ e queste
lacrime sul bagnasciuga.../...Ma mamma a me mi rubano la vita/ quando mi mettono
a faticare/ per pochi dollari nelle caldaie / sotto al livello del mare/ In questa
nera nera nave che mi dicono che non può affondare"). Il trittico
sul Titanic viene chiuso dalla più sommessa "I muscoli del capitano",
che scandisce con gli intermezzi del piano l'epitaffio di uno slancio modernista
destinato ormai alla fine. Degne di nota almeno altre due tracce, l'iniziale
"Belli capelli" (un po' gigionesca, ma tutto sommato riuscita) e la
ballata quasi country di "Caterina", dedicata a Caterina Bueno, la folksinger
che lo aveva portato in tour appena ventenne nel 1971: un omaggio quasi commosso,
costruito sui flashback: "Poi arrivò il mattino e col mattino un angelo/
e quell'angelo eri tu/ ...E la chitarra veramente/ la suonavi molto male/ però
quando cantavi/ sembrava Carnevale". Titanic
è un grande successo e sdogana De Gregori perfino nei telegiornali Rai
che l'avevano sempre boicottato (siamo nel 1982, i Velvet
Underground sono roba di 15 anni prima, ma per l'Italia è ancora nel
Neolitico). Sarà però anche l'ultimo acuto del cantautore romano.
Gli anni a venire, infatti, ne segneranno un progressivo declino discografico,
seppur contrastato da presenze live sempre robuste e coinvolgenti. Nel
1983, De Gregori compone la colonna sonora del film "Flirt" che pubblica
in un Q-disc, nel quale è racchiusa "La donna cannone", una ballata
pianistica con tanta classe e molto mestiere che si rivelerà uno dei suoi
più fortunati hit. Ma la parabola è già
discendente. Scacchi e Tarocchi (1985) prodotto da Ivano
Fossati, è il primo passo falso di De Gregori. Le canzoni bellissime
non mancano, ma sono poche: "La storia", provino piano-voce realizzato
in un quarto d'ora, è una ballata minimale costruita su pochi accordi,
capolavoro di incisività e sguardo emotivo ma lucidissimo sul concetto
di storia e sul nostro appartenergli; "A Pà", dedicata a Pasolini,
parte in sordina con un duetto di piano e chitarra elettrica per concludersi con
una splendida svolta musicale, su cui De Gregori innesta una citazione del poeta
("e voglio vivere come i gigli nei campi/ e come gli uccelli nel cielo campare/
e voglio vivere come i gigli nei campi/ e sopra i gigli e nei campi volare").
L'altra canzone significativa del disco è "Miracolo a Venezia",
uno dei tanti frutti misconosciuti e prelibati che il repertorio di De Gregori
offre: definita dall'autore "una visione pura, nemmeno una canzone su Venezia
[
], è un disegno di Buzzati, è una vecchia foto, è
un simbolo dello scontento, di qualcosa che muore", si regge su uno scuro
tappeto di synth ed emerge in un crescendo (anche vocale) che non esplode mai,
lasciando un piacevole senso d'incompiuto. Nel resto del disco si alternano canzoni
piacevoli ma riuscite a metà - "Poeti per l'estate", "Ciao
ciao", "Tutti salvi" - a veri e propri sfizi, senza particolare
importanza. Il successivo Terra di nessuno (1987)
è forse l'album più scuro e doloroso di De Gregori; passato in secondo
piano, contiene un paio di notevoli canzoni al pianoforte ("Pane e castagne"
e "Mimi sarà") e brani più ritmati ("Il canto delle
sirene", dal testo sublime, "Nero"), ma anche qualche momento debole
("Spalle larghe" e "Vecchia valigia"). Le composizioni del
Principe sono davvero cambiate rispetto agli esordi, così come il suo modo
di cantare. Niente più amore e schegge d'autobiografia, ma uno sguardo
secco e limpido sulla realtà e sui cambiamenti che essa comporta alle nostre
anime. Anche la voce angelicata dei primi dischi non c'è più, tranne
in qualche episodio (le già citate "Pane e castagne" e "Mimi
sarà"). Quello che ne viene fuori è un disco che potrebbe
essere definito un concept sulla "difficoltà", intesa
come dolore, dubbio, difficoltà d'immigrazione e di pianificare il futuro.
Il tutto perfettamente a fuoco e compatto, pur non sorretto dal getto costante
d'ispirazione, ormai perduto con la giovinezza. Due
anni dopo esce Miramare 19.4.89, che, pur più eterogeneo del precedente,
potrebbe essere considerato il suo naturale proseguimento. In alcuni tratti è
più diretto e a fuoco di Terra di nessuno, in altri momenti più
visionario (e a volte dispersivo). Dopo la svolta di Scacchi e tarocchi,
disco ottenuto con una produzione essenziale e minimalista, in questo lavoro compaiono
arrangiamenti troppo compassati e arrotondati, anche se è solo una la canzone
che senza dubbio avrebbe avuto bisogno di ritmiche più a fuoco e meno orpelli
sonori: la "Bambini venite parvulos" che apre il disco con parole di
una durezza senza precedenti ("Nessun calcolo ha nessun senso dentro questa
paralisi"
"legalizzare la mafia sarà la regola del duemila,
sarà il carisma di Mastro Lindo a organizzare la fila"), canzone "sull'abbassamento
progressivo dell'età dei killer e delle vittime del mondo di oggi, e sul
fatto che tutti e due portano spesso la stessa marca di scarpe". Più
avanti compaiono portatori di luce e cercatori d'oro, in una "Miramare"
che parte delicata con chitarra e armonica, ma che non spicca mai il volo, limitandosi
a snocciolare un testo comunque evocativo. Gli episodi rock convincono poco ("Dr.
Dobermann" e "Pentathlon", una delle canzoni più brutte
dell'intero repertorio di De Gregori), mentre c'è spazio per qualche gioiellino:
"Cose", quadro notturno ed enigmatico, e la conclusiva "Lettera
da un cosmodromo messicano", breve ma suggestivo testo su tastiera e bella
conclusione affidata agli archi. Si diceva dell'incessante
attività live: nel 1990, De Gregori decide di immortalarla in tre
album: Niente da capire, Musica leggera e Catcher In The Sky.
Trentaquattro canzoni in tutto, come summa di una carriera lunga ormai quasi vent'anni. Il
ritorno a un disco in studio con Canzoni d'amore prosegue idealmente la
riflessione sul mondo avviata con Miramare 19.4.89. Il titolo è
ovviamente fuorviante, se si fa eccezione per la dolce "Bellamore",
altra ballata sentimentale in punta di voce. Il coinvolgimento della band che
ha suonato nei concerti dona al disco un'energia quasi live, tangibile
in brani più "muscolari" come "Sangue su sangue", "Adelante!
Adelante!" e "Viaggi & miraggi". Ma quando gioca a fare il
rocker, De Gregori convince poco, meno ancora quando scivola in una demagogia
populista che non gli si confà ("Stai dalla parte di chi ruba nei
supermercati/ o di chi li ha costruiti...rubando?", da "Chi ruba nei
supermercati") o in una polemica politica dal respiro corto ("E' solo
il capobanda, ma sembra un faraone.../ Si atteggia a Mitterrand, ma è peggio
di Nerone", un'invettiva il cui bersaglio fin troppo scoperto è Bettino
Craxi). In definitiva, i pochi lampi del disco vengono da piccole poesie minimali,
come la dolce commiserazione di "Tutto più chiaro che qui", il
country-folk di "Stella della strada" e il tema dolente di "Povero
me" (scritto insieme all'amico Mimmo Locasciulli). Dopo
i due dischi dal vivo Il bandito e il campione e Bootleg, arrivano
quattro lunghi anni di silenzio, durante i quali De Gregori si improvvisa giornalista
su l'Unità, diretta dall'amico Walter Veltroni. Il ritorno sul mercato
è del 1996, quando nell'album Prendere e lasciare, prodotto dal
chitarrista Corrado Rustici, il pubblico di De Gregori scopre nuove sonorità
e arrangiamenti più moderni, a tratti lontani da quelle soluzioni acustiche
di cui l'artista romano si era servito agli inizi della sua carriera. I risultati
sono, al solito, dubbi, perché la musica di De Gregori è forse condannata
a non poter cambiare mai, come mai è cambiato lui, testardo e pervicace
nelle sue convinzioni, nella sua poetica, nel suo elitario isolamento. E allora
non serve una schitarrata rock o un suono più tecnologico per ridare smalto
a un songwriting ormai in piena crisi creativa. Così in "Compagni
di viaggio", più del sound "corposo", si riesce a
cogliere semmai uno spirito dylaniano, che aleggia tra le strofe e le immagini.
In "L'Agnello di Dio", l'intro quasi rap e l'andamento tribale non valgono
più della solita poesia metropolitana di denuncia. "Un guanto",
ispirata alle litografie di Max Klinger, si snoda tra arpeggi country e arrangiamenti
vagamente jazzy, ma senza mai graffiare. Il De Gregori più incisivo
è ancora quello che sa scavare nelle radici della canzone popolare (la
scarna "Stelutis Alpinis", la fiaba di "Fine di un killer")
o nella ballata sentimentale, come in "Baci da Pompei", istantanea di
due amanti sorpresi dall'eruzione del vulcano, con un evocativo riff di chitarra
ad assecondare il dialogo amoroso. "Prendi questa mano zingara", invece,
gli varrà una imbarazzante denuncia per plagio da parte di Iva Zanicchi
e dagli autori del brano "Zingara" (presentato a Sanremo nel 1969).
Dal tour immediatamente successivo viene tratto un doppio
cd impreziosito dall'inedita "La valigia dell'attore", scritta per Alessandro
Haber, da "Dammi da mangiare", già interpretata da Angela Baraldi
e da "Non dirle che non è così", struggente versione italiana
di quella "If You See Her, Say Hello" che Bob Dylan aveva inserito nel
suo "Blood On The
Tracks" del 1975. Le origini e Curve nella
memoria sono due buone antologie uscite nel biennio '96-'98, utili soprattutto
per riscoprire gli anni d'oro. Il presente, invece, offre
ancora un altro disco in studio, Amore nel pomeriggio (2001), prodotto
dal fido Guido Guglielminetti. Tinte fosche e umori cupi per un nuovo canzoniere
di vita quotidiana, al quale prestano la loro collaborazione anche nomi importanti
come Franco Battiato e Nicola
Piovani. Resta forte l'impronta dylaniana, ravvisabile fin dall'iniziale
"L'aggettivo Mitico", incalzante ballata metropolitana imperniata sul
trio basso-chitarra-batteria, e su un testo al vetriolo ("Oggi si versa il
vino, si spezza il pane duemila volte che canta il gallo
Socrate grida domande
per strada e il Beato Angelico dipinge muri di periferia
gli uomini col
machete sul fuoristrada, gli uomini a piedi nudi lungo la strada"). Sempre
su cadenze serrate anche "Spad VII S2489", nuovo apologo sulla guerra,
vista dagli occhi del pilota di un caccia. Il country trasognato di "Condannato
a morte" fa da cornice a un altro crudo j'accuse, stavolta contro l'intolleranza
religiosa, sull'onda della vicenda di Salman Rushdie ("Religione può
essere un sentimento/ religione può essere una fuga d'amore/ Religione
può essere intrattenimento/ religione può essere terrore").
"Canzone per l'estate" ripropone in una chiave ancora più tetra
il brano scritto e interpretato nel 1974 con Fabrizio
De André. Ma il vertice e il "caso" del disco è "Il
Cuoco di Salò": un piano struggente e un bel contorno d'archi e fanfare
(arrangiati da Battiato) ad accompagnare il lamento di un perdente, un cuoco,
che si ritrova al servizio dei gerarchi fascisti in fuga ("qui si fa l'Italia
e si muore
dalla parte sbagliata si muore"). Qualche idiota in servizio
permanente effettivo vi leggerà del revisionismo e scatenerà sulla
stampa polemicucce da pollaio. A partire da marzo, dopo tre
anni di assenza dai palcoscenici, De Gregori, sotto la direzione artistica di
Guido Guglielminetti, affronta un nuovo tour, accompagnato da Paolo Giovenchi
alle chitarre, Greg Cohen, già con Tom
Waits, al basso e contrabbasso acustico, Alessandro Svampa alla batteria,
Alessandro Arianti al piano e tastiere, Marco Rosini al mandolino e alla chitarra
acustica, e, dopo 25 anni dalla sua ultima apparizione, Toto Torquati all'organo
Hammond e tastiere. Il tour tocca con successo i maggiori teatri italiani e, dopo
una breve pausa, prosegue fino a settembre dando vita al live Fuoco
amico, pubblicato nel 2002. Nello stesso anno il cantautore romano intraprende
una lunga tournée insieme a Fiorella Mannoia, Ron e Pino Daniele. L'esperienza
dell'improbabile quartetto sarà fotografata nel disco live In
Tour. Più consona al background del cantautore
romano, l'altra collaborazione, con Giovanna Marini, voce storica del folk italiano;
quattordici tracce sotto il titolo Il fischio del vapore, che provengono
dall'archivio personale del cantautore, ma anche dalla memoria storica della musica
folk. C'è la canzone politica di "L'attentato a Togliatti", ove
si rievoca il tentato omicidio del leader comunista, avvenuto nel 1948, già
inclusa nel precedente live Fuoco amico. C'è una intensa
riedizione de "L'abbigliamento del fuochista". Ma a dare una tinta più
autenticamente folk al disco sono alcuni canti tradizionali delle mondine ("Saluteremo
il padrone" e "Bella ciao") e uno d'emigrazione, nello stile dei
cantastorie padani ("Il tragico naufragio della nave Sirio"). A quest'ultimo
sembra far eco il brano "Sacco e Vanzetti", che racconta l'esecuzione
dei due anarchici, ingiustamente accusati di omicidio negli Stati Uniti, nel 1927.
Numerose anche le tracce appartenenti al repertorio di Giovanna Daffini, mondina
e cantastorie, morta nel 1967 ("Donna lombarda di Gualtieri", "Sento
il fischio del vapore", "O Venezia che sei la più bella").
Operazione azzardata e coraggiosa, Il fischio del vapore lascia perplessi
molti fan, ma corona in realtà un percorso di recupero e filologia della
musica popolare italiana tenacemente perseguito dal cantautore romano nell'arco
della sua carriera. A
testimonianza di una (parzialmente) ritrovata creatività, esce nel 2005
Pezzi, con ogni probabilità il miglior disco di De Gregori dai tempi
di Titanic. Dieci tracce disseminate di un discorso da ricostruire, come
il puzzle della copertina. Niente di nuovo o di trascendentale, intendiamoci,
ma almeno quel formato di ballata blues-rock da Dylan della maturità, ampiamente
valorizzato nei live, trova qui sostanza in un armamentario di melodie
e suoni più ricco e coinvolgente. A cominciare dalla struggente "La
testa nel secchio", imbevuta di suggestioni desertiche alla Calexico,
con il suo andamento caracollante e il suo chitarrismo western, fino all'altra
vampata rock di "Il panorama di Betlemme", con il suo bel corredo chitarristico,
il suo giro di piano e il suo straziante scenario di morte ("Signore ti prego/
Lasciami respirare/ Lasciami un po' riposare/ Prima che devo morire"). E
si mantengono su standard dignitosi anche tracce come "Parole a memoria",
stavolta con lo sguardo dritto verso Duluth (leggasi "Knockin' On Heaven's
Door") e un testo scomposto come ai bei tempi ("Era solo per chiacchierare/
versare il vino spezzare il pane/ Pagare pegno, ricominciare/ parlare al cane"),
o la tenera "Gambadilegno a Parigi", ennesimo ritratto di una sconfitta,
o ancora la toccante ninnananna di "Le lacrime di Nemo", ingentilita
dal mandolino di Marco Rosini. Altrove, il classic-rock di De Gregori,
sempre lontano da distorsioni e rumorismi indie, appare però stantio
e monocorde, come nell'attacco bolso di "Numeri da scaricare", nel riff
insulso di "Tempo reale" o nello stucchevole singolo "Vai in Africa,
Celestino", collage di frammenti disparati della nostra quotidianità. L'attualità
viene passata crudamente in rassegna, tra cronache dell'orrore ("Il vestito
del violinista", in cui compaiono i fantasmi dei bambini di Beslan) e sdegno
nazionale (l'invettiva di "Tempo reale" con versi come "se dovessi
rinascere, preferirei non rinascere qua", che tolgono anche il lieto fine
al Gaber di "Io non mi sento
italiano"). Pezzi è uno sguardo amaro e disincantato sul
mondo, da parte di chi non ha più l'ambizione di cambiarlo. In un'intervista
al "Corriere della Sera", De Gregori affermerà: "Neanche
la sinistra mi appassiona più. Canto frammenti di vita, dolore e confusione".
E in riferimento al suo sound, ne celebrerà definitivamente l'ascendenza
dylaniana: "Springsteen
ha un suono molto più educato, è un bravo ragazzo. Io musicalmente
sono più sporco. Springsteen è un furbacchione del rock, si sente
che lui lavora in uno studio. Dylan,
invece, è musicista sbilenco, dissonante, innovativo. Springsteen ha buona
volontà, ha studiato, ma la cosa finisce lì". Le
"nove canzoni nuove" di Calypsos
(2006) non offrono niente di stupefacente: solo giochi di gruppo sull'evergreen
che spaziano da titoli lapidari su tappe di vita a stornelli di voce più
nasale che mai. Il disco scorre in modo leggero, tra ballate pianistiche a "La
canzone dell'amore perduto" ("Cardiologia") e non troppo audaci
tracce di power-pop ("Mayday"), mentre prova a scattare la solita
fotografia di una città nella ambientale "Per le strade di Roma",
dove compaiono "lucciole sulla Salaria e zoccole in Via Frattina", senza
dimenticare i "ragazzi che escono dalla scuola e sognano di fare il politico
o l'attore
". Interessante l'uso metaforico de "La casa",
intesa come luogo immaginifico e involucro di sentimenti spinosi e spezzati, quanto
provvisoriamente possibilisti ("costruisco questa casa
E ci pianto
quattro vigne per il vino di settembre, e ci metto la scommessa che ti voglio
amare sempre
"). Il senso musicale diffuso è alquanto minimale,
fatta eccezione per i cori di risposta de "La linea della vita" che
interpretano il ruolo dell'anima dolce e cattiva di cui si parla. Solo qui o quasi,
in pratica, si osa un piglio vagamente ecclesiastico, non proprio memorabile.
Per il resto, gli arrangiamenti sono pressoché trascurabili, manco fosse
un sermone improntato sul sottofondo. Ecco, il motivo della perpetuata stanchezza
melodica (questa sì) dei suoi ultimi dischi è da ricercare anche
nelle ansie da predicazione, addirittura più ingenti, ma anche più
sofisticate, che in passato. De Gregori intanto prosegue
la sua infaticabile attività dal vivo in giro per l'Italia, e, rispetto
al passato, si mostra molto di più, perfino in programmi televisivi popolari
come il Festivalbar. Ma forse anche questo è un segno dei tempi che cambiano... C'è
ancora qualcuno che lo etichetta come il cantore politico della Sinistra. Di certo,
la canzone politica ha avuto un peso rilevante nel suo repertorio. Ma molti suoi
brani sono stati fraintesi: "Niente da capire", "Caterina",
"Non dirle che non è così", "Raggio di sole",
"Due zingari", "La valigia dell'attore" non sono canzoni politiche,
ma soltanto canzoni d'amore, nel senso più universale della parola, sono
favole contemporanee dedicate agli esseri umani e alle loro storie, viste attraverso
gli occhi e la fantasia di questo artigiano della chanson. E poi perché
sforzarsi per capire chi siano realmente Pablo, Cesare, Irene, Anna, Marianna,
Mario, Nino, Ninetto, Caterina, Rollo, Eugenio, Lisa, Mimì, Giovanna, Alice,
Hood, Hilde e Susanna? De Gregori, nel bene e nel male, è entrato di
diritto nella storia della musica italiana e abbracciando almeno tre generazioni
di ammiratori è stato l'artefice del cambiamento "tecnico" della
nostra canzone d'autore, abituata da sempre ad ascoltare brani che cominciavano
con "cuore" e finivano con "amore". Concludendo, si può
affermare che De Gregori - invertendo quello che scrisse Giaime Pintor - non è
"Rimmel", è "Nobel". Almeno in quel piccolo grande
universo poetico che è la canzone d'autore. | |