Nico Muhly

Nico Muhly

L'alchimista post-classico

Diplomato alla prestigiosa Julliard School e laureato alla Columbia University, Nico Muhly è stato a lungo al fianco di Philip Glass, ed è del suo minimalismo barocco – in apparente antitesi – che le sue strutture compositive sembrano aver subito la più profonda influenza. Ma a connotare la sua musica "universale" sono anche le fascinazioni islandesi di Bjork e Sigur Ros, in un ardito ponte tra classica e pop portato a compimento nel suo nuovo album, "Mothertongue"

di Livia Fagnocchi

Nel 2006 Nico Muhly aveva appena 25 anni, due lauree conseguite, una alla Columbia University l'altra alla Julliard School, una gavetta nella composizione di colonne sonore al fianco di Philip Glass e nondimeno collaborazioni importanti. Bjork per prima. Con lei, Nico è stato pianista per “Medúlla”, “Drawing Restraint 9” e “Volta”. Questo è stato anche il primo contatto avuto da Muhly con l'isola minuscola dalla miglior qualità di vita sul globo (così racconta un recente sondaggio sull'Islanda, e, visti i talenti, non ne dubitiamo). E' in quell'anno che la Bedroom Community - etichetta gravitante attorno al produttore Valgeir Sigurdsson - pubblica il suo primo album, Speaks Volumes.
Negli ultimi due anni, oltre ad aver collaborato con Bonnie “Prince” Billy in “The Letting Go”, con Antony Hegarty (Antony and the Johnsons), con Sam Amidon per “All Is Well” e con numerose orchestre di classica contemporanea, Nico Muhly trova l’entusiasmo per sentirsi "hress" (parola islandese che significa "supergioioso" per qualcosa) e per tradurlo in musica nella sua opera seconda Mothertongue (sempre su Bedroom Community), decisamente più orchestrale, islandese e complessa rispetto alla prima.

Leggendo sul web, altre cose che apprendiamo di lui sono: Nico ama cucinare, ha due macchine per fare il gelato, vive con la migliore amica nella China Town di New York. Per altre notizie rimandiamo al suo blog, www.nicomuhly.com/, aggiornato quasi quotidianamente e completo di ogni informazione circa il suo coinvolgimento artistico.

Se il tentativo di tracciare un ponte fra pop e classica non gli riesce appieno in Speaks Volumes, dove si ha a che fare con viole recalcitranti e un pianoforte un po’ trascurato, Mothertongue si distingue invece per la poeticità con cui riesce a combinare classica, post-rock, folk, minimal elettronica, conversando con i Sigur Ròs e con Bjork, ma sapendo di essere solo Nico Muhly.

Speaks Volumes è diviso in due. Una prima parte, fino a “Honest Music”, più sperimentale, meno strutturata e più asciutta. Una seconda parte, introdotta dal preludio pianistico di “Quiet Music”, che pare più liquida e scorrevole, grazie all’uso costante del pianoforte, e grazie a una conclusione intensa, emotiva e sperimentale quale è la bellissima “Keep In Touch” (con l’immancabile Antony).
L’idea che ci siamo fatti dell’Islanda, e del suo effetto sui colori musicali, si sente già in “Clear Music”, dopo la lunga introduzione di viola-solo: Nico Muhly pare raccontare passeggiate fra alberi inesistenti, incontri con animali spassosi e momenti di sorprese angoscianti. L’altro protagonista, insieme alla viola, è un violoncello disinvolto, che, oltre a creare il terreno per i due strumenti solisti, si diverte a scombussolarlo e renderlo atipico. Sopra, un’arpa esperta si prende cura di un tema piacevole. Di “It Goes Without Saying” esiste un video molto evocativo, dove le immagini astratte sono allieve della musica – minimale e con tratti di “musique concrète” (campioni di oggetti inseriti in loop). Oggetti riconoscibili si trasformano, si scolorano, si modificano con l’incedere preoccupato della musica. Nel video – notevolmente accorciato – il tema emerge e illumina; nell’album invece, è facile perderlo nello sfogo sperimentale. Stessa cosa vale per “Honest Music”.
La seconda parte dell’album, più accessibile, si apre con “Quiet Music”: il suo pianoforte acquista finalmente il primo piano, e come si immagina, l’atmosfera si acquieta con sequenze di accordi che vanno allontanandosi verso l’apertura di “Pillaging Music” (“rubando musica”). Nove minuti di suite cameristica dove il pianoforte, insieme a uno xilofono e a minime inserzioni elettroniche, crea un fantastico contraltare di situazioni, ora giocose, ora sfuggenti.
Finalmente “Keep In Touch”, il gioiello dell’album. E’ vero, sì, che inizia con le acrobazie di un viola: è lo scoglio da scavalcare per poter poi godere di ciò che segue: pura emozione classica, pop ed elettronica. La stessa viola - leggermente distorta - prepara il terreno a timidi vocalizzi, lontani e ovattati, che corrispondono alla voce inconfondibile di Antony Hegarty. I restanti cinque minuti di canzone sono una meraviglia: entrano in gioco elementi elettronici, la voce del violino si fa più acuta e a tratti drammatica, si delinea una melodia riconoscibile che a volte inciampa in volute dissonanze che danno quel ché di "twisted" alla purezza dinamica del suono.
E’ uno dei casi in cui aspettare la fine ha un senso preciso: quello di fornire una nuova chiave d'accesso all'album, che permette non solo di godere di una meritevole conclusione, ma anche di rivedere le tracce precedenti sotto una nuova luce.

Se Speaks Volumes era l’adolescente coraggioso e iper-stimolato, Mothertongue è l’adulto che ha fatto luce su una strada percorribile e ha riconosciuto un talento innegabile. È questo secondo album che ci ha senz’altro più convinto e, non di meno, sedotto. L’intensa orchestrazione e l’accessibilità, prima di tutto.

Mothertongue (2008) è un disco che interagisce con archi, fiati, strumenti a corda, percussioni, campionamenti e voci. Il giovane compositore affronta ogni tipo di timbro e sonorità, composte e orchestrate su ispirazioni extra-musicali. L’album è infatti costituito da tre “suite” che sviluppano idee a sé stanti. Questo è il principio di struttura che si vive nell’opera, pur confrontandosi con composizioni di diversa durata e organicità.
La prima parte è "Mothertongue". Muhly riflette sull’idea di corpo come “banca della memoria” e tenta di ricostruire un’archeologia dell’individuo attraverso il ricordo di numeri di telefono, codici, Stati, capitali, e così via, assunti nel brano dalla lettura sovrapposta da una moltitudine di voci. L’effetto è di straniamento, data la forzata indecifrabilità della recitazione: l’effetto si espande nel contrasto con una musica orchestrale orecchiabile, fondata su un atipico tappeto “post-rock” di archi e si dilata in un dialogo soprannaturale con i Sigur Ròs.
Nella seconda parte – “Wonders” – Nico Muhly interpreta la sua idea di Seicento, che ha a che fare con il colonialismo inglese, le esplorazioni di terre sconosciute, vulcani, vegetazione esotica, anguille e balene, ubriachi e sguardi meravigliati. Muhly ricompone il piano narrativo affidando la lettura del madrigale “Thule, The Period Of Cosmography” di Thomas Weelkes (1575-1623) alla performer islandese Helgi Hrafn Jonsson. La sua voce, classica e senza tempo, alleggerisce il suono metallico di un clavicembalo disinibito a cui è affidata gran parte della partitura.
L’amico Sam Amidon c’è e si sente. Come abbiamo già detto altrove, la sua voce fa la differenza, esattamente come quella di Antony a conclusione di Speaks Volumes. L’inizio della terza suite “The Only Tune” suona come se Bob Dylan recitasse su una composizione di Laurie Anderson: la sola differenza è che qui, invece di parlare di futuro e di robot, Nico Muhly si confronta con la musica della sua infanzia (anche lui – come Sam Amidon - cresciuto nel Vermont di violini, banjo e folk-song orecchiabili dai testi trucidi). La suite ruota intorno alla canzone popolare “The Two Sisters”, dalla melodia dolcissima e dal testo feroce (una sorella uccide l’altra e annega il cadavere nel fiume). La crudezza di molte delle storie raccontate nelle folk-song viene ripresa e fatta esplodere nel secondo movimento, e poi ricostruita con una dolcezza consapevole nel terzo. Nonostante l’idea promettente e la collaborazione importante, l’interpretazione “colta” e contemporanea di materiale popolare risulta forse un po’ forzata (secondo movimento). Non è male, sia chiaro, ma a nostro parere la giunzione parole-musica della prima suite “Mothertongue” resta ineguagliata.

Superando il già promettente album d’esordio, il giovane compositore del Vermont sembra dunque aver raggiunto la maturità espressiva. Se è da Philip Glass e dal suo minimalismo barocco – in apparente antitesi – che la struttura compositiva di Muhly sembra avere subito la più profonda influenza, la sua musica ricerca costantemente un approfondimento, una contaminazione, con strumenti anche pop, del linguaggio e della poetica dei minimalisti americani storici che in Europa vede nella straordinaria opera di Jeanette Sollén un possibile paragone.

Contributi di Massimo Marchini

Nico Muhly

Discografia

Speaks Volumes (2006, Bedroom Community)

6,5

Mothertongue (2008, Bedroom Community)

7,5

Pietra miliare
Consigliato da OR

Nico Muhly su OndaRock

Nico Muhly sul web

Sito ufficiale
Myspace