Eliane Radigue

Eliane Radigue

Al cuore impermanente del suono

Formatasi nella scuola di Pierre Shaeffer, Eliane Radigue si è ben presto affrancata da ogni tendenza concretista e serialista per maturare uno stile unico che la vedrà flirtare con il minimalismo americano e con l'elettronica e pervenire prima di chiunque altro al prototipo di ambient music come flusso introspettivo e analitico. Breve ritratto di una delle ultime grandi icone dell'avanguardia

di Roberto Rizzo

Where is the changing point?
Within the inner field of perception,
or the external reality of something on the way to becoming.
Then, time is no longer an obstacle,
but the means which permit the realization of the possible.

[Anonimo]

 

Al bardo e asceta medievale Milarepa, autore secondo la tradizione tibetana di oltre centomila canzoni sui precetti e la pratica del dharma, durante uno dei suoi numerosi pellegrinaggi fu chiesto di intonare un poemetto sull'essenza della mente e su come affrontare il manifestarsi dei suoi oggetti. Il santo passa in rassegna una serie di immagini esplicative della dottrina del Buddha, tra cui il rapporto tra l'aria e la nebbia e quello tra cielo e nuvole. Il simbolo più efficace, ripreso dalle parole dell'Illuminato, è tuttavia quello dell'acqua. L'acqua di un fiume a referente dell'impermanenza eterna soggiacente ogni aspetto dell'essere. L'acqua immobile di un lago come metafora della mente al suo stato più puro, su cui si increspano le onde delle idee e dei pensieri, fatte nondimeno della stessa sostanza.
La soluzione è nel lasciare andare il flutto. Arginare ogni sforzo. Respirare il momento. Così, purgati in un nuovo stato di consapevolezza, prestando molta, molta attenzione, al di là della crosta percettiva più superficiale, potremmo quasi distinguerlo senza l'ausilio di alcuna conchiglia, il suono del
dharma: un suono sottile ma persistente, un riflusso costante, senza un chiaro principio e senza alcun fine precisato.

La stagione minimalista è quella che tra tutte ha flirtato di più con la visione e la metafisica del saggio ai piedi del fico di Bodhi. Più in particolare, sono gli esponenti di quella sottocorrente, che per convenzione definiremo
dronica, a essersi prestati a veicolo fisiologico sulla strada labirintica in uscita dal samsara. Eliane Radigue è tra loro la figura che detiene l'autorità assoluta di salmista raffinata del dharma interpretandolo in una forma di poesia sonora purissima e discreta, che prende le mosse dalla scuola “concreta” francese per costruire il proprio personalissimo universo sonoro, fino a trasformare le ingegneristiche intuizioni di Schaeffer in lunghe sedute meditative in bilico tra trance e trascendenza.
Breve storia di avanguardia e spiritualità.

Alla corte del concretismo parigino

Eliane Radigue con ArmanEliane Radigue nasce nel 1932 in una Parigi – e un'Europa – che non esistono letteralmente più. Figlia di mercanti del Les Halles, un vivace quartiere medievale mercantile abbattuto nel 1971 per fare posto a un moderno centro commerciale e museale, l'educazione della ragazza è segnata immediatamente da pressanti input sonori. La musica classica ascoltata in casa dai genitori rimarrà il ricordo decisamente più ingombrante, una presenza rinnegata per lunghi anni e riconosciuta come influenza determinante solo alla luce del vissuto (“In fondo, mi rendo conto di non essermi mai veramente emancipata da quel mondo”, confesserà di recente). Della musica classica apprezza i movimenti lenti, gli adagio, le sottili variazioni di chiave che minacciano l'equilibrio costruito senza avere ancora delineato il nuovo ordine. Una struttura, questa, individuabile a ben vedere al cuore di ogni sua composizione nonché nel suo generale interesse e disegno artistico. Influenza ancora più decisiva sarà un'altra musica, quella che arrivava in casa dalla finestra, quella attraversata ogni volta per uscire in strada: lo stupendo incessante rumore dei mercati di Les Halles, il vociare e le urla dei venditori, dei turisti e del vivre parigino. Eliane impara ben presto che rumore è esistenza e che la musica è solo uno dei modi per padroneggiarlo e codificarlo al servizio dei sensi e della percezione.

Eliane si accosta alla musica negli anni dell'adolescenza, seguendo quella che era più o meno la via obbligata del tempo, ovvero lo studio della musica classica, approfondendo in particolare l'arpa e il pianoforte, senza tuttavia maturare un grande entusiasmo. L'interesse inizia quindi a migrare in maniera naturale verso altre filosofie: è ascoltando un programma alla RTF
radiodiffusion che viene a conoscenza degli esperimenti di Pierre Schaeffer.
Il fondatore dello Studio d'Essai aveva già da qualche anno iniziato a lavorare sul materiale d'archivio radiofonico, manipolando alcuni rumori registrati su disco, tramite l'uso di più grammofoni (è in questo modo che nacque nel 1948 il seminale “Etude aux chemins le fer”). Nel 1951 lo studio introduce l'uso dei nastri, supporto che consentiva di lavorare e spezzettare il materiale con estrema precisione.
La ventenne Radigue, frustrata nel frattempo da una relazione complicata con lo scultore franco-americano Arman (con cui si era trasferita a Nizza e aveva messo al mondo tre figli) decide di riscattarsi senza mettere altro tempo in mezzo: abbandona il compagno e lo studio degli strumenti “tradizionali” ed entra in contatto con Schaeffer, che la invita di buon grado a frequentare lo Studio d'Essai per apprendere le tecniche della musique concrete.

In quegli anni lo Studio d'Essai continuava a popolarsi di emerite personalità dell'avanguardia e degli studi microtonali, da Pierre Boulez a Luc Ferrari e Iannis Xenakis. Il frequentatore e collaboratore più assiduo sarà tuttavia Pierre Henry, che individua subito le potenzialità di Eliane e nel 1955 la prende sotto la sua ala protettiva in qualità di assistente, fornendole peraltro i primi strumenti per il lavoro: tre registratori per nastro, un mixer, un amplificatore e un microfono.
Le premesse per lo sviluppo di un nuova mente di impronta scientifico-serialista c'erano tutte, Eliane sceglie però ben presto di remare vigorosamente contro quella corrente (parlerà in seguito del serialismo e della dodecafonia come “aridi e insoddisfacenti”). A interessarla è invece un timbro ben preciso, una linea in cui ritrovare e confrontarsi con il proprio flusso sonoro interiore. Una qualità che in questo stadio individua immediatamente nel feedback. Un effetto acustico che la entusiasma, non solo per il suono ma per il suo comportamento, per i risultati eccitanti e imprevedibili che i difetti fisiologici del set allora in uso poteva produrre.
Eliane lavora con determinazione in quest'ottica, cercando di sviscerare le potenzialità espressive del feedback – il cosiddetto “Larsen effect”, ma anche “immondizia sonora”, come veniva spesso liquidato nell'ambiente.

Le prime composizioni prendono vita nella seconda metà degli anni Sessanta e si dividono in questa fase tra esperimenti concettuali domestici e opere commissionate da artisti esterni di diversa formazione. Nel primo gruppo rientrano le due brevi composizioni accreditate come le opere prime della Radigue e rimaste dimenticate in archivio per diversi decenni: Jouet Electronique, del 1967, opera all'insegna della sperimentazione più audace sul feedback, ed Elemental I dell'anno successivo, ovvero il primo tentativo di inserire i suoi esperimenti in un ambiente concettuale (nella fattispecie, i quattro elementi naturali simulati in maniera interessante dal lavoro di missaggio sui cut-up dei nastri).
Più corposa e sostanziale, invece, la mole di lavori concepiti come environmental music. Si tratta in primo luogo di commenti sonori a installazioni e opere audiovisive, nate dai contatti con artisti multidisciplinari come Marc Helpern e Tania Mourand o, più raramente, composizioni a sé finalizzate alla creazione di “spazi sonori”.

Il primo esempio in tal senso è la pièce Usral: apparsa per la prima volta al Salon des Artistes Décorateurs in combinazione di una delle sculture di Marc Helpern (un blocco di vetro con elementi in movimento al suo interno e due altoparlanti inseriti alla base), l'opera è un tetro assemblaggio di feedback in varie frequenze, prediligendo le tonalità più alte, incluso un inedito esperimento sugli ultrasuoni. La medesima struttura è al nucleo anche della pressocché contemporanea Omnht, realizzata per l'installazione architettonica “One More Night” nel Gallery Of The Rive Gauche di Parigi e costituita da feedback in loop ai due estremi dello spettro: un pattern bassissimo e roboante a guisa di ritmo viscerale e spunti acutissimi ad aprire spazi percettivi di ampiezza sovrumana.
La musica di Eliane Radigue si presenta così concettualmente sempre più lontana dal concretismo che le diede i natali e si configura in maniera sempre più evidente come “flusso”, come spazio meditativo e stasi, in un gioco di tonalità sempre più preciso e selezionato e che si sviluppa sulla fatalità dei “micro-suoni” bypassati dall'orecchio.

Questi primi audaci esperimenti sul feedback segnano l'avvicinamento concettuale della Radigue all'avanguardia americana, in cui troverà diversi amici di spicco (tra cui Frederic Rzewski, Rhys Chatham e l'altra Signora del drone, Pauline Oliveros). Scandiscono però allo stesso tempo lo strappo definitivo dal concretismo francese, con la reazione di Henry quotata a posteriori dall'artista stessa nelle sempre più frequenti interviste retrospettive: “La prima volta che Pierre Henry si trovò ad ascoltare quello che mi ero messa a fare andò su tutte le furie. Diceva che ero dotata e che stavo sprecando il mio talento, sperava di fare di me una proselita ossequiosa”.
Eliane invece segue ancora l'istinto, che la porterà in maniera del tutto naturale alla volta di New York, dove si trasferisce sul finire del 1970.

 

Form depends mostly upon reflection;
it is the reflection of the sun in the moon
that makes the moon appear round like the sun.

[Inayat Khan]


ARP e dintorni: psicanalisi al sintetizzatore

Eliane RadigueFiglia illegittima del pensiero elettronico tedesco coniugato all'eterogenea ala minimalista, l'avanguardia americana dei secondi Sessanta è anche una storia di invenzioni di strumenti elettronici, di cui il Moog sarà destinato alla gloria più duratura, grazie al terreno fertile trovato negli ambienti pop-rock, nelle sue reincarnazioni più “user friendly”.
Nel 1966 Morton Subotnick commissiona la costruzione di uno strumento che concentri le funzionalità degli ingombranti studios elettronici allora in uso in un singolo e più pratico apparecchio. Donald Buchla viene a capo di una macchina – cui darà il suo nome – dalle fattezze di un mini-organo inserito in una cornice di legno, senza tastiera e con tre sequencer analogici. Pur senza godere della fortuna di altri esperimenti paralleli (ma verrà apprezzato da certa heavy-psichedelia e dai Greateful Dead), lo strumento verrà prodotto in varie serie fino alla metà dei Settanta.
Eliane Radigue entra in contatto con il Buchla 100 durante una visita allo studio di Morton Subotnick e individua immediatamente l'affinità del suo “suono interiore” con questa nuova generazione di strumenti, più semplice da padroneggiare e controllarne i parametri.

La sua prima composizione al sintetizzatore è quindi Chry-ptus, del 1971, che si inserisce peraltro tra i suoi esperimenti più coraggiosi di sempre. Inciso alla New York University in due movimenti di venti minuti ciascuno, Chry-ptus è pensato come un gioco di yin e yang in cui le due composizioni devono essere fatte eseguire contemporaneamente ma sincronizzate a piacimento, con il risultato di un'operazione a doppio binario tra due droni pulsanti e cupissimi, ma che si risolve nella sua oggettivazione in un sorprendente abbraccio polifonico, virtualmente sempre diverso.
Unica composizione al Buchla, Chry-ptus resterà dimenticata negli archivi per più di trent'anni, finché tra il 2001 e il 2006 la Radigue non ci tornerà su in una versione rivisitata dei due pezzi, pubblicati finalmente assieme agli originali nel 2008 su Schoolmap.

Diversi sono i musicisti ad avere sviluppato un rapporto di connessione completa con uno strumento tanto da farli diventare un'appendice artistica imprescindibile. Pochi però quelli che ne hanno protratto la simbiosi per svariati decenni in una relazione di esclusività pressocché assuluta. Eliane Radigue è tra questi, e l'innamoramento ha inizio con il proverbiale colpo di fulmine, nel 1971.
“E' una relazione estremamente emotiva, quella che stabilii con l'ARP. Probabilmente a un certo punto uno ha anche bisogno di questo tipo di rapporto per far sì che il lavoro funzioni per davvero. Nel valutare tutte le opzioni sul tavolo, in materia di sintetizzatori, l'ARP fu la scelta obbligata, uno strumento magnifico, con una gamma di filtri straordinaria. Decisi anche di dimenticarmi deliberatamente della tastiera, in modo da avere un contatto diretto con i potenziometri, senza comode scorciatoie standardizzate”.

L'ARP2500, nato, nell'idea del suo inventore Alan Robert Pearlman, come perfezionamento dei sistemi Moog e Buchla giudicati instabili e poco pratici, era effettivamente a livello tecnico il meglio allora sulla piazza. Dodici moduli con due ale laterali per estensioni a ulteriori sei moduli ciascuna, l'ARP2500 fu il primo sintetizzatore ad accantonare l'intricato sistema di cavi e corde in favore di un pannello frontale pulito e controllabile tramite matrici, migliorò notevolmente il sistema di oscillatori e sequencer analogici e perfezionò l'apparato filtri. Sul modello del Moog, poi, allo strumento potevano essere collegate diverse tastiere. Uno strumento avanzato, affidabile e precisissimo, di cui verranno prodotti però solo cento esemplari, surclassato commercialmente dal successo dei Moog Synth.

Radigue completa i suoi primi esperimenti all'ARP tra il 1972 e il 1973. Il doppio concettuale Geelriandre / Arthesis è da considerarsi il primo tassello ufficiale nel completamento della personale estetica sonora della parigina.
Geelriandre, il primo, e per certi versi ancora timido, approccio all'ARP2500, mette in luce quello che sarà da ora in poi il tratto fondamentale del Radigue-pensiero: un flusso stratificato, sottilissimo, immobile in apparenza ma ricco di sfumature timbriche, in continuo, cronico mutamento. Una musica che non si afferra mai definitivamente e che si presta, più che all'ascolto, all'esperienza.

Presentata in premiere al Teatro della Musica di Parigi,
Geelriandre troverà però la sua veste definitiva solo alcuni anni dopo, allo Stedelijk Museum di Amsterdam, dove la Radigue – peraltro in uno dei suoi rarissimi live all'ARP: il più delle volte sceglierà infatti di restare nel dietro le quinte durante le esecuzioni dei suoi lavori – decide di rappresentarla insieme al piano preparato di Gérard Fremy, in una versione acusticamente più ricca, con i tocchi di piano simili a riverberi di campane, alla volta di una suggestione che per la prima volta sembra chiamare in causa il mistico.

Profondamente diversa nella configurazione sonora è invece
Arthesis, realizzazione-unicum della Radigue al Moog, e presentata all'Università dell'Iowa. La pièce è uno straniante duetto tra due inquietanti flussi su canali paralleli – una frequenza acuta in oscillazione a destra, una vibrazione grumosa e gravissima a sinistra – che scorrono, si fondono e si invertono di ruolo fino al disorientamento più assoluto. Pur con tanto carico di certosinità tecnica, anche al cospetto di strumenti al fine poco congeniali, la logica di questa musica prevede al contrario la più totale assenza di giudizio, un equanime ma attento lasciarsi andare tra gli input dei suoni e le risposte dell'ambiente, fisico e soprattutto psichico.

La relazione con l'ARP giunge a maturazione completa però solo con il formidabile trittico rilasciato l'anno dopo, un 1974 in stato di grazia.

Biogénésis sarà una delle prime opere della Radigue a vedere la pubblicazione su disco (arrivando comunque con diversi anni di ritardo rispetto alla premiere) e si posiziona tra le sue composizioni relativamente più accessibili, anche grazie a una durata più contenuta. Biogénésis prende spunto dall'omonima accezione scientifico-filosofica per cui una struttura biologica o un nuovo organismo possono nascere esclusivamente da un'altra forma di vita pre-esistente e mai da materia biologicamente morta o, ancora meno, dall'intervento puramente tecnologico. Partendo da questo assunto, Eliane realizza un brano “clinico”, in tensione, con modulazioni ARP e il nastro di un battito cardiaco umano a velocità scostanti, come a suggerirne l'appartenenza a diversi cicli vitali. La legge della biogenesi, appunto, ma anche un'espressione simbolica della peculiare forma in flusso dell'arte della Radigue, musica che non si afferma mai come entità monolitica e a sé, ma che al contrario pare nascere da sostrati sonori insondabili all'orecchio non allenato e di cui pure ne lascia intuire le fattezze nei suoi ingressi e (apparenti) uscite, nelle sue continue, impercettibili, mutazioni.

Eliane Radigue è intanto un nome sempre più affiliato ai circoli del minimalismo newyorkese. Un'attrazione reciproca del tutto fisiologica che viene coronata con l'esibizione in una delle storiche
venue della scuola, il Kitchen, al tempo sotto l'amministrazione di Rhys Chatham.
Il 9 marzo 1974 Eliane esegue la composizione che segna il trapasso definitivo nel
drone elettronico, nonché una delle sue opere più lunghe di sempre.
Transamorem – Transmortem si presenta come un'installazione sonora vera e propria, di cui la Radigue suggerisce l'allestimento per meglio sperimentare il concetto del lavoro. Quattro casse posizionate ai quattro angoli di una stanza vuota. Un tappeto nel mezzo. Una linea di deboli lucine bianche alle pareti, installate in modo da incontrarsi in un punto preciso al centro della stanza.
Ancora una volta, in realtà, un'indicazione come un'altra per suggerire che quello che sta per essere eseguito non è un brano musicale ma uno spazio percettivo, influenzato e influenzabile dal movimento dell'ascoltatore e dagli spostamenti nell'ambiente fisico, così come dagli impulsi cerebrali.

Transamorem – Transmortem è così un nastro di sessantasette minuti, un flusso continuo e solo apparentemente statico. Immergendosi in questa corrente così fine e inquietante a un tempo si inizierà col distinguere la complessa molteplicità di input all'opera. Con un ulteriore affinamento sensoriale gli stessi input si svelano precariamente incostanti e a loro volta sotto-strutturati. Quindi un minimo spostamento di focus o del proprio posizionamento rispetto alla sorgente sonora sarà sufficiente per ritrovarsi a compiere il procedimento inverso e rifare tutto daccapo, con una materia a un tratto misteriosamente diversa, più spessa, più acuta o più ampia, a seconda del livello di coscienza, di consapevolezza o semplicemente del posizionamento delle orecchie, in un continuo, incessante divenire acustico-molecolare, tra vita e morte, morte e amore sub-atomici.
Riemergendo da questa forte esperienza psicanalitica, si scopre quello che è in realtà l'effetto indiretto cui un procedimento del genere conduce. Tutto l'ambiente comincerà a suonare, a fluire, rumoreggiare in maniera diversa, dai suoni archetipici alle trivellature, fino a percepire le “vibrazioni del neon” e tutte quelle frequenze più sottili fino a poco prima ignorate. Il silenzio è stato smascherato, annientato, in un'operazione che esplica poeticamente l'eredità concettuale di John Cage.

La musica di Eliane Radigue, ufficiosamente inquadrata nel minimalismo, assume sempre più un magnetico carattere personale, un'arte senza alcun parallelo immediato, anche nell'ambito dell'avanguardia americana, veicolo ed espressione di significati altri, che provvisoriamente fermeremo come “mistici”.
Il lavoro della Radigue sull'ARP2500 allo stesso modo si fa sempre più analitico, arrivando a sviscerarne le capacità acustico-espressive più insondabili, di una sorprendente qualità arcana, come se il flusso interiore della compositrice si trasferisse alla macchina per via di un naturale processo telestetico.

Adnos I è il primo impressionante traguardo in questo e altri sensi. L'opera, tra le più raffinate di sempre nell'archivio ad oggi noto dell'artista, è la prima di una trilogia che allude per la prima volta in maniera consapevole a un livello introspettivo-spirituale, una specie di cammino alla volta delle strutture elementari del sé e da queste alla conoscenza dell'Uno. Una dimensione annunciata programmaticamente anche dalla sibillina citazione riportata alla presentazione della pièce: “spostare i sassi nel corso di un fiume non influenza il corso del fiume stesso, ma può al limite solo modificare il gioco delle onde in superficie”.
L'opera, stesa su un monumentale flusso di settantuno minuti, mette in luce la straordinaria padronanza raggiunta dalla nostra sul suo fidato strumento, piegandolo con disinvoltura a un modus operandi severo e predeterminato in partenza, salvo poi mettere in atto un'inversione di parti e lasciarsi guidare dalla sua lingua, come se la composizione fosse misteriosamente assurta a vita propria.
Adnos I si presenta così innanzitutto come un patchwork, esemplare per il modello compositivo che la Radigue seguirà da qui in avanti. Eliane determina in partenza la durata complessiva del lavoro, per dividerla subito dopo in sezioni di durata variabile ma grosso modo omogenea. Quindi ne stabilisce le diverse qualità ritmiche e tonali e le modalità di passaggio tra le stesse. Una volta che la bozza mentale passa in mano all'ARP e ai tape, l'unica direttiva diventerà l'istinto e il circolo umorale cui la composizione perverrà con le sue proprie leggi intrinseche. L'ultima fase, la più complessa, è il missaggio, rigorosamente manuale, tra le sezioni e tra queste nuovamente con il “suono interiore” dell'artista, in un intenso processo di simbiosi molto spesso protratto e ponderato per diversi mesi quando non addirittura anni.
La misura differente di Adnos I è ravvisabile quindi fin dai primi minuti: il suono è ricco, stratificato, la complessità si svela questa volta senza troppi preamboli. L'orecchio riconosce una determinata chiave e tonalità (in questo caso sul La) per perdersi nell'osservare i tanti input in azione agli estremi dello spettro (effetti ai limiti dell'ultrasuono, una frequenza bassissima, prossima al puro vibrato) e dei generosi spazi concessi dagli armonici, spesso una vera struttura nella struttura, in un elettrizzante incantesimo di scatole cinesi. Ad un certo punto, nello smarrimento sensoriale, verrà naturale tornare ad aggrapparsi alla nota individuata in apertura, solo per accorgersi che la stessa si è ora tramutata in qualcosa di prossimo ad un mi, spalancando all'ascoltatore neofita la realtà e le intenzioni di questa dimensione: tutto è in un costante, inarrestabile divenire, i mutamenti sono impercettibili per la lentezza con cui hanno luogo, per l'impossibilità di determinarli nel flusso esteriore in essere o nei presagi dei nuovi impulsi in formazione, ma soprattutto per l'inevitabile processo di attaccamento che l'orecchio, ambasciatore di circostanza dei più generali umanissimi impulsi subconsci, cercherà di stabilire inutilmente con suoni e strutture familiari o solo in apparenza codificate.
Tanha. Anatta. Anicca. Tutto era già scritto in qualche modo qui, come se a manovrare filtri e oscillatori fosse la sopravvivenza di una incarnazione precedente che aspettava solo di rendersi manifesta per approdare a uno stato di consapevolezza superiore nella realtà dell'ora.

Accolto con entusiasmo nella cerchia minimalista, in particolare da quella corrente
dronica che faceva capo allora ad Alvin Lucier e Robert Ashley (che stringerà con Eliane una lunga e bellissima amicizia), Adnos I verrà presentato per la prima volta al Festival d'automne di Parigi del 1974.
È tuttavia in una
performance sussessiva, a New York, che la stessa pièce sarà protagonista di un episodio quantomai cruciale per il futuro artistico e privato della compositrice. Al termine dell'esecuzione, Eliane viene approcciata da alcuni studenti francesi che, commentando l'opera, accennano come il suo lavoro inducesse all'esperienza della meditazione e chiedono esplicitamente “da dove le arrivasse” tutto ciò, dal momento che non poteva essere lei stessa a comporre quella musica. Eliane resta profondamente colpita (“Ah bon! - ricorderà – la prima volta mi ero anche meravigliata alla definizione della mia opera come 'minimalista'. Per me è semplicemente una musica che viene dal cuore, e la storia che può eventualmente raccontare non può che essere la storia dell'ascoltatore, un processo in ogni modo molto intimo”).
Eliane rimane in ogni caso con gli studenti a discutere a lungo di meditazione e di buddhismo, finché non si farà dare l'indirizzo del Centro di Studi Tibetani con sede a Parigi.
Poche settimane dopo Eliane Radigue torna in Francia e una delle prime visite sarà proprio quella al centro tibetano, un istituto-spazio del ramo Karma Kagyu, di cui diventerà assidua frequentatrice e di lì a poco allieva del guru tibetano Pawo Rinpoche.
In questo straordinario viaggio di ricerca, Eliane dedicherà ogni energia alla pratica e agli insegnamenti della tradizione tibetana, abbandonando ogni legame con la musica e con il mondo esteriore e facendo perdere ogni traccia di sé per diversi anni.

 

Do you know how to cope with thoughts?
Try to see the versatile clouds - Yet from sky they are not apart,
Try to see the waves of the sea - Yet from sea they are not apart.
Try to see the heavy thick fog - Yet from air it is not apart.
Thus the frantic runs in nature.
Yet from nature it is not apart.
[Milarepa, Songs About Meditation & Mahamudra]

 

Drone-poetry alle soglie della percezione

Eliane RadiguePassano così quattro anni di assoluto distacco e disincanto. Quattro anni in cui la nostra si ritroverà intimamente combattuta tra l'entusiasmo per la realizzazione spirituale cui è pervenuta – uno stato al cui confronto “la musica e tutto il resto erano entità del tutto vuote e insignificanti” e in cui più volte pensò di disfarsi dei suoi strumenti e del suo amato ARP – e quella musica persistente che in fondo non ha mai smesso di suonare nella sua mente.
Una situazione che la stessa Radigue ricorderà a posteriori, con la solita lucidità e auto-ironia: “In molte tecniche di meditazione, coloro che hanno raggiunto livelli di consapevolezza superiori, spesso si ritrovano con una sensazione di completa unità con la totalità della creazione, per la quale provano un amore infinito e che dissolve la polarità tra il e il resto. Il guru Pawo Rinpoche era tra questi e a un certo punto finì col pensare che il povero Maestro si sorbisse chiaramente tutto il tempo questo flusso che mi suonava costantemente per la testa. Così chiesi consiglio e con grande sorpresa, ma anche a conferma dei miei sospetti, mi disse che dovevo tornare fuori a fare musica, alla luce di questo mio nuovo stato, con un'offerta a testimonianza del mio nuovo impegno”.

Il ritorno di Eliane Radigue alla musica e all'ARP è segnato innanzitutto da Triptych, opera commissionata per una coreografia da Douglas Dunn (su suggerimento di Ashley) e di cui verrà utilizzata tuttavia solo la prima parte. Triptych è una composizione sensibilmente diversa dai lavori precedenti alla conversione al buddhismo. Al tipico, ineffabile, flusso “dronico” viene preferito un movimento circolare della frequenza in vibrazione, ripetuto in loop in un missaggio che a ogni ritorno mette in luce una gradazione differente, giocando soprattutto in ampiezza.
Il risultato è un'opera di carattere meditabondo, environmental music ad uso domestico, da lasciare fluire discretamente sullo sfondo, finché un mutamento di umore inevitabilmente interverrà nella stanza e negli spazi della mente. Un'opera che si riallaccia a suo modo agli sviluppi contemporanei della fortunata scena ambient inaugurata da Brian Eno, una tendenza che la Radigue anticipò largamente – tanto concettualmente che stilisticamente – e della quale si ritrovò a rappresentarne un'avanguardia poco appariscente e inconsapevole, di cui solo recentemente è stato riconosciuto appieno il credito.

Il cammino artistico della nostra però riprende del tutto solo nel 1980, anno in cui la compositrice decide di riaprire il capitolo mistico “Adnos”, un mistico che, alla luce della recente conversione e dei sei anni trascorsi dalla prima pièce, non può non riemergere in una chiave del tutto diversa.
Adnos II, per cui alla board dell'ARP la Radigue aggiunge un ulteriore filtro esterno da tre a un'ottava, colpisce innanzitutto per la diversa forma in cui si presenta. Per la prima volta una composizione della Radigue non è flusso modulare di variazioni microscopiche sugli armonici, ma è qualcosa di prossimo alla sinfonia elettronica. Gli impulsi coinvolti sono molteplici, su tre livelli timbrici, e in più di un'occasione, giocando su diversi cicli di frequenza, danno vita a sorprendenti qualità ritmiche prossime all'arpeggio. Lo stato generale dell'opera è una trance tesissima che ancora una volta cambia di colore velocemente lasciando presto l'ascoltatore con l'impressione di trovarsi perduto da qualche parte nella propria mente, fra rimbalzi di neuroni, stimoli psichici e motivi che ritornano, fino alla lunga stasi finale. È una stasi inquieta però, una distensione più prossima a uno stato di coscienza “altro” che a una generale ed egualmente provvisoria pace. Uno stato, anche questo, destinato a dissolversi, cangiandosi magicamente nella stessa tonalità nervosa che apriva l'opera, dando in qualche modo l'impressione di un largo, ambio, viaggio circolare nelle secreta delle proprie stanze mentali.

La serie “Adnos” verrà quindi completata subito dopo, con la terza e ultima composizione, terminata anch'essa nel 1980.
Adnos III può essere considerata formalmente un sunto delle due composizioni precedenti, realizzato unendo l'impalcatura “dronica” della prima e gli impulsi ritmici della seconda, questa volta enfatizzati dall'uso di un ring modulator. A fare la differenza, però, è soprattutto l'umore del brano, a metà tra il barocco (come lo definì a un certo punto Rhys Chatham in un'intervista sul suo rapporto con la compositrice francese) e sentori di quella che diverrà nota come dark-ambient. Il nocciolo dell'opera, una volta in più, è però nel suo livello sovra-strutturale, nel suo chiamare in causa l'inconscio e l'introspezione, in una veste mai così romantica e inquietante.
Non è un caso, in fondo, che proprio
Adnos III coincidesse con la crescente attenzione con cui si iniziò a guardare all'opera della Radigue anche da territori fino a poco prima considerati agli antipodi: l'ambient music su tutte, ma anche la neonata scena industrial, fino alle frange più sperimentali dell'elettronica e della dark-wave. Il minimalismo della Radigue, per quanto inconsciamente, metteva in questo modo un importante seme nel lontanissimo suolo della popular-music.

L'interesse della nostra però vira ben presto altrove e si ricollega a quell'omaggio che da tanto tempo desiderava rendere al dharma e ad alcuni simboli del buddhismo tibetano. Gran parte degli anni Ottanta verranno spesi proprio in questa ricerca, in un ciclo di lavori di grande importanza e fascino che rafforzano il suo legame con la tradizione tibetana, con la quale la sua opera sarà d'ora in avanti irrimediabilmente intrecciata.

Il primo in ordine di tempo è Songs Of Milarepa. Realizzata tra il 1981 e il 1983 con il contributo di una borsa di studio del governo francese, Songs Of Milarepa è un'opera in cinque parti, cinque “canzoni” devozionali dedicate alla vita e all'operato del mistico tibetano Jetsun Milarepa, asceta, studioso di stregoneria e promotore-poeta della via del dharma. Oltre al fidato ARP, nella stesura delle composizioni, Eliane inserisce alcuni passaggi cantati carpiti dal Lama Kunga Rinpoche, mentre chiama nel suo studio parigino l'amico Robert Ashley a recitare in canali differiti la traduzione inglese classica della vita dello yogi.
Il risultato suona un po' come una seduta di gruppo in profondo stato meditativo. Il drone di Eliane vibra ancora una volta in un eterno mutamento di colore e sfumature, srotolandosi apparentemente in maniera più diretta del solito, di una limpidezza grezza e leggerissima, mai così emotiva. I due performer d'eccezione, invece, ne bilanciano l'umore: la voce cantilenante del Maestro Rinopche sembra provenire dal fondo di un universo ancestrale e lontanissimo, come colta nel mezzo di ricongiungersi con la sua figura simbolica di ultimo erede di una catena ininterrotta di illuminati, lo spoken-word di Ashley, dall'altra parte dello spettro – e dell'esperienza – ha invece un andamento da trance estatica, in più punti sembra trovare una comunione di energie con il trasporto del Maestro, trapassando quella che sembra essere la sua funzione interna: quella di medium tra la consapevolezza più alta incarnata dal Lama, le forze cosmiche magicamente messe in moto dal “canto” dell'ARP e la mondanità da quest'estremità dell'ascolto.
Due di queste song (“Mila's Song In The Rain” e “Song Of The Path Guides”) verranno pubblicate da Lovely Music su Lp a ridosso della loro composizione, mentre “Elimination Of Desire” e “Symbols For Yogic Experience” dovranno aspettare la ristampa su cd ben diciotto anni più tardi.
Nonostante ciò, l'uscita è di fondamentale importanza in quanto costituisce la prima pubblicazione in assoluto di Eliane Radigue su un supporto di larga fruizione (le pièce precedenti, infatti, sia per concepimento che per durata, non erano mai andate oltre il nastro magnetico), nonché il suo debutto verso un pubblico che per la prima volta non era più circoscritto agli addetti ai lavori e ai cultori dell'avanguardia.

Il secondo grande esperimento del ciclo tibetano vedrà invece la luce tra il 1986 e il 1987. A differenza delle song, Jetsun Mila si configura come una rappresentazione poetica della biografia del santo, questa volta lasciata esclusivamente al commento dell'ARP.
Distribuita su due suite di quaranta e quarantaquattro minuti rispettivamente, l'opera segue la vita di Milarepa in nove stadi, dalla nascita, le opere “malvagie”, l'incontro con il guru, l'iniziazione, la pratica, la visita alla sua terra natale, il ritiro, l'illuminazione e la morte/nirvana.
La prima metà del lavoro si apre tra le nebbie e foschie (quelle dell'Himalaya?), un drone che si irrobustisce per i primi venti minuti per poi dare spazio a quei dettagli tessuti fin dall'inizio tra le frequenza basse e rimasti nell'oscurità. Si sviluppa così un pezzo quantomai dinamico, quasi irrequieto, nella simulazione di un'esperienza invischiata nel samsara, nell'incertezza e nell'ansia del divenire. Come ormai abbiamo imparato, ogni stato altro non è che la manifestazione passeggera di un cambiamento sempre in agguato, ed è così che il brano lascia intravedere il formarsi di una strana sensazione di quiete, nel bellissimo, quasi melanconico, loop che nasce in coda alla composizione.
Si respira un'aria totalmente diversa invece nella seconda parte dell'opera, che entra nuovamente sui circuiti ambientali con cui si era chiusa la prima porzione. Ben presto però il fraseggio si dissolve in una straniante ed eterea nenia dell'ARP, preambolo a un vero e proprio canto di bonzi che entra gradualmente alla stregua di un'allucinazione acustica e che saturerà l'ascolto per buona parte del pezzo in una magnifica stasi che sospende tempo e spazio al mistico vis-à-vis con la più suprema delle realizzazioni.

Anche Jetsun Mila attirerà l'attenzione di Lovely Music, che pubblicherà il lavoro su cd nel 1987, in un bel packaging raffigurante bandiere tibetane al vento con una cima dell'Himalaya sullo sfondo.

L'ultimo capitolo del ciclo di Milarepa sarà infine Mila's Journey Inspired By A Dream, una lunga e non meno affascinante suite di sessantadue minuti, con un estratto da “Bevendo alla sorgente della montagna” intonato da Lama Kunga Rinopche e il contrappunto parlato di Robert Ashley. Il pezzo verrà pubblicato come album monotraccia nel 1987, ma verrà riunificato alle altre song – cui concettualmente appartiene – solo undici anni più tardi.

La creatività della Radigue è nuovamente ai massimi e l'anno successivo comincia l'impresa di realizzare un ciclo di opere ispirate al Libro Tibetano dei Morti. Per una sorte ironicamente tempestiva, il biennio 1988-89 è segnato però da due lutti che marcheranno a fuoco la sua esperienza e metteranno alla prova la sua pratica di
yogi: il figlio Yves, poco più che ventenne, si schianta in un incidente d'auto e muore sull'istante, mentre pochi mesi dopo dopo si spegne la sua storica guida e confidente, il Maestro Pawo Rinpoche.

 

It is said that even Saraswati, goddess of wisdom and learning and music,
when she enters the Nada Brahma, the ocean of sound,
feels that it is so impenetrable, so profound, and is concerned she,
the goddess of music may be lost, inundated by it.
So she places two gourds around her, in the form of Veena,
and then she is guided by them into it.

[Sri Karunamayee]


Requiem per stadi liminali

Eliane RadigueIl Buddhismo tibetano, sincronizzando alcune ancestrali credenze indiane, riconosce l'esistenza di un bardo, sei stati intermedi il più importante dei quali intervenente tra la morte di un individuo e la sua successiva, eventuale, rinascita, interpretata come una migrazione di energie mentali. In questo stadio la coscienza, liberata dalla vecchia zavorra fisica, attraversa una serie di esperienze che la portano dalla realizzazione lucida della vera essenza delle cose, a un viaggio sospeso tra dolci visioni e atroci, tremende apparizioni in qualità di retaggio onirico delle azioni fisiche e mentali compiute nella vita appena conclusa. Il grado di esercizio spirituale e il modo in cui la coscienza affronta questi passaggi determinerà la possibilità di una liberazione definitiva così come l'attribuzione di una nuova incarnazione terrena.
In questo periodo di sospensione liminale di durata variabile a seconda dal karma dell'individuo, sebbene genericamente fissato in quarantanove giorni, l'energia dell'individuo rimane influenzabile da quanto viene praticato “aldiqua” nel suo nome, attraverso una serie di rituali tra cui il più noto è proprio la lettura di quei passaggi noti come Bardo Thödol, recitati con l'intenzione di “liberare tramite l'ascolto”.
Il confronto con la morte, guidato dal Bardo Thödol, è mai come in questo caso qualcosa di più di un esercizio spirituale o una divagazione intellettuale.

L'intensità emotiva e partecipata con cui si svolgono
Kyema e Kailasha è impareggiata nella produzione della compositrice.
Prima opera del ciclo Trilogie de la Mort (in realtà inquadrato come tale solo successivamente), Kyema è un'esperienza di sessantuno minuti in cui si concentra metaforicamente il viaggio post-mortem di un flusso di coscienza. L'intro di questo bardo, all'incirca i primi sei minuti, risente da vicino il suo karma più immediato: un'oscillazione ricca di armonici, prossima ai flussi “psichici” di Adnos e Triptych, ma con il colore tuttavia neutrale e severo come può essere quello di un trapasso. Una tensione che si stempera lentamente a partire dalla seconda sezione in un dolcissimo lamento dronico, un suono ultra-terreno, che trascende le emozioni conosciute e che pure si insedia tra i solchi più reconditi e inveterati della coscienza. Ogni residuo di attaccamento, di tanha, cade via, la mente si ritrova in uno stato di consapevolezza completa, cullata dalla bellezza delle visioni dei meriti positivi. A metà precisa della pièce, un passo roboante ai limiti delle frequenze più basse udibili introduce una variazione radicale. Il flusso torna a farsi teso, minaccioso, fino a liberare una dopo l'altra una sequenza di immagini angoscianti in loop, in quello che sembra a tutti gli effetti un crescendo da ouverture orrorifica, presagio del palesarsi di incredibili forze malefiche.
Invece, improvvisamente, tutto si acquieta. Le visioni si dissolvono e non resta che un bip semi-afono a fare da intervallo con l'ultimo scorcio della composizione, che riporta parzialmente alla misteriosa tensione degli inizi, risolvendosi questa volta in un inaudito rantolo mandato in oscillazione alla volta di una dipartita provvisoria e che si conclude in una folata prossima al rumore bianco di un'alba primigenia e densissima.
Il passaggio nel post-liminare, così, è portato a termine senza alcuna coerente soluzione né un chiaro barlume di quello che si cela al di là del viaggio metafisico. A restare è una volta in più solo la lampante, indifferente evidenza del divenire, colto nella più sofisticata delle sue manifestazioni.

Appena terminata Kyema, l'opera più prosaicamente legata al “Libro Tibetano dei Morti” – e probabilmente la sua interpretazione più intensa mai realizzata in musica – Radigue comincia a lavorare su un altro brano, dedicato questa volta a un pellegrinaggio virtuale alla montagna sacra Kailash. Ed è in questo spazio temporale-compositivo che l'artista riceve la sconvolgente notizia della morte del figlio, un avvenimento che influenzerà l'approccio alla composizione e a causa del quale “Non sarei stata in grado di riascoltare 'Kailasha' almeno per ventanni dopo il suo completamento”, come ricorderà in una delle recenti interviste, con il suo tipico piglio scattante ma sereno.

Dedicata successivamente al figlio scomparso e composta ancora una volta esclusivamente all'ARP, Kailasha si presenta come un requiem dai finissimi contorni ambientali, senza tuttavia lasciar trapelare alcun dramma o scontate enfasi emotive.
In quella specie di conchiglia che è la dimensione forgiata dall'onda sonora, l'orecchio filtra, seleziona ed enfatizza alcuni oggetti acustici, allo stesso modo in cui l'occhio guarderebbe allo scintillio dell'acqua corrente: a un tempo assente e multiplo, orientato verso un esterno la cui immagine vive riflessa nell'universo interiore”. Un passaggio famoso, questo della Radigue nel tentativo di definire il suo stesso suono, che inquadra magnificamente lo stato di Kailasha: una distesa dronica omogenea, in apparenza statica ma pulsante di rifrazioni di profondità variabile, a seconda del grado di coinvolgimento e di concentrazione. Come una superficie acquatica in perpetuum mobile, a prima vista ferma e acquietata, ma che si svela subito ricca di increspature, squarci di fondali inaspettati e rapidissimi riflessi. Un'immagine che, una volta in più, non può non chiamare in causa l'interpretazione esoterica del bardo e la realizzazione chiara, fluida e unitaria della realtà ultima; di un transitorio definitivamente trasceso.

Nel 1992, in fase di completamento di una terza pièce, Koumé, dedicata questa volta al Maestro Pawo Rinpoche, Eliane viene invitata al MANCA Festival di Nizza, cui avrebbe presentato le tre composizioni in successione (“Kyema”, “Kailasha” e “Koumé”), “Una performance che per scherzo presentai come una trilogia, visto il filo rosso che le accomuna. A Michel Redolfi, che al tempo frequentatava spesso il Cirm e che sarebbe diventato poi direttore del MANCA stesso, l'idea piacque parecchio e la inserì subito in cartellone: très bien, tutta qui la genesi della Trilogie De La Mort!”.
Sia nell'espediente sonoro che nel suo rimando metaforico, Koumé è la summa definitiva del trittico. Come se una volta esplorato il corso del bardo nella sua manifestazione oggettiva, filtrato dall'esperienza umanamente e karmicamente imperfetta, fosse giunto il momento di fare appello a un'intermediarietà esemplare, superiore, forte di quella comprensione totale cui solo la pratica tantrica più diligente può fare da garante e pre-requisito.
Ennesima dimostrazione della padronanza virtuosa della nostra ai filtri, Koumé si apre su frequenze bassissime in agitata oscillazione. Il soundscape è subito teso e vibrante e rinnova ben presto il tipico modus stregato della Radigue: flussi discreti in perenne, lentissima, evoluzione, cambiamenti tonali e timbrici che intervengono senza la possibilità di rintracciarne i meccanismi, il suono che si insinua progressivamente nelle pieghe della psiche fino a diventare un tutt'uno con le sue dinamiche e i suoi abbagli. Il tema originario così si irrobustisce e si arricchisce timbricamente fino quasi a lambire il monolitico. Un processo di accumulazione impercettibile e ipnotico, che si trasforma prodigiosamente a partire dal ventesimo minuto, prima di in un indistinto mantra di monaci in meditazione yogi, poi, in maniera ancora più affascinante, in qualcosa di simile a un corno tibetano, quindi in una celestiale sinfonia da realizzazione ultima e incontro con la Grande Madre.
L'impermanenza agisce però anche sui livelli conoscitivi più alti, la visione defluisce naturalmente lasciando il posto a un vuoto entropico di undici minuti.
Se la musica della Radigue tuttavia ci ha insegnato qualcosa, è che il silenzio non è un fatto di questo mondo e che anche quando si manifesta come tale, è sufficiente aguzzare le proprie porte percettive per smascherarlo o anche solo scoprire quanto possa essere qualcosa di totalmente diverso dalla banale e relativa assenza. Tanto più vero quando vuoto, silenzio, assenza vengono elevati a significati metafisici più alti, come mancanza cronica di un sé fisso e immutabile, come condizione al fondo dell'esistenza dove forma è assenza e l'assenza la forma stessa.

Dopo l'intensa esperienza della Trilogie De La Mort, Eliane Radigue resterà in silenzio per ben sei anni, anni in cui però il suo nome non smette di circolare, con poche, sporadiche, performance, mentre tra il 1997 e il 1998 vengono pubblicate su cd le Songs Of Milarepa, per Lovely Music, e la Trilogie De La Mort su Experimental Intermedia Foundation.

La creatività della compositrice non ha alcuna intenzione di preoccuparsi di un pur comprensibile e meritato pensionamento; al contrario, la nostra dilata ulteriormente i tempi di composizione in modo da far decantare e fermare al meglio le idee e combinarle a un'ispirazione ben precisa e coerente, alla volta di un lavoro ancora più grande e certosino.
Giunge così agli albori del nuovo millennio L'Ile Re-sonante, opera che ha tutti i requisiti del definitivo, di saggio stilistico di raffinatezza impareggiabile e di ponderato testamento artistico.
Eliane presenta la composizione, ancora una volta per ARP e tape, con un'immagine apparsale durante una seduta di meditazione: un'isola nelle acque di un lago che riflette il suo volto. A un tempo un'immagine reale e un'illusione ottica. È evidente, una volta in più, il richiamo al buddhismo e al concetto di sunyata, vuoto, e ai precetti del sutra del cuore, ma anche al poeta Rabelais, da cui prende in prestito il titolo dell'opera.
La composizione si apre su frequenze basse dall'insolito delay ritmico, una superficie dronica severa e impassibile, eppure densa di impercettibili increspature. Sul nono minuto arriva però la variazione che non ti aspetti: il flusso si fa improvvisamente dolce e leggero e schiude per gradi un motivo di indicibile bellezza, qualcosa a metà tra un coro ecclesiastico e un gorgeggio operistico trasfigurato e mandato in riverbero, un movimento arioso e drammatico, che invoca il sublime, la visione perfetta, posizionandosi come il ritrovato radigueano più vicino di sempre a quell'immaginario “classico” dal quale era sempre fuggita e con cui viene finalmente a patti in un'emozionante ma consapevolissima resa dei conti.
Ma L'Ile Re-sonante può anche essere considerata come una prova definitiva per l'ascoltatore, al traguardo di un apprendistato lungo ormai vari decenni, nella sua comprensione del messaggio ultimo del canzoniere impermanente della Radigue. Così, anche la più alta delle visioni, noncurante del morboso attaccamento dell'intelletto, si dissolve inesorabilmente fino a essere inghiottita dal più pesante dei vuoti. Gli ultimi venticinque minuti, infatti, sono puro riverbero di shadow music a frequenze variabili e ricche di armonici, tra cui si intravede la medesima linea dell'intro, deprivata di ogni aspetto ritmico da un ulteriore lavoro di filtri. In un oscuro effetto da teatrino delle ombre, è possibile quasi percepire il suono gutturale di un canto tibetano.
Magnifico gioco di riflessi, altezze e profondità, L'Ile Re-sonante verrà pubblicato nel 2005 dalla Shiiin e riceverà il Golden Nica Award dell'Ars Electronica di Linz, stagliandosi non solo come uno dei lavori più alti della sua intera produzione, ma anche come il commosso cenno di un addio: dopo trent'anni di “matrimonio”, infatti, Eliane Radigue decide di abbandonare il suo ARP2500 e la composizione elettronica, essendo arrivata “fin dove le era possibile arrivare”.

Mettendo a frutto un'idea maturata sin dagli anni settanta, nel 2011 Radigue dà avvio alla serie Occam, della quale il filosofo e teologo medievale inglese è ispiratore assieme alle molteplici forme dell’elemento acqua (oceani, torrenti, ruscelli sotterranei...). Questo corpus continuativo di opere per solisti e ensemble segna una fase di ritorno alla composizione (senza partiture) per strumenti classici – o meglio, per strumentisti in quanto persone e anime singolari, coi quali instaurare un rapporto di dialogo percettivo e reciproca accoglienza.
Come per se stessa, ai musicisti che coinvolge Radigue non richiede particolare talento ma una ferrea disciplina, necessaria per ascoltare e riconoscere le particelle microtonali derivate da tecniche estese, intonazioni e accordature talvolta imperfette o inortodosse, ma utili a sondare i sottili filamenti di una musica “endogena” altrimenti irraggiungibile; un virtuosismo della pazienza, di una cura del suono prolungata nel tempo per dare origine a corpi sonori pienamente conformati pur nella loro apparente fissità.
Con la stessa coerenza che ha guidato gli anni di ricerca elettronica, Radigue giunge così a una puntuale catalogazione del proprio pensiero musicale, un’estetica pura e primigenia nella quale alberga l’anima del suono artificiale, alfine pienamente ricondotto alla dimensione umana.

Arriva a un anno e mezzo di distanza il secondo volume della serie Occam Ocean, una lunga suite per orchestra che sin dal titolo evoca la maggiore superficie acquea presente sul pianeta. L'esecuzione è affidata all’ONCEIM (Orchestre de Nouvelles Créations, Expérimentations et Improvisations Musicales), che a fianco di archi e ottoni d’ordinanza include una fisarmonica, tre chitarre, cinque clarinetti e sei sassofoni. Come già in precedenza, tuttavia, l’impostazione e il fine ultimo della ricerca di Radigue non lasciano spazio all’identità più riconoscibile degli elementi, mirando piuttosto alla sommatoria di singoli toni “assoluti”, idealmente già compiuti in se stessi.
Originanti in forma di colonne distinte e adiacenti, le voci degli strumenti vanno man mano confondendosi in stratificazioni che, da un’iniziale stasi – per quanto vacillante – transitano verso un moto apparente di gravitazione circolare: l’oceano diviene così l’autentico specchio del cosmo, fonte primordiale dei fenomeni sonori cui la pioniera francese ha da sempre teso l’orecchio e lo spirito.


Il lascito

Alle soglie degli ottant'anni, Eliane Radigue è probabilmente al suo apice di popolarità, continua a girare per festival d'avanguardia e a contribuire a vario titolo su composizioni condivise – tra le più recenti l'ottimo album Before The Libretto del collettivo The Lappetites (insieme a Kaffe Matthews, AGF e Ryoko Kuwajima) e la pièce Naldjorlak, con il violoncellista Charles Curtis, opera che rappresenta il primo lavoro in assoluto della Radigue su strumenti acustici.
L'influenza della parigina è ora più che mai diffusa e riconosciuta, ma resta nondimeno difficile da tracciare. Se il suo ascendente sull'ambient music, di cui si è accennato in precedenza, è quantomeno palese (per quanto la Radigue non formulò mai esplicitamente un'idea di musica come commento per non-luoghi), i suoi droni hanno accarezzato “sentire” decisamente eterogenei: dimostrazioni di stima e di affetto sono arrivate da compositori elettroacustici, da esponenti delle scene industrial e gothicda nomi shoegaze e finanche da gruppi doom e death-metal.
Una crescita esponenziale di seguito e notorietà che deve sicuramente qualcosa anche al generale umore “retromane” del post-Duemila, un'attitudine che ha prodotto pubblicazioni e ri-edizioni in massa di gran parte delle sue composizioni, di cui ogni etichetta con qualche velleità sperimentale sembra voler vantare almeno un titolo nel suo catalogo a mo' di blasonatissimo distintivo. Eppure, mai come oggi la musica di Eliane Radigue rischia di essere fraintesa e di perdere il suo livello di significato più profondo, che si attenua inevitabilmente nell'affermarsi di una cultura musicale di playlist portatili e di ascolti costantemente de-concentrati.
Più di qualcuno ha trovato un parellelo legittimo tra l'opus della Radigue e il lavoro di La Monte Young. Un parallelo che necessita tuttavia di alcuni distinguo – per quanto fosse consapevole della tradizione hindustani, infatti, la Radigue non concepì mai la sua musica come “trascendente” o sacra, quanto piuttosto come realizzazione, osservazione e meditazione fenomenologica, come abbiamo del resto tentanto di parafrasare in vari modi nei capoversi di cui sopra.
Ciononostante, esattamente come l'opera di Young, il suono della compositrice mette in discussione e allarga a dismisura la concezione e la definizione stessa di musica, elevandola a occasione di introspezione analitica, a riflesso psichico e ambientale, a complice rumoristico nell'accezione cageana, con il solo ausilio di una precisa e selezionatissima gamma di frequenze sviscerate da un sintetizzatore modulare e trasportate nel focus di una concentrazione dialettica e necessaria.

“Fin dal principio ho sempre desiderato fare questo tipo di musica. Questo e non altro”, ammetterà più volte la compositrice. Umile artefice della più discreta delle rivoluzioni del secondo Novecento, asceta dalla potenza di visione acutissima, maestra e complice sulla via per l'uscita dal samsara.

 

Here, O Sariputra, all dharmas are marked with emptiness;
they are not produced or stopped, not defiled or immaculate, not deficient or complete.
Therefore, O Sariputra, in emptiness there is no form nor feeling,
nor perception, nor impulse, nor consciousness;
No forms, sounds, smells, tastes, touchables or objects of mind;
No sight-organ element, and so forth, until we come to no-mind-consciousness element;
There is no ignorance, no extinction of ignorance, and so forth, until we come to:
There is no decay and death, no extinction of decay and death.
There is no suffering, no origination, no stopping, no path.
There is no cognition, no attainment and no non-attainment.
[Heart sutra]

Eliane Radigue

Discografia

In ordine cronologico di composizione
Jouet Electronique (1967, Alga Marghen 2010)
Elemental I (1968, Alga Marghen 2010)
Usral (1969, Alga Marghen 2012)
Stress-Osaka (1969, Alga Marghen 2012)

Σ= A = B = A + B (1969, Povertech Industries 2000)

Vice Versa etc. (1970, Important Records 2009)

Omnht (1970, Alga Marghen 2012)

Chry-ptus (1971, Schoolmap 2007)

7th Birth (1972, not on label)
Geelriandre - Arthesis (1972-73, Fringes Recordings 2003)
Psi 847 (1973, Oral 2013)
Biogénésis (1974, Metamkine 1996)
7 Petit Pièces Pour Un Labirynthe Sonore (1974, not on label)
Transamorem Transmortem (1974, Important Records 2011)
Adnos I - III (1974-82, Table Of The Elements 2002)
Triptych (1978, Important Records 2009)
Songs Of Milarepa (1983, Lovely Music 1998)
Jetsun Mila (1986, Lovely Music 1987)
Mila's Journey Inspired By A Dream (1987, Lovely Music 1987-98)
Trilogie De La Mort (1988-93, Experimental Media Foundation 1998)
L'Ile Re-Sonante (2000, Shiiin 2005)
Elemental II (2004, Recordings Of Sleaze Art, 2005)
The Lappetites: Before The Libretto (2005, Quecksilber 2005)
Naldjorlak (2005, Shiiin 2008)
Occam Ocean 1(Shiiin 2017)
Occam Ocean 2(Shiiin 2019)
Pietra miliare
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