Jon Hassell

Jon Hassell

Scritture sulla membrana trasparente

Nebbie intossicanti, timbri di spaventosa liricità, sonorità arcaiche e al tempo stesso modernissime, che ci guidano nelle foreste-città del Quarto Mondo. La lezione del trombettista di Memphis sta tutta - per dirla con Brian Eno - in una visione globale, che lascia presagire non solo "musiche possibili" ma "futuri possibili". Dai raga indiani all'elettronica, tutte le rivoluzioni del maestro della world-music

di Michele Pedrazzi

Respiro intossicante

Un po’ secca ammetterlo, ma probabilmente è stato solo con "The Million Dollar Hotel", film di Wim Wenders del 1999, che Jon Hassell, trombettista classe 1937, ha raggiunto con la sua musica un pubblico davvero ampio.
C’era chi lo conosceva già, c’è stato chi (come il sottoscritto) solo allora ha aperto un capitolo di ascolti e riflessioni, e c’è stato anche chi, giustamente, è stato semplicemente sfiorato dall’apparizione: ma probabilmente chiunque abbia ascoltato l’abborracciata "Satellite of Love" cantata da Milla Jovovich può ricordare il suono di tromba che fa capolino tra un verso e l’altro e che, con la sua vocalità intima e fragile, conferisce un senso superiore all’intera performance. Quello era Jon Hassell, convocato da Wenders per la colonna sonora del film assieme a una eterogenea e stellare squadra di musicisti (Bill Frisell, Bono, The Edge, Daniel Lanois) e immortalato nel film in un cameo nel quale interpreta un trombettista simil Chet Baker, una figura un po' kitsch che suona solitaria in una stanza traboccante di candele. Nel cd della colonna sonora del film, il mondo di Hassell si svela più in profondità: tra le altre tracce appare la sua "Amsterdam Blues" - più un’esperienza che un brano musicale, così letteralmente "d’atmosfera" da imporsi all’attenzione come nessun brano urlato o ipercompresso potrebbe riuscire a fare.
Facile ritrovarsi a guardarsi attorno come per cercare di capire se davvero il tempo abbia rallentato il suo corso o se per caso l'etere sia diventato più denso o se magari la nostra camera sia stata improvvisamente da una specie di nebbia liquida. Una nebbia che potremmo supporre intossicante, per cominciare ad affrontare anche il lato più filosofico di Hassell: "L’intossicazione è il quarto bisogno primario, assieme al sesso, la fame e la sete. L’intossicazione è essenziale come ognuno degli altri tre; è un bisogno primario, che si esprime in vari modi - alcuni sanzionati dalle leggi, altri no" (da "There was no avant garde", intervista di Marcus Boon: la maggior parte delle citazioni che riporto provengono dalla vasta raccolta di testi su Hassell accessibili su www.jonhassell.com).

Ma, è bene specificarlo, Hassell è piuttosto lontano dallo spirito godereccio o maudit che da qui potrebbe trasparire, sia che si parli di respiro intossicante come metafora musicale o di assunzione di droghe. Il suo suono - flessibile alle collaborazioni artistiche più varie - e la sua filosofia - intensa eppure facilmente sbandierabile da epigoni new age - contengono la profondità di una vita, il rigore di una missione personale e difficile da sintetizzare senza semplificare. Sondare la biografia non svela l’interezza dell’uomo, ma aiuta.
Hassell, dunque, nasce nel Tennessee nel ’37, dove presto imbraccia la tromba e inizia ad ascoltare del jazz; bianco, nel retrivo Tennessee, ama la musica dei neri e ama il modo in cui i neri suonano il suo strumento (più avanti Miles Davis diventerà il suo preferito). Conclusa la scuola di musica, è ancora in cerca di nuovi stimoli, e la sua maturazione viene segnata da almeno altre tre importanti influenze: appena diplomato, un biennio passato in Germania con Karlheinz Stockhausen, poi l’ambiente dell’avanguardia newyorkese dei futuri minimalisti La Monte Young e Terry Riley, e infine l’incontro con il maestro indiano di raga Pandit Pran Nath. È quest’ultimo incontro a segnare definitivamente il percorso del trombettista. "Pandit mi cantava una frase di un raga e io tentavo di ripeterla sulla tromba, e poiché il raga è un genere che si basa su movimenti curvilinei, si trattava in fondo di disegnare forme": le forme e le curve del raga sono una rivelazione per Hassell, che scopre come idiomi musicali molto diversi (il jazz, l’avanguardia, la musica di Pran Nath) possano diventare semplici sottoinsiemi di qualcosa di più ampio, esattamente come varie famiglie di raga lo sono all’interno della musica indiana.

Così, posizionatosi alla radice del gesto musicale, prima delle biforcazioni dei generi e degli stili, Hassell scopre che suonare consiste fondamentalmente in un unico semplice gesto: la modellazione di forme. Si tratta della "calligrafia in aria", metafora da lui stesso coniata, che così bene descrive il suo stile.

Calligrafia e microsolco

Con in testa una musica in cui l’improvvisazione avesse un ruolo importante, ma che non fosse prettamente jazz e nemmeno raga, nel 1977 Hassell costruisce il suo primo lavoro solista, Vernal Equinox. Il linguaggio qui è già padroneggiato e consapevole, praticamente definitivo nei presupposti principali. Un lungo lavoro di riflessione ha consegnato ai microfoni un artista maturo (ha quarant’anni) e pronto a percorrere una strada sapientemente preparata. Alcuni pezzi del puzzle li prende evidentemente dall’India: sottofondo percussivo e solista in primo piano, ma per non scivolare nella mero sguardo imitativo (anche se negli anni 70 si sarebbe già trattato di notevole world ante litteram) non ricorre a percussioni indiane, ma semmai sudamericane, poi africane. Ma non basta: come ingrediente decisivo, una parte del background viene affidata all’elettronica, suoni campionati e registrazioni ambientali.
Sopra a tutto questo, il suo suono di tromba a intonare i raga appresi da Pran Nath, un suono vocale, umano, eppure già filtratissimo attraverso effetti elettroacustici, pionierizzati da Davis qualche anno addietro ma esplorati ancora più a fondo da Hassell, che assieme ai canonici echi e riverberi scopre l’harmonizer (generatore istantaneo di controcanto per intervalli paralleli) che diventerà un suo marchio di fabbrica.

L’equilibrio rimane in apparenza simile per il disco successivo, Earthquake Island (1978), che rimane interessante soprattutto per il numero di personalità musicali che aderiscono al progetto: Nana Vasconcelos alle percussioni, Badal Roy alle tabla, Miroslav Vitous al basso, Dom Um Romao al basso. Il cast stellare non delude, ma forse strattona un po’ il progetto verso direzioni incongrue; Hassell stesso non sempre convince, e si fa prendere la mano da certi suoni di synth tra l’ambient e la fusion. A posteriori dichiarerà di aver fatto un disco "troppo jazz".

Nel 1980 un’altra forte personalità entra in gioco, e a modo suo aiuta a rimettere a fuoco il progetto. Si tratta di Brian Eno, con il quale Hassell dà vita al suo secondo capolavoro, Possibile Music: Fourth World vol.1, nel quale sviluppa ulteriormente la sua musica e la sua filosofia. A questo punto uno dei suoi obbiettivi espliciti è fare musica "che nessuno è in grado di concepire", musica che integri verticalmente così tante influenze da non poter essere associata esplicitamente a nessun paese o genere musicale. È la musica del Quarto Mondo, un’area immaginaria dove il Nord e il Sud collassano, dove razionalità e fisicità, freddezza e calore trovano punti di saldatura, oppure zone di attrito che stridono cariche di significato. Il Quarto Mondo di Hassell è un concetto politico, filosofico, musicale, senza soluzione di continuità.
Nel disco, Eno fornisce sghembi brusii elettronici, e soprattutto controlla i reverse delay a lungo intervallo, che perdono l’apparenza di comuni "echi" perché ritornano rovesciati dopo vari secondi, e vanno in sostanza a intrecciarsi alla tessitura della tromba: Hassell sa riconoscere queste forme e sa rispondere loro in tempo reale, sulla lezione di Pran Nath.
Fourth World è il disco "imprescindibile" secondo vari testate giornalistiche, seminale perché dà il via alla miccia del fenomeno world , della new age poi. Eno stesso sarà grande ambasciatore del verbo, arrogandosene forse un po’ troppo la paternità, trasmettendolo per esempio a David Byrne in "My Life In The Bush Of Ghosts" (ma già Hassell era transitato tra le fila dei Talking Heads). Da lì anche Peter Gabriel attinge a piene mani, come tanti altri più o meno ispirati.

Dal canto suo, Hassell prosegue il suo viaggio con l’altrettanto valido Fourth World vol.2: Dream Theory In Malaya (1981), con Eno ancora presente ma più defilato. A partire da un incipit stupefacente (un propagarsi di glitches e drops di tromba che potrebbe tranquillamente passare per editing digitale anni 2000), il trombettista mostra una cifra stilistica ben salda, ma non vuole calcare troppo la mano, non vuole rivendicare l’improbabile titolo di "Mr. Fourth World": sa che quando le idee si fissano troppo "non lasciano più entrare la luce, e finiscono per morire".

Aki Darbari Java: Magic Realism (1983) introduce infatti una nuova sfumatura nel pensiero, che vuole di nuovo puntare su un ossimoro, un "realismo magico" fondato su tante e opposte componenti culturali. Nel calderone ribolle un coacervo tecnologico-sciamanico: in "Aki Darbari Java" la complessità delle figure elettroniche che si agitano sullo sfondo è impressionante, modernissima, inclassificabile. Come definire questi agglomerati sonori labirintici, che si ripetono con una meccanicità inquietante, ammorbiditi e resi sensati solo grazie all’emersione della voce della tromba? Verrebbe da chiedersi: da dove vengono, cosa c’è dentro? Letteralmente di tutto, si scoprirà poi: grazie alla produzione Daniel Lanois, la pozione magica mescola voci di pigmei registrate sul campo, orchestrazioni hollywoodiane à-la Les Baxter, campioni della voce di Yma Sumac, assieme a percussioni suonate dal vivo, intercalate a ulteriori strati di elettronica.

La foresta e la città

Nel corso degli anni Ottanta, Hassell lavora ulteriormente sulla sua concezione di misticismo. Sempre attento quando si profila lo spettro del luogo comune, porta avanti una visione di "spiritualità" che non significa per forza "meditazione" o "isolamento". "Ho imparato che essere spirituali vuol dire molto di più che circondarsi di incensi e intonare canti: ha qualcosa a che fare con un modo aggraziato di muoversi nel mondo". E da qui ancora il collasso del senso comune: muoversi nel mondo in maniera spirituale è la stessa cosa che si tratti di aggirarsi per una moderna città sia che si tratti di andare a caccia nella giungla: in entrambi i casi si tratta di un saper fare dotato di grazia. Quando l’etichetta europea Emc lo raggiunge (per le evidenti affinità elettive) per proporgli la produzione di un nuovo album, il risultato è allora Power Spot (1986), ovvero il punto in cui l’agire umano "raggiunge contemporaneamente equilibrio ed energia".
Il matrimonio con la Ecm porta a un’ulteriore ridefinizione del suono: rispetto ai "Fourth World", il suono del disco è quello di una produzione più completa e accessibile, aspetto che rende Power Spot un buon punto di partenza per chi volesse cominciare a conoscere Hassell senza rimanere scottato da dischi più esoterici. Ma forse il suono Ecm è davvero un po’ troppo rassicurante (mancano anche le sonorità tritate e pressate di Magic Realism ), e il sodalizio con l’artista dura un solo album.

Il 1987 dà alla luce The Surgeon Of The Nightsky Restores Dead Things By The Power Of Sound : registrazioni di brani live intitolati con il nome della città (per lo più europea) da cui provengono. La band è grosso modo quella di Power Spot, il "The Jon Hassell Group" (tra gli altri JA Deane, Jean Philipe Rykiel, Michael Brook, Richard Horowitz) con cui prende la via del tour mondiale.

L’anno dopo, Flash Of the Spirit (1988) rappresenta un tentativo quasi contraddittorio: integrando il collettivo Faso Farafina, che unisce percussionisti e ballerini del Burkina, il nuovo progetto di Hassell mostra questa volta una connotazione geografica chiara. "E’ molto più interessante per me vedere una band africana scoprire l’elettronica che non una band occidentale che scopre la musica africana": non è un mistero che, nel tracciare i contorni del Quarto Mondo, il Sud rappresenti per Hassell la parte più affascinante, quella ancora misteriosa ma anche quella più umana (ecco perché sognare una "coffee-colored classical music of the future").

Ma sarebbe troppo facile abbandonarsi all’esotismo, e infatti con gli anni 90 Hassell inaugura per opposizione una fase "cittadina", che si fa via via più soprendente. City: Works Of Fiction (del 1990) è un capolavoro. Presenti in organico chitarra elettrica ma soprattutto un basso elettrico chiaramente groovy , e in più, ad accostare le usuali percussioni arriva il campionatore, utilizzato nella sua modalità più vicina all’hip-hop (beat , break e vari altri stilemi del genere).
L’hip-hop, visto come ennesima propagazione occidentale dello spirito africano, diviene per Hassell un altro power-spot in cui andare a ingrandire i punti di crisi del "primitivismo futuribile". Ancora una volta il magico collante è la sua voce strumentale, uguale e diversa, figura cangiante e sempre affascinante capace di dare coerenza alla mutevolezza degli sfondi su cui si staglia. Nils Petter Molvaer, il suo attuale erede musicale, nasce - e, a voler essere impietosi, si risolve quasi del tutto - in questo disco.

Avanti con la fascinazione tecnologica: Voiceprint (1990) presenta remix electro a cura di 808 State. Ma dopo quattro anni è la volta soprattutto di Dressing For Pleasure (1994), quasi scandaloso nel suo sposare i nuovi suoni e i nuovi beat . L’esercito di produttori ingaggiati per l’album (per non parlare del cast di musicisti invitati: da Kenny Garrett a Brain dei Primus fino a Flea dei Red Hot Chili Peppers), si coagula sotto il nome di Bluescreen. E il bluescreen non è scelto a caso: si tratta di una stimolante metafora per descrivere il campionamento audio. Al cinema e in tv la tecnica consiste nel filmare l’attore davanti a uno sfondo blu monocromo, che poi può essere sostituito in post-produzione da qualunque altro tipo di sfondo. Similmente, in musica, tramite il campionamento, un frammento viene isolato, ritagliato dal suo contesto e sovrapposto a nuovi sfondi (vedi, già nella prima traccia dell’album, la chitarra wah wah di John McLaughlin prelevata direttamente dal "Live Evil" di Miles Davis).
Purtroppo, similmente al suo corrispettivo video, anche il bluescreen di Hassell mostra segni di invecchiamento, come accade per certi effetti cinematografici in cui il supereroe volante ci appare oggi un po’ troppo "scontornato". Dressing For Pleasure si colloca per sua sventura alle radici del jazzettino groovy loop-based (vedi alla voce acid jazz o più recentemente nu-jazz) e, pur probabilmente rappresentando un vertice del genere, in certi momenti di entusiasta triggering di campionamenti non se ne riscatta del tutto.

Tirare un respiro

Pausa. Ripulirsi. Per Fascinoma (1999) Hassell trova una piccola chiesa a Santa Barbara, California, e si dispone con attorno fidi musicisti (tra cui Ry Cooder) di fronte a un singolo microfono stereofonico di alta qualità. Niente elettronica, niente filtri o effetti, solo una "gloriosa risonanza" ambientale, un fardello di bellezza che si aggrappa da subito alla prima nota suonata. Il che suggerisce a Hassell un menu più ampio del solito, addirittura delle "cover", come "Nature Boy" (di Eden Ahbez) o "Caravan" (di Duke Ellington).

Dopo Fascinoma, tante, tantissime collaborazioni. Impossibile citarle tutte (da Wenders a Howie B, dai Lightwave ad Ani Di Franco) forse un po’ di spaesamento, ma poi di nuovo sulla strada: Maarifa Street/Magic Realism 2 (2005) è un album live, dove riappaiono batteria, percussioni elettroniche, agglomerati digitali, tappeti di sintetizzatore (sempre a rischio di esubero) e anche, pur centellinato, il buon vecchio harmonizer.

Se i precedenti Fascinoma e Maarifa Street: Magic Realism 2 avevano evidenziato una fase di stallo, in Last Night The Moon Came Dropping Its Clothes In The Street (2009) Hassell dimostra di essersi, almeno, riappropriato della sua vera voce, come confermano, dopo un paio di brani sottotono (l’umbratile “Aurora” e gli spettri che agitano il crepuscolo di “Time and Place”), le ombre inquiete di “Abu Gil”, un ostinato di corde, tocchi sparsi di piano elettrico e wah-wah deformanti.
Essenzialmente crepuscolare, la musica trova, nei momenti in cui l’elemento ambientale entra in rotta di collisione con liquide trame di jazz elettrico, un punto di contatto con le traiettorie eteree dei Weather Report degli esordi (si veda, per esempio, “Blue Period”), rasentando la pura evanescenza nelle vertigini aeree della title track e nel bozzetto di “Scintilla”. Continuando ad alternare le giuste vibrazioni con esalazioni di lirismo poco appariscente e molto di maniera (“Courtais”, “Northline”), il disco trova, comunque, in “Light On Water” una chiusa indovinata, con la tromba che distende il suo lamento su di un discreto tappeto percussivo, qua e là trafitto da bollicine di piano elettrico.

Sognando

A far di nuovo levitare ad altezze siderali la metafisica creatività del Maestro provvede, nove anni dopo, "Listening To Pictures (Pentimento Volume One)", prima sortita della sua nuova label Ndeya. Introdotta dal magnifico singolo "Dreaming", l'opera deve il suo sinestetico titolo alla peculiare procedura compositiva adottata, che Hassell riassume con una delle sue pregnanti metafore: "I started seeing (or was that hearing?) the music we were working on in the studio in terms of a painting with layers and touch-ups and start-overs with new layers that get erased in places that let the underlying pattern come to the top and be seen (or heard)". L'elemento visuale-pittorico non è quindi il punto di partenza (pensiamo alle composizioni di Morton Feldman ispirate ai dipinti di Rothko), ma di arrivo: Hassell non commenta delle immagini, ma le crea di suo pugno sovrapponendo pennellate su pennellate, per poi accanirsi a scrostarle e ricomporle, fino a ottenere un pastrocchio astratto di colori qua saturi, là sfumati, altrove prossimi alla trasparenza. Ne risulta la sua tela più sofisticata e futuribile, tutto sommato svincolata dai pur labili dettami dell'estetica fourth world: un jazz-noise-ambient mai così denso di aloni percussivi, poco etnico nella sua natura quasi robotica, più vicino a un sound design per una galleria d'arte che a un tramonto africano.
È un lavoro che, almeno in parte, rinuncia a quel fascino fuori dal tempo che lo ha sempre contraddistinto (che sia questo il "pentimento" sbandierato nel sottotitolo?) per tuffarsi in una pasta sonora ben ancorata al presente: Hassell sembra quasi volersi misurare con le forme più avanzate di elaborazione sonora. Non per sfidarle ma per studiarle, come l'antropologo visionario che è sempre stato.
Pensare che una musica così fresca sia stata concepita da un ottantunenne lascia sbalorditi, e dovrebbe quantomeno far riflettere tanti propugnatori di electro-fuffa spacciata per Verbo Nuovo.

Vedere attraverso il suono. A due anni di distanza dall’ottimo Listening To Pictures, che ne sanciva il ritorno dopo uno iato lungo ben nove anni, prosegue lungo la rotta sinestetica del suo nuovo approccio compositivo il percorso sonico di Jon Hassell e lo fa arricchendosi di un nuovo volume della serie "Pentimento" - Seeing Through Sound (Pentimento Volume Two) - capace di confermare e ampliare la feconda prospettiva verso una contemporanea e rivitalizzata visione del suo alchemico quarto mondo.
A nutrire le otto derive di questa nuova, ammaliante traiettoria attraverso liquidi paesaggi che condensano istanze passate e schegge di futuro in un eterno presente, sono le medesime logiche e gli stessi elementi che strutturavano il suo notevole predecessore. Vapori sintetici densi e oscuri e tessiture ritmiche dall’intensità /consistenza cangiante sono il substrato dal quale continuano a emergere oblique risonanze scomposte e rimodulate, fondamentale marchio di fabbrica dell’universo hasselliano. Cristallizzato in sequenze sempre più consapevoli ed espanse, ancora una volta prive di confini tracciabili e ambiti identificabili, l’estro trascendente del trombettista di Memphis dipinge un multiforme scenario in cui cromie vivide e segni decostruiti e sovrapposti si intrecciano lasciando scaturire un prepotente immaginario dallo sviluppo vorticoso e magnetico.
Capisaldi del viaggio sono le due dilatate escursioni sonore poste in apertura e chiusura del lavoro, quali preziosi estremi di un’esplorazione poliedrica che nasce dalle ipnotiche e striscianti trame dell’inquieta “Fearless” e si esaurisce nel nervoso e frastagliato incedere di “Timeless”, evidenziando una circolarità che ha nelle sue sfumature cosmiche l’elemento persistente. Incastonata tra questi due poli si ritrova una sequenza di visionari sprazzi che si muovono tra sinuosa epopea da cui si libra più marcata l’inconfondibile, elaborata voce della tromba (“Moons Of Titan”, “Lunar”), nebbiosi intermezzi spettrali (“Unknown Wish”, “Cool Down Coda”) e astrazioni dagli echi davisiani costellate da luminosi glitch (“Delicado”, “Reykjavik”). Fedele alla sua costante ricerca di una dimensione inclusiva e altra, Hassell ci regala un nuovo tassello di una musica possibile che non smette di incantare per la grazia con cui si rivela ai nostri sensi.

Rimarrà l'ultimo lascito del grande trombettista, scomparso il 26 giugno 2021 per cause naturali, a 84 anni.

Jon Hassell è stato un artista raro, capace di rivelare qualcosa di nuovo ogni volta che lo si ritorna a guardare. Ho usato tante parole ma, volontariamente, poco descrizionismo musicale. Il caveat lo aveva dato lo stesso Hassell, denunciando i rischi di ciò che chiama wordism, il verbismo. "Le parole sono scritte su una pellicola trasparente. Le esperienze a cui si riferiscono hanno luogo, senza soluzione di continuità, dietro la superficie della pellicola. Le parole sono come campioni digitali dell’esperienza analogica. Se ci concentriamo sulle parole scritte sulla pellicola, l’esperienza va fuori fuoco, come quando, concentrandoci su un insetto posato sul parabrezza dell’auto, non possiamo più vedere i dettagli della strada davanti a noi. L’esperienza preverbale o primitiva ha luogo interamente a prescindere da questa pellicola. E più l’homo sapiens si cala nel reame dei simboli, più la membrana che collega cose e simboli si atrofizza".
Sciogliamo allora le parole in nebbie intossicanti come quella di "Amsterdam Blues", in una musica che ci guida e ci confonde con grazia, nelle foreste-città del nostro (quarto) mondo.

Contributi di Francesco Nunziata ("Last Night The Moon Came Dropping Its Clothes In The Street"), Ossydiana Speri ("Listening To Pictures (Pentimento Volume One)"), Peppe Trotta ("Seeing Through Sound (Pentimento Volume Two)")

Jon Hassell

Discografia

Vernal Equinox (1977)

Earthquake Island (1978)

Fourth World, Vol. 1: Possible Musics (with Brian Eno, 1980)
Fourth World, Vol. 2: Dream Theory In Malaya (1981)

Aka/Darbari/Java: Magic Realism (1983)

Power Spot (prodotto da Brian Eno/Daniel Lanois, 1986 )

The Surgeon Of The Nightsky Restores Dead Things By the Power Of Sound (1987)

Flash Of The Spirit (1988)

City: Works Of Fiction (1990)

Dressing For Pleasure (1994)

Sulla Strada (soundtrack, 1982/1995)

The Vertical Collection (1998)

Fascinoma (1999)

Hollow Bamboo (con Ry Cooder e Ronu Majumdar, 2000)
Magic Realism, Vol. 2: Maarifa Street (2005)

Last Night The Moon Came Dropping Its Clothes In The Street (2009)
Listening To Pictures (Pentimento Volume One) (2018)
Seeing Through Sound (Pentimento Volume Two) (Ndeya, 2020)

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