Philip Glass

Philip Glass

Ripetizione e sublimazione

La musica, il teatro e il cinema contemporanei non sarebbero stati gli stessi senza il contributo rivoluzionario del maestro di Baltimora: la sua visione artistica attinge ai principi essenziali della composizione per creare strutture e processi che declinano la lezione minimalista in un'estetica singolare e fortemente espressiva

di Claudio Fabretti e Michele Palozzo

Knock knock. Who’s there? Philip Glass
Knock knock. Who’s there? Philip Glass
Knock knock. Who’s there? Philip Glass

Le più ricorrenti e ingiustificate critiche e ironie rivolte alla musica di Philip Glass riguardano la sua apparente ripetitività: un corpus di opere presunte sempre uguali a se stesse, sia tra di loro che nella struttura interna che le governa. Lo sottolinea con pacatezza – ma non senza una punta di irritazione – il compositore stesso nella sua recente autobiografia, “Words Without Music”, paragonando tale disattenzione al dormire durante un film e svegliarsi per l’intervallo.
Ma si tratta, soprattutto oggi, di una rimostranza del tutto ingenerosa nei confronti di uno stile che, volenti o nolenti, ha influenzato forse più d’ogni altro le odierne forme di composizione “pop”, dalla musica per il cinema all’ondata modern classical degli ultimi anni.

E questo soltanto per ciò che riguarda l’eredità nel lungo periodo: una distanza di quasi mezzo secolo ci separa ormai dai primi lavori per organo amplificato e dalle rivoluzionarie performance del Philip Glass Ensemble; quarant’anni fa l’estro creativo di Glass e del regista-coreografo Robert Wilson partorivano Einstein On The Beach, semplicemente una delle opere teatrali più innovative di sempre; pochi anni più tardi Godfrey Reggio avrebbe sancito l’ulteriore consacrazione del compositore americano con l’uscita in sala del totalizzante Koyaanisqatsi.
Da qui in poi si può parlare solo di leggenda, e di un’eredità che non cessa di alimentare le più disparate espressioni musicali, dagli auditorium ai palchi dei maggiori festival indie – giusto tre nomi recenti: Benjamin Clementine, Colin Stetson, Sarah Neufeld.

Quella di Philip Glass non nasceva come musica trasversale, ma è riuscita a diventarlo introducendo – assieme ai vari Terry Riley, Steve Reich e La Monte Young – un nuovo gusto per i procedimenti compositivi anziché per la composizione ultima. L’ascoltatore viene in questo modo riportato a un livello precedente della creazione musicale, a una sorta di “aritmetica” soggiacente all’espressione dell’opera, che in questo modo mette a nudo le sue nervature ritmiche, melodiche e armoniche, come il dettaglio di un elaborato tessuto che venga analizzato al microscopio.

Una serie di umiliazioni ha segnato i primi anni di attività musicale di Glass, che ben presto si accorse di “vivere in un mondo dove tutti i compositori erano morti, anche quelli viventi”, e dunque si risolse a continuare per la sua strada. Nel 1966 i suoi compagni allievi di Nadia Boulanger alla Juilliard sentenziavano: “Mais ce n’est pas la musique!”; dieci anni dopo la Metropolitan Opera House registrava il tutto esaurito per le prime due rappresentazioni dell’Einstein.
Oggi, al compimento dei suoi 80 anni e dell’undicesima Sinfonia, non ricordiamo un altro compositore del nostro tempo che con il suo stile sia stato in grado di cambiare in maniera così significativa tanto gli stilemi musicali – d’area “colta” e non – quanto le arti limitrofe.


Biografia


Dal retrobottega di un negozio di dischi di Baltimora ai più grandi palcoscenici del mondo. Assomiglia a una fiaba, la parabola di Philip Morris Glass (31 gennaio 1937), figlio di immigrati ebrei di origine lituana, insediatisi nel cuore del Maryland. Un percorso artistico che attraversa i decenni con un’innata – e inaudita - propensione alla mescolanza onnivora di stili, estetiche, filosofie. Forse proprio perché, fin dalla tenera età, dal banco del negozio paterno gli si erano già schiusi orizzonti sconfinati. Oltre a riparare apparecchi radio, infatti, il padre Ben aveva in campionario una mole inesauribile di lavori - spesso invenduti - di compositori di musica moderna (Paul Hindemith, Béla Bartók, Dmitrij Šostakovič) e classica (i quartetti per archi di Ludwig van Beethoven e i due trio per piano di Franz Schubert). Dischi che il giovane Philip consumerà, prendendo subito contatto con la tradizione colta occidentale. Fin dai 6 anni, Phil Glass studia violino, ma quello che è poco più di un gioco infantile si traduce già in interesse concreto due anni dopo, quando inizia a studiare il flauto al Peabody Conservatory. L’asfittica vita musicale di Baltimora, però, gli va stretta. Così, dopo due anni di scuola superiore, si trasferisce alla University of Chicago, dove si specializza in Matematica e Filosofia, oltre a proseguire gli studi musicali (pianoforte, in particolare). Il giovane Glass è già uno scienziato-compositore, che coniuga la logica matematica al pentagramma e sogna di osservare le stelle, dilettandosi a costruire telescopi.

Philip GlassA 19 anni è pronto al grande salto. Si trasferisce a New York, dove frequenta la Juilliard School, dedicandosi principalmente alle tastiere, sotto la supervisione di insegnanti come Vincent Persichetti e William Bergsma. Abbandonate le tecniche dodecafoniche sperimentate a Chicago, si infatua di John Cage e Morton Feldman. Ma a travolgerlo è il jazz: non perde un concerto di John Coltrane e di Ornette Coleman al Village Vanguard, mette le tende al The Five-Spot, a St. Mark’s Place, dove Charles Mingus e Cecil Taylor sono di casa. Non pare, però, ancora interessato a comporre per il teatro e l’opera. Tutt’al più si limita a qualche incursione a Broadway, sul loggione del vecchio Metropolitan, sulla 39esima strada. Nel 1960 compone un concerto per violino per la compagna di studi Dorothy Pixley-Rothschild.
I suoi interessi si estendono dalla letteratura beat al Living Theatre. Ma quella smania di ampliare i propri orizzonti, quasi una sorta di “claustrofobia creativa”, che accompagnerà l’intera vicenda artistica di Glass, si manifesta perfino nella sconfinata megalopoli newyorkese, fucina di avanguardie a ciclo continuo. Così è il richiamo dell’Europa, del suo addestramento musicale rigoroso e della effervescenza del suo universo teatrale, a spingere Glass a Parigi, grazie a una borsa di studio Fulbright.

Sulle rive della Senna, dal 1963 al 1965, studia composizione con Nadia Boulanger, insegnante della scuola di Fontainebleau e guru di svariate generazioni di musicisti americani fino all’anno della sua morte (1979). Sotto la sua guida, Glass analizza gli spartiti di Bach, Mozart e Beethoven. Riferendosi a quegli anni nella sua autobiografia “Music by Philip Glass” (1987), racconterà che i concerti del Domaine Musicale di Pierre Boulez non lo appassionavano (fatta eccezione per i lavori di Cage e Feldman), mentre era molto impressionato dagli spettacoli messi in scena da Jean-Louis Barrault al teatro Odéon e dalla nouvelle vague francese di registi come Jean-Luc Godard e François Truffaut.

Philip Glass - Ravi ShankarIn Francia, Glass incontra un altro personaggio-chiave della sua formazione, il compositore indiano Ravi Shankar, colui che George Harrison ribattezzerà “the godfather of world music”. Dalla collaborazione con Shankar nasce la prima colonna sonora composta da Glass, per il film “Chappaqua” di Conrad Rooks (1966). Un anno prima, si era concretizzato invece il battesimo teatrale, con le musiche per “Play” di Samuel Beckett, in cui Glass aveva potuto mettere in pratica i processi compositivi mutuati dai raga e dai tala ipnotici di Shankar e Alla Rakha (maestro della tabla), basati sulla reiterazione di cellule melodico-ritmiche, che venivano poi variate grazie all’introduzione o sottrazione di alcune note, attraverso il cosiddetto “processo additivo”.
Dal sodalizio con il virtuoso del sitar prende forma il nuovo stile di Glass, che introduce ritmi compulsivi nelle sue prime composizioni d’impronta minimalista, tra cui le musiche per una commedia di Samuel Beckett (“Comédie”, 1963) e un quartetto d'archi (“No.1”, 1966). Ma il solco lasciato da Shankar non è solo musicale: durante un viaggio in India, Glass entrerà in contatto con la comunità dei rifugiati tibetani; diventerà buddhista e vegetariano – per un periodo anche vegano, finché la sua amica Doris Lessing non riuscirà a dissuaderlo.

Le strutture di cui mi occupo sono quelle degli elementi ripetuti.
(Philip Glass)

Philip GlassFin dall’esperienza di “Play”, Glass si fa portatore di un’epifania: “Fare arte in modo non narrativo, non colloquiale, attraverso un’esperienza che sia più in sintonia con le nostre reali percezioni”. Una concezione che mira a scardinare le convenzioni – musicali, teatrali, psicologiche – attraverso il flusso non più lineare, bensì circolare, della musica minimalista. Tecnicamente, il minimalismo consiste nell’estrema riduzione del materiale musicale tradizionale e nella reiterazione di una frase con micro-variazioni, generando composizioni timbricamente uniformi, spesso tonali, e prive di una struttura musicale definita dall'armonia, che cambiano progressivamente, ma in modo quasi impercettibile e apparentemente statico, attraverso le ripetizioni e sovrapposizioni ritmiche di cellule melodiche che possono generare, a volte, tessuti sonori particolarmente complessi. Ma per Glass il minimalismo sarà solo una base di partenza, mai un traguardo e men che meno un porto sicuro al quale ancorarsi. “Le strutture di cui mi occupo – preciserà Glass in modo definitivo – sono quelle degli elementi ripetuti”.
Del resto, la sua opera, già alla metà degli anni Sessanta, è ibrida e multiforme, al punto da trovare nelle gallerie la sede naturale, in cui minimalismo musicale e minimalismo nelle arti visive si fondono in un’esperienza artistica inedita. Emblematico, in tal senso, il concerto alla Jonas Mekas's Film-Makers Cinematheque nel 1968, con Music In The Shape Of A Square per due flauti (un omaggio a Erik Satie, eseguito da Glass e Gibson) e Strung Out per violino solo amplificato, suonato dalla violinista Pixley-Rothschild.

Sono un artista, ma a volte anche un idraulico.
(Philip Glass)

Ma il mestiere di compositore d’avanguardia è un lusso. Così Glass, ancora a 30 anni, sbarca il lunario facendo il tassista a Manhattan e gestendo con il compare minimalista Steve Reich una compagnia di traslochi. Mentre è alle prese con le partiture dell’immane “Music In Twelve Parts”, si improvvisa idraulico. A 37 anni, si ritrova in un loft di Soho per installare una lavastoviglie: sta sgobbando con tagliatubi e chiavi inglesi, quando incrocia lo sguardo attonito di Robert Hughes, critico d’arte del Time: “Ma lei è Philip Glass! Che sta facendo qui?". Lui non si scompone: “Sono un artista – gli replica – ma a volte anche un idraulico. E ora mi lasci finire, per favore”.

A imprimere un’ulteriore svolta nella sua carriera artistica è invece la nascita del Philip Glass Ensemble (1968), in cui entrano le tastiere, i fiati (sassofono e flauto) e una voce di soprano, il tutto amplificato attraverso un mixer. Se opere come Two Pages, Music In Contrary Motion e Music In Fifths (omaggio alla Boulanger) rinnovano un impianto minimalista, lavori come Music In Similar Motion (1969) e Music With Changing Parts (1970) denotano un processo di crescente complessità, che sfocia nelle quattro ore della performance Music In Twelve Parts (1971-1974), chiusa con la voce soprano che canta un tema dodecafonico.

Philip Glass - Bob WilsonDa qui in poi è tutta un’accelerazione a perdifiato, all’insegna di un’avanguardia visionaria. Opere strumentali come Another Look At Harmony (1975) e Fourth Series (1978-79) gettano le basi del nuovo corso, ma sono soprattutto i lavori per le produzioni teatrali a offrire la cifra artistica del nuovo Glass. A partire dal capitale Einstein On The Beach (composto nel 1975 ed eseguito per la prima volta nel 1976), opera teatrale scritta in collaborazione con Robert Wilson e centrata sulla figura di Albert Einstein, in cui figurano il suo gruppo, un violino solista, un coro e gli attori. L’opera – un kolossal immane di 4 ore e mezza, frutto di 4 mesi di prove, dieci tonnellate di scenografia e una troupe di 32 persone tra musicisti, coristi, attori e ballerini – riceve recensioni entusiastiche negli Stati Uniti, consacrando Glass come compositore di punta della nuova scuola newyorkese. Il testo musicale di "Einstein On The Beach" diviene il primo capitolo di una trilogia collegata tematicamente, seguito da Satyagraha (1980) e Akhnaten (1983), a formare le tre “opere ritratto” dell’artista di Baltimora. Incentrata sui primi anni di vita del Mahatma Gandhi e sulle sue esperienze in Sudafrica, “Satyagraha” è anche la prima opera di Glass per un'orchestra sinfonica, sebbene le parti principali restino riservate a voci soliste e al coro. L’ultimo atto della trilogia, “Akhnaten” (1983-84), è invece il ritratto del faraone Akhenaton, una sontuosa composizione vocale e orchestrale cantata in accadico, ebraico biblico e antico egizio, in cui i violini scompaiono e l'orchestra assume “un suono basso e scuro”, secondo la definizione dello stesso autore.

Philip Glass - Allen GinsbergNello stesso anno Glass collabora con Wilson alla stesura di un'altra opera, the CIVIL warS, che debutta all'Opera di Roma. I suoi lavori per il teatro in questo periodo includono molte composizioni per la compagnia Mabou Mines, da lui co-fondata nel 1970, che consistono principalmente in musiche per scritture e adattamenti della prosa di Beckett, quali The Lost Ones (1975), Cascando (1975), Mercier And Camier (1979), Prelude to 'Endgame' e Company (1984).
Ma non vanno dimenticate anche altre audaci produzioni teatrali, come la gotica The Fall Of The House Of Usher (1987) e la non meno temeraria 1000 Airplanes On The Roof (1989), psicodramma per voce parlante, soprano e mini-ensemble di synth, allestito nell’hangar 3 dell’aeroporto di Vienna.
L’arte onnivora di Glass si nutre anche di collaborazioni a sfondo letterario, come quella con Doris Lessing per The Making Of The Representative For Planet 8 e quella con Allen Ginsberg per la pièce Hydrogen Jukebox.

Rispetto ad altri compositori della mia generazione ho più sèguito, amo il fatto che migliaia di persone vengano a un mio concerto.
(Philip Glass)

Anche attraverso queste opere Glass mette a fuoco il suo concetto di theatre music, una musica in cui il punto di partenza non è il linguaggio della musica stessa, bensì un soggetto esterno ad essa. Ma la sua versatilità si rivela illuminante anche sul versante della ricerca melodica, con il felice esperimento di Glassworks (1982) per pianoforte solista e orchestra. Del resto, è lui stesso a riconoscere la sua attitudine alla trasversalità, alla contaminazione tra musica alta e bassa, colta e leggera: “Una cosa mi distingue da altri della mia generazione: io ho più sèguito, e questo perché mi interessa portare in pubblico il mio lavoro in grande. Amo il fatto che migliaia di persone vengano a un mio concerto”. Anche per questo si esibisce ovunque: in gallerie d’arte, appartamenti dell’Upper East Side, parchi e locali notturni.

Philip GlassL’idillio con il cinema si conferma un altro aspetto centrale dell’arte glassiana, sempre fortemente improntata alle arti visive e a tutte le esperienze di drammaturgia non narrativa e anti-naturalistica. La sua produzione di colonne sonore si fa più intensa, a partire (1981-83) da quella per Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio, il primo documentario della serie Qatsi di cui Glass curerà anche le successive soundtrack, per proseguire con Mishima: A Life in Four Chapters (1985) di Paul Schrader, e, nel decennio successivo, L'agente segreto (1996) con la English Chamber Orchestra e Kundun (1997) di Martin Scorsese, per il quale otterrà anche una nomination all’Oscar. Al film The Truman Show (1998) regalerà invece, oltre alle musiche, un inatteso cameo.
Tra il 1993 e il 1996, Glass si dedica ad un altro trittico di opere basato sulla prosa e sui film di Jean Cocteau: Orphée, 1949, La Belle et la Bête, 1946, e il racconto Les Enfants Terribles del 1929, adattato a film nel 1950 dallo stesso Cocteau e da Jean-Pierre Melville, omaggio musicale ai francesi Les Six.
Tra i lavori successivi per il cinema, spiccheranno i temi per film come The Hours (Stephen Daldry, 2002), altra candidatura all’Oscar, The Fog Of War (Errol Morris, 2003), The Illusionist (Neil Burger, 2006), Sogni e delitti (Woody Allen, 2008) e Diario di uno scandalo (Richard Eyre, 2007), che gli varrà un’altra nomination alla statuetta, purtroppo ancora mai raggiunta.

David Bowie e Brian Eno mi hanno aiutato a catturare l’energia, il magnetismo di quegli anni e a tradurli su carta, imprigionandoli in un’altra forma.
(Philip Glass)

Philip Glass - David BowiePur arricchendosi di forme sofisticate – dalla ciaccona nel “Satyagraha” a rimandi sparsi a stili classici come barocco e primo romanticismo – le composizioni di Glass si fanno al contempo idonee a ensemble più accessibili, come i quartetti d'archi e le orchestre sinfoniche. Nascono così opere significative come il Violin Concerto (tre movimenti quasi neo-barocchi, su cui vengono cantati testi scritti nella lingua di Akhenaton), la trilogia Sibeliana (“The Light”, “The Canyon”, “Itaipu”, 1987-1989) e The Voyage, commissionatagli dalla Metropolitan Opera per la cifra record di 325.000 dollari, più altre due sinfonie da tre movimenti. La prima – Symphony No. 1: 'Low' – è una sorpresa assoluta: consiste infatti in una rielaborazione delle musiche dell’omonimo album di David Bowie realizzato insieme a Brian Eno. Per eseguire i tre movimenti (“Subterraneans”, “Some Are”, “Warszawa”) Glass impiega un’intera orchestra: 2 flauti, ottavino, 2 oboi, 2 clarinetti, clarinetto piccolo, clarinetto basso, 2 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, tuba, percussioni, arpa, piano e archi. Seguirà nel 1996 una sinfonia su un altro album di Bowie, il secondo capitolo della trilogia berlinese, “Heroes” (Symphony No. 4). “Bowie e Eno – racconterà – mi hanno aiutato a catturare l’energia, il magnetismo di quegli anni e a tradurli su carta, imprigionandoli in un’altra forma”.
Del resto, il contatto con la popular music era già stato stabilito nel 1986, con “Songs From Liquid Days” (1986), raccolta di brani composti da Glass con testi di Paul Simon, Suzanne Vega, David Byrne e Laurie Anderson, mentre nel 1997 arriverà anche il sodalizio con Natalie Merchant (il brano per piano-voce “Planctus”).
A due anni dalla “Low Symphony” compone invece la Symphony No. 2 (1994), commissionata dalla Brooklyn Academy of Music e strutturata come uno studio in politonalità vicino alle musiche di Arthur Honegger, Darius Milhaud e Heitor Villa-Lobos. Con la Symphony No.3 (1995), commissionata dall'orchestra da camera di Stoccarda, lo stile orchestrale diviene invece più limpido e intimo, nel solco della evoluzione dell’opera coeva di Reich.

Nella produzione di musica da camera del periodo vanno ricordati anche gli ultimi due quartetti d'archi di una serie di cinque scritti per il Kronos Quartet (1989 e 1991) e il pezzo Music From The Screens (1989), frutto del sodalizio con il musicista gambiano Foday Musa Suso e con la regista teatrale Joanne Akalaitis (la prima moglie di Glass, da cui divorzierà nel 1980 per sposare Luba Burtyk), con sonorità più vicine alla musica da camera classica (Bach, Debussy, Ravel). Cresce anche la produzione per pianoforte, da un ciclo di cinque pezzi per un adattamento teatrale de “La metamorfosi” di Franz Kafka (Metamorphosis), presentato nell'album "Solo Piano" assieme alla splendida Mad Rush – composta nel 1979 sulla base di una pièce d’organo – al primo volume di Études for Piano (Nos. 1-10, 1994-95). I primi sei études gli vengono commissionati dal pianista e direttore d'orchestra Dennis Russel Davies.

Philip GlassIl Glass del 2000 è ormai un indiscusso guru mondiale, incoronato dalla rivista inglese The Telegraph al numero 9 della Top 100 dei geni viventi. E la sua musica continua a inseguire traiettorie spiazzanti, dalla colonna sonora del film di Godfrey Reggio Naqoyqatsi (2002) all'opera da camera The Sound Of A Voice (2003) alle tre sinfonie costruite sullo scambio tra voci e coro e orchestra.
Tra le recenti sinfonie, va menzionata quantomeno la No. 6 – Plutonian Ode, commissionata dalla Brucknerhaus Linz e dalla Carnegie Hall in onore del 65º compleanno di Glass e nata come collaborazione con il poeta Allen Ginsberg, per voce recitante e piano. È proprio nel corso della lavorazione di quest’opera che Glass si sposa con Holly Critchlow, giovane imprenditrice conosciuta quattro anni prima, al termine di un periodo molto duro, seguito alla morte per cancro, a soli 39 anni, della precedente moglie, l’artista Candy Jernigan. In tutto saranno 4 i matrimoni di Glass, così come i suoi figli.
Nel 2004, per Orion, collabora con altri sei artisti internazionali in un progetto legato ai Giochi Olimpici di Atene. Segue il Piano Concerto No. 2 (After Lewis and Clark) con la Omaha Symphony Orchestra. La Sinfonia n. 7 e la Sinfonia n. 8 debuttano nel 2005, che vede anche la prima di Waiting For The Barbarians, opera tratta dall’omonimo romanzo di J.M. Coetzee. Il tributo orchestrale al leader spirituale indiano Sri Ramakrishna, The Passion Of Ramakrishna, viene invece eseguito la prima volta nel 2006 all’Orange County Performing Arts Center di Costa Mesa, in California. Tra il 2007 e il 2008, invece, vedono la luce The Book Of Longing, che rielabora in musica 22 poemi di Leonard Cohen (presentata in Italia nello scenario mozzafiato di Villa Adriana, a Tivoli), e un’opera sulla fine della guerra civile, Appomattox. Nel 2009 debutta a Linz (Austria) con un’opera ispirata alla vita di Giovanni Keplero.

Nella musica occidentale si comincia da una grande unità e la si spartisce come una fetta di pane. Io faccio il contrario.
(Philip Glass)

Ma quel che resta è soprattutto il retaggio di una lezione tra le più influenti della musica contemporanea. Il suo stile, vinte le ultime resistenze della critica, ha impregnato capillarmente intere scene, incluse le più distanti e disparate. Un po’ come accade alle cellule musicali delle sue opere. “La mia ipotesi è che il suono faccia parte della struttura e che l'amplificazione e l'elettronica siano stimoli e proiezioni di tale situazione – spiegherà – Nella musica occidentale, si comincia da una grande unità e la si spartisce come una fetta di pane. Io faccio il contrario. A causa del nostro modo di percepire, tendiamo a sentire la fascia di un suono, l'impatto di un suono, il soffio di un suono, l'altezza di un suono, la profondità di un suono; tendiamo cioè a sentirlo come un tutto unico, mentre di fatto quello che stiamo suonando è tutt'altro; stiamo suonando delle piccole particelle individuali e separate. È una struttura che accade di momento in momento e crea un'esperienza che cambia di continuo. Faccio cambiare la musica mutando quegli elementi che sono unità ripetute, e con il cambiare di tali elementi, cambia l’intero senso ritmico”. Una magia che si rinnova, regolarmente, da mezzo secolo. E se è vero che ascoltando una sequenza progressiva di Glass si possa entrare in trance, non resta che arrendersi ancora una volta al potere immaginifico delle sue partiture.


Dieci opere fondamentali


1+1 (1967)

Philip Glass - 1+1Sebbene Glass abbia motivo di rifuggire la classificazione nell’insieme minimalista, un esordio come 1+1 ne qualifica appieno il carattere essenziale e “matematico”. Un’opera incentrata unicamente sulla struttura ritmica, nella quale un esecutore si confronta con la superficie amplificata di un tavolo, percuotendola con le dita o con le nocche.
Il lavoro espone brillantemente un principio che sarebbe divenuto ricorrente nella produzione di Glass, ossia il processo “additivo/sottrattivo”: una sequenza di note alla quale viene aggiunta e sottratta una nota per volta, creando un effetto di intervalli mutevoli pur mantenendo un andamento costante. Il compositore non pone limiti di tempo e lascia al performer la possibilità di alternare a piacimento due semicrome (sedicesimi) e una croma (ottavo), combinando ritmi e ripetizioni tenendo fede soltanto allo sviluppo aritmetico del brano.
A partire da questa intuizione prenderà forma, due anni dopo, una delle seminali opere per organo elettrico, Music In Similar Motion (1969), presentata nella prima pubblicazione su Lp firmata da Glass a fianco di Music In Fifths (1969) – una sorta di “eresia armonica” basata sul solo utilizzo di quinte parallele, nemesi del contrappunto classico.
L’energia e la spinta propulsiva di queste prime ribellioni all’estetica dominante sembrò fare un torto sia al classicismo che alla sospensione tonale delle avanguardie europee: basata sul linguaggio musicale stesso anziché sulla narrazione per suo tramite, nasceva una musica oggettivante, a-descrittiva, potente e mesmerizzante per natura, che con l’ausilio di un’amplificazione ad alto volume conduceva a una trance collettiva che già rievocava il fruttuoso incontro con Ravi Shankar avvenuto a metà degli anni 60.

Music With Changing Parts (1970)

Philip Glass - Music With Changing PartsCome in altri casi seguenti, l’idea di Music With Changing Parts origina da un episodio legato all’esecuzione di un’opera ad essa preesistente: durante le prove individuali di “Music In Similar Motion”, vicino al termine del brano, Glass avverte un tono vocale nel mezzo delle note d’organo, salvo poi scoprire che si trattava di una suggestione psicoacustica dovuta al riverbero naturale dello spazio in cui stava suonando.
Da questo tono estraneo, puramente “mentale”, sorge l’ispirazione della partitura per ensemble, con una formazione flessibile che nella prima registrazione contava sette elementi a strumentazione variabile tra cui tastiere, strumenti a fiato e, per l’appunto, voci. Con il ritorno a New York e la graduale affermazione presso il pubblico, all’alba degli anni 70 Philip Glass sente l’esigenza di trovare musicisti che assieme a lui si dedichino continuativamente allo studio e all’interpretazione della sua musica: li ritroviamo per la prima volta in quella che fino a poco tempo fa era la sola registrazione in Lp, pubblicata nel 1973 e incisa dal vivo due anni prima presso la Martinson Hall di New York.
Lo spartito accoglie passaggi aleatori entro un ordine strutturato per moduli, i quali vengono cambiati senza interruzioni seguendo di volta in volta il cenno di un musicista-direttore (nel caso specifico, lo stesso Glass); una leggera apertura all’improvvisazione permette ai musicisti di sostituire alcune battute con lunghi toni sostenuti, nonché di interrompere liberamente l’esecuzione per riprendere fiato o far riposare le dita.
Viene così a crearsi un cerchio dai bordi cangianti, che avanzano e recedono continuamente nello spazio acustico e temporale di un’ora: un’immersione che richiama l’effetto inebriante delle prime composizioni, ma in un contesto più ampio, variegato e “stereofonico” che segna la nascita del suono ricco e policromo del Glass maturo, e pur essendo rimasto un caso isolato – per lungo tempo quasi sepolto – nella sua produzione, “Music With Changing Parts” ne è tuttora uno degli esempi più fulgidi. Il brano sarà per Brian Eno fonte d’ispirazione per l’album “No Pussyfooting” in collaborazione con Robert Fripp.

Music In Twelve Parts (1971-1974)

Philip Glass - Music In 12 PartsL’aneddoto attorno alla genesi di quest’opera può a ragione definirsi memorabile: durante il suo soggiorno parigino, Glass fa ascoltare alla compositrice di musica elettronica Eliane Radigue la prima incisione di Music In Twelve Parts (Parts 1 & 2) su Lp singolo (Virgin Music, 1974). “Ti è piaciuto?”, le chiede. “Molto”, risponde lei, “come sono le altre parti?”. Così quello che nasceva come una coppia di movimenti (in origine costituito da dodici linee/parti eseguibili da otto performer) torna a ossessionare il musicista americano, che decide di trasformarlo in un ciclo di brani da presentare di volta in volta con singole première nell’arco di tre anni, offrendo così un’attività continuativa al Philip Glass Ensemble.
A detta dell'autore stesso, una volta giunta al suo compimento l'opera – della durata totale di circa quattro ore – aveva acquisito un carattere enciclopedico, esplorando le varie conformazioni che può assumere il processo additivo applicato a sette strumenti in dialogo serrato: dodici brani/parti distinte, dunque, ognuna delle quali prende le mosse da un pattern e lo elabora nel corso di una ventina di minuti, conciliando in maniera sorprendente lo sfuggente moto ondulatorio delle singole battute con un complessivo effetto di persistenza che è proprio della drone music. L’ampiezza dell’esperimento ha inoltre permesso di approfondire la ricerca sui “toni fantasma” che emergono spontaneamente dal costante intreccio delle linee melodiche, rendendo i brani potenzialmente percepibili in modo diverso da ciascun ascoltatore.
Più che mai quest’ultimo, per fruirne appieno, è costretto a farsi strada in una dimensione anti-narrativa, di natura opposta alle logiche della musica programmatica dal Barocco al modernismo: “Il graduale accrescimento di materiale musicale può e in effetti costituisce la base dell'attenzione di chi ascolta”, e conduce verso una modalità d'ascolto “senza memoria né previsione [...] una pura presenza sonora liberata dalla struttura drammatica”.
Music In Twelve Parts è un lungo inno alla forza generatrice e al sospingersi inarrestabile della materia musicale, una vertigine al contempo gioiosa e risoluta, liberatoria e cerebrale, cui Glass dava facoltà di fruire a momenti alterni, potendo lasciare a piacimento la sala nel corso della performance. Eseguito integralmente per la prima volta nel 1974 alla Town Hall di New York, rappresenta il culmine del processo di integrazione fra melodia, armonia e ritmo perseguito a partire dagli studi sulla musica indiana: una tavola degli elementi che sfiora la meta-musicalità, e una prima immersione nel linguaggio-mondo parallelo che troverà il suo massimo compimento stilistico nell’Einstein.

Einstein On The Beach (1976)

Philip Glass - Einstein On The BeachL'opera di teatro musicale è il simbolo di una tradizione propria del periodo classico, impostata su stilemi espressivi ed espedienti scenici ben riconoscibili. Un mondo "chiuso", a sé stante, che difficilmente è andato incontro a mutamenti radicali – a differenza del teatro di prosa, che già agli albori del XX secolo vedeva minate le sue fondamenta dall'avanguardia futurista. Per effettuare un autentico cambio di rotta si è resa necessaria un'opera che fosse diretta discendente del suo tempo, inventata ancor prima che scritta dai veicoli di quel fervido humus culturale che era la New York degli anni 60 e 70. Il fortuito incontro tra Philip Glass e il regista teatrale Robert Wilson ha visto convergere in Einstein On The Beach due visioni artistiche tra loro imparentate e complementari, innescando una sinergia d'intenti talmente precisi da partorire quella che è forse l'opera teatrale più rivoluzionaria e influente del secondo Novecento.
La figura di Albert Einstein non è che un pre-testo, un collettore di figure, oggetti, immagini e suggestioni offerti alla libera fantasia di Bob Wilson che, di comune accordo con Glass, lavora a una messinscena anti-drammaturgica e fortemente simbolica, sviluppata in quattro atti resi pressoché ininterrotti da brani di collegamento (knee plays, “giunture” musicali). A ciascun attore o ballerino sono richieste doti canore e viceversa, portando di fatto a elidere la distinzione dei ruoli classici e rendendo ogni individuo un puro elemento, un “atomo” dell’inedito legame chimico venuto a crearsi.
Se dunque per Wilson l’Einstein si traduce nel coronamento di un immaginario astratto tra scenari e coreografie iper-stilizzati, ridotti ai minimi termini, a Glass viene offerta l’opportunità di rielaborare la complessa tavolozza di intuizioni confluite nella summa di “Music In Twelve Parts”, forgiando solidi temi principali modulati di volta in volta in una vorticosa alternanza ritmica e cromatica. Il carattere di allegoria contemporanea dell’Einstein ha poi tra i suoi espedienti più efficaci quella che inizialmente fu una misura adottata da Glass per favorire il processo di apprendimento ritmico e melodico del coro: il destino ha voluto, infatti, che le parti cantate rimanessero costituite unicamente da numeri e note solfeggiate, così affrancando ulteriormente la rappresentazione da alcun intento narrativo stringente (o addirittura di significazione).
Fanno eccezione sparuti monologhi e alcuni brevi versi ripetuti ossessivamente, del tutto estemporanei e scollegati tra loro: gli autori sono Christopher Knowles, una sorta di idiot savant letterario che fu scoperto e assistito dallo stesso Bob Wilson; la danzatrice e coreografa designata Lucinda Childs, il cui “Supermarket piece” viene ripetuto per 43 volte consecutive; infine l’afroamericano Samuel M. Johnson, già anziano ai tempi della prima produzione, che scrisse e recitò personalmente il ‘Knee Play’ conclusivo – un dialogo tra due amanti tanto semplice e sincero quanto intriso di autentica poesia.
In tutto ciò, a margine, la figura muta e imparruccata del celebre fisico, caratterizzato come violinista per via degli studi amatoriali intrapresi nell’infanzia; ma l’opera a lui dedicata lo immagina virtuoso, come se lo straordinario potere della mente scientifica fosse stato trasferito per proprietà transitiva nel frenetico linguaggio delle mani.
Nel suo insieme l’esperienza dell’opera dal vivo costituisce un universo parallelo dove il tempo e lo spazio, neanche a dirlo, diventano relativi e ogni cosa ci parla con una simbologia che non offre né necessita di spiegazioni, sotto la spinta di un impianto scenico e di una partitura che soppiantano la percezione del reale e agiscono unicamente nel libero arbitrio della mente.

Koyaanisqatsi (1982)

Philip Glass - KoyaanisqatsiLa storia della musica per il cinema ha un prima e un dopo Koyaanisqatsi. È, di fatto, un’opera che scrive una storia a sé, in grado di sovvertire il ruolo e le regole del commento sonoro in rapporto all’immagine filmica. Un flusso audiovisivo che origina dalla parola hopi del titolo, e da una criptica profezia che solo alla fine verrà a darci piena conferma di ciò che abbiamo visto coi nostri occhi: “Se scaviamo cose preziose dal suolo, inviteremo il disastro”.
Come una tesi straordinariamente argomentata, l’opera del regista Godfrey Reggio riparte dal cinema delle origini, dalla potenza intrinseca alla rappresentazione del reale, per poi alterarla con l’utilizzo virtuosistico del montaggio e del time-lapse. Ma il fattore rivoluzionario e senza precedenti del film risiede nella stretta interdipendenza fra il girato di Reggio e la composizione di Glass: in corso d’opera essi giungono a una simbiosi completa, al punto che il carattere ciclico della musica riesce a condizionare fortemente il processo stesso di editing della pellicola; come nei poemi visivi di Eisenstein con Prokofiev o nell'incanto disneyano di “Fantasia”, suono e immagine procedono di pari passo senza soluzione di continuità, accumulando gli scenari più disparati nella solenne descrizione del graduale ma sempre più sensibile disequilibrio della vita sulla Terra.
Dalla poderosa fanfara di “Cloudscape”, dove le nubi scorrono come un oceano spumeggiante abitato da gigantesche creature marine, si passa al rapido volo d’uccello su deserti, distese d’acqua e caleidoscopici campi fioriti, sino alle cave e agli impianti d’estrazione petrolifera, primo campanello d’allarme dell’azione distruttrice dell’uomo. La demolizione massiva del complesso abitativo di Pruitt-Igoe, nel Missouri, è accompagnata da un'orchestra d'archi funerei, preludio a quella che rimane la sequenza più visionaria e sconvolgente: “The Grid” è la definizione stessa di tour de force (per lo spettatore come per i musicisti), un ipnotico e destabilizzante torrente in piena di stimoli, atto ad aprirci gli occhi sul ritmo innaturale della civiltà metropolitana. Si innesca qui un gioco di assonanze con la prima parte del film: il naturale precipitare di enormi cascate si riflette nell’inarrestabile saliscendi delle scale mobili che trasportano e disperdono nel caos migliaia di individui senza volto, come particelle in un enorme tunnel senza via d'uscita. Glass assiste il montaggio ritmico con precisione, alimentando il climax con una “loop-suite” alienante di fiati, tastiere e cori, potenziando l’incubo distopico di Reggio e contribuendo in modo paritario alla nascita di un momento iconico del cinema contemporaneo.
Anche a distanza di trent’anni (la produzione, avviata nel 1975, ha la sua prima mondiale nel 1982), al di là del messaggio che ne traspare, “Koyaanisqatsi” si impone come un’esperienza cinematografica assoluta e sui generis per la quale, più che colonna sonora, lo score capolavoro di Glass è colonna portante. E così come l’ascolto rievoca puntualmente le immagini più spettacolari della narrazione, parimenti oggi l’immagine accelerata di una metropoli in pieno fermento non può non evocare l’inscalfibile esattezza di quelle progressioni armoniche oscillanti.

Glassworks (CBS, 1982)

Philip Glass- GlassworksGlassworks
è un po’ il paradosso dei glassiani. Condannati a difendere il loro beniamino dagli strali della critica classica più miope e bigotta, si dividono loro stessi sul lavoro più venduto del maestro di Baltimora (200.000 copie), non lesinandogli l’accusa di rappresentare una parentesi commerciale all’interno di una carriera dominata da opere ben più ambiziose e sperimentali. In questo modo non fanno altro che applicare al disco gli stessi, perversi criteri valutativi adottati dai detrattori di Glass. Perché “Glassworks” è, al contrario, la prova del nove del genio del compositore americano, qui chiamato da un fresco contratto con la Cbs a ideare un album maggiormente orientato alla musica popular, con pezzi più corti e accessibili (non a caso, diverrà una pietra angolare per tanto avant-pop a venire, dai Tortoise ai Portishead).
Dopo aver sconfinato nell’iperuranio della dodecafonia e del serialismo con le composizioni più audaci immaginabili, Glass si cala in una dimensione più umana e terrena, mettendo la sua ricerca pionieristica al servizio delle emozioni. Ne scaturiscono sei brani, composti per pianoforte solista e orchestra, per poco più di 39 minuti di musica, in cui le sue tecniche (post)minimaliste si sposano a un’inaudita freschezza melodica. Le cellule musicali di Glass si coagulano e dissolvono ciclicamente, ma senza mai dare un senso di frammentarietà o di artificiosità, perché il suono scorre come un unico flusso, un’onda avvolgente che oscilla da momenti di quiete apparente a brusche impennate nel solco dei tipici “rush” glassiani.
Con l’Ensemble diretto da Michael Riesman (piano, tastiere, organo, fiati, corni, viola e violoncello) Glass cesella sei cristalli purissimi, ispirati dalle miniature di Erik Satie, con arrangiamenti sempre calibrati e rigorosi che scolpiscono nitidamente le melodie.
Composta con terzine di crome, duine di crome e semibrevi in 4/4, la morbida pièce per solo piano “Opening” mira – secondo le stesse intenzioni dell’autore – a creare fin dall’inizio un clima intimo, delicato, con i suoi magnifici arpeggi che inducono dolcemente alla trance, finché, in “Floe”, l’irruzione del corno francese di Sharon Moe e la sarabanda di fiati, doppiati da sintetizzatori quasi cacofonici, tramutano la quiete in orgasmo vertiginoso. Poi è ancora la volta della stasi, increspata dalle sottili filigrane d’archi e dalla melodia di fiati che gira attorno a “Island”, l’episodio più lungo (7.40). È la quiete prima della nuova tempesta di sassofoni e contrappunti di “Rubric”, inizialmente composta per “Koyaanisqatsi” e qui invece funzionale a esprimere l’acme del caos e della creatività, a cui si contrappone la nuova quiete cosmica di “Façades”, con il sax soprano di Jon Gibson a ricamare volute di struggente malinconia. L’epilogo di “Closing” è una ripresa di “Opening”, con terzine e duine di piano che tornano a brillare e un’orchestrazione per archi, fiati e ottoni che occhieggia alla new age.
“Glassworks” è quasi un unicum nella produzione di Glass: non può essere accostato alle sue opere più titaniche semplicemente perché non è una sinfonia, un’opera e neanche una colonna sonora. È puro, semplice e magico fluire di suoni. Ascoltabile da chiunque e in qualsiasi situazione, al punto che ne venne realizzato perfino un mix speciale per walkman. Ma se i giorni dei walkman sono definitivamente tramontati, la bellezza di “Glassworks” è rimasta immutata anche a distanza di quasi quattro decadi. Resterà la confezione più minuta, melodica e aggraziata dell’opera di Glass: sei gioielli sonori racchiusi in un cuore di vetro.

Mishima (1984)

Philip Glass - MishimaUno stile già di per sé cinematico non può che rimanere strettamente legato alle immagini su pellicola: film come The Thin Blue Line (Errol Morris, 1988), Kundun (Martin Scorsese, 1997) The Truman Show (Peter Weir, 1998) e The Hours (Stephen Daldry, 2002) devono la loro riuscita, in diversa misura, anche alle colonne sonore firmate da Glass, capaci di connotarne profondamente l'atmosfera e accentuarne i momenti salienti – in particolare “Truman Sleeps” è diventata un classico del suo genere.
Dovendo però scegliere una soundtrack che rappresenti il contributo del maestro americano al genere – a lato della trilogia di Godfrey Reggio – non potremmo non citare Mishima (1985) di Paul Schrader, anomalo racconto biografico in quattro capitoli dedicato al prolifico romanziere nipponico Yukio Mishima: sperimentando da sempre un profondo conflitto tra arte e parola, nel novembre del 1970 il tormentato scrittore giunge a improvvisarsi rivoluzionario, orchestrando un atto sovversivo volto a denunciare l’occidentalizzazione del potere giapponese e a rivendicare lo spirito nazionale perduto, incarnato dalla figura dell’Imperatore; Mishima commetterà il suicidio rituale (seppuku) subito dopo il discorso pronunciato dal balcone dell’ufficio del generale Mashita.
La narrazione è sviluppata in forma libera attraverso un’efficace giustapposizione di immagini in netto contrasto cromatico tra ambientazioni stilizzate di stampo minimal-espressionista. Come un’ombra lo score interamente strumentale segue passo passo ogni tonalità di questa elegante tavolozza, al solito non attraverso una mera adesione a ciò che le immagini suggeriscono, ma sulla base delle sensazione che Glass ha conservato, dopo una sola visione del girato, e tradotto liberamente dalla memoria dei sensi alla partitura.
Da sempre egli sostiene che la musica abbia l’ultima parola su ciò che lo schermo proietta, ottenendo la facoltà di attribuire al corpus visivo le più diverse connotazioni. I temi principali vengono così modellati a guisa dei diversi contesti e stati d’animo: dall’intimo e garbato romanticismo dei quartetti d’archi (che andranno a formare il Terzo del repertorio glassiano) si passa alle cadenze marziali della rappresaglia, solenni e risolute nel rullo di tamburi militari; nel mezzo trovano spazio anche le classiche progressioni arpeggiate al sintetizzatore e un originale arrangiamento tra surf-rock e lounge, vicino alle atmosfere dark del Badalamenti di “Twin Peaks”.
Come Reggio prima di lui, anche Schrader ha adattato il final cut di alcune sequenze alla colonna sonora, facendo sì che “Mishima” assumesse pienamente quel suo carattere asciutto e moderato, frutto di un sofisticato connubio tra lo stile rigoroso dei maestri del Sol Levante e la visionarietà dell’arthouse occidentale. Senza timore di ingenerosità, possiamo certo accostarlo al breve ma fondamentale sodalizio che ha unito l’eccentrica sintassi neoclassica di Michael Nyman con le ossessioni icastiche di Peter Greenaway.

Metamorphosis (1988)

Philip GlassDopo gli anni delle rivoluzionarie opere teatrali, in un periodo di momentaneo distacco dall’omonimo ensemble, Philip Glass ritrova il contatto con la propria vena solista attraverso il pianoforte, abbracciando un'intimità espressiva diametralmente opposta rispetto all'esuberanza delle suite minimaliste per organo elettrico. Oltre ai singoli brani, in questo caso a divenire di culto è stato l’intero album “Solo Piano”, per via dell’assoluta coerenza di stile e di suggestione emotiva che lo attraversa. Un successo più che mai trasversale, che negli anni seguenti ha trovato un’ampiezza di consenso pari soltanto alle colonne sonore per il cinema. E non a caso: se già le variazioni di tempo nelle scale della suite Mad Rush (1979, prima per data di composizione) suggeriscono realmente l’accelerazione e il rallentamento cardiaco di una corsa disperata, e il celebre Wichita Vortex Sutra (1988, ispirato dall’amico scrittore Allen Ginsberg) ne traspone il moto circolare in un inno luminoso e travolgente, il ciclo Metamorphosis (ultimato nel 1988) costituisce l’essenza di un espressionismo sottilmente tormentato, a metà strada fra narrazione classica e poesia interiore.
Il tema è naturalmente ripreso dal racconto di Franz Kafka, ma le cinque parti derivano da esperienze diverse: il terzo e il quarto movimento vennero commissionati da due diverse compagnie teatrali, che nello stesso periodo lavoravano a una messinscena del capolavoro d’inizio Novecento; le tre sezioni restanti rielaborano temi per ensemble misto scritti precedentemente per “The Thin Blue Line”, documentario di Errol Morris sul caso di un innocente condannato a morte per omicidio. Così quei brani che inizialmente costituivano il solenne commento sonoro a un thriller legale piuttosto distaccato sul versante emotivo, filtrati in un’ottica riduzionista si impregnano di un sapore romantico memore delle ballate di Chopin, atto a descrivere senza eccessi di forma stati d’animo ben delineati e tangibili. Senza sforzo alcuno riusciamo a immaginare la luce del sole che attraversa le persiane, illuminando parzialmente la stanza polverosa nell’umile abitazione di Gregor Samsa, risvegliatosi impotente con le sembianze di un gigantesco insetto.
Evidente contraltare alle figure positive e rivoluzionarie della prima trilogia operistica, la fascinazione di Glass verso il grottesco surrealismo kafkiano risale alle letture adolescenziali e troverà conferma nell’opera da camera tratta dal racconto “Nella colonia penale”, ancor più inquietante per gli echi storici e le questioni morali cui sottende.
Si può affermare senza esagerazioni che, senza questo passaggio fondamentale nella poetica glassiana, la più parte dell'attuale produzione in ambito modern classical non avrebbe lo stesso aspetto, né un apprezzamento così trasversale. Ma benché queste composizioni per pianoforte siano oggi tra le più eseguite del repertorio contemporaneo, nessun pianista – per quanto tecnicamente preparato e fedele allo stile post-minimale – raggiunge l'intensità dell'esecuzione a opera dello stesso Glass, meno “esatta” in termini accademici ma assolutamente travolgente sul piano emotivo.
L’interprete tipico tende infatti ad applicare la propria espressività – marcando secondo il proprio gusto gli accenti e le pause – a un testo che non la richiede, in quanto essa traspare già immancabilmente dalle sublimi geometrie tonali della composizione. Rimane esemplare in tal senso l’approccio del veterano Michael Riesman, da sempre così vicino a Glass da assorbirne completamente l’estetica.

La Belle et la Bête (1994)

Philip Glass - La Belle Et La BeteAlla prima storica trilogia operistica, dedicata al cambiamento sociale attraverso il potere del pensiero (“Einstein On The Beach”, “Satyagraha”, “Akhnaten”), ne segue una nuova negli anni 90, sviluppata in diverse forme attorno all’universo immaginifico di Jean Cocteau, artista poliedrico e maestro del cinema francese a cavallo tra le due guerre.
Il primo testo, Orphée, è stato trasposto in un’opera da camera in due atti, il cui libretto è ricavato dal copione originale del film; Les Enfants Terribles, invece, esprime il carattere tragico del racconto di Cocteau attraverso la danza, con le intense coreografie di Susan Marshall. Nel mezzo troviamo un tributo ulteriormente raffinato e ambizioso alla favola de La Belle et la Bête, documentata per iscritto sin dalla metà del Cinquecento.
È in questa occasione che, per la prima volta, la musica di Glass si “piega” senza compromessi alla struttura di un'opera preesistente: con ammirata devozione nei confronti delle magiche suggestioni offerte dal capolavoro di Cocteau, il compositore ne effettua un ricalco fedele lavorando a un’impegnativa segnatura temporale per ciascuna linea di dialogo, attorno cui viene poi orchestrata la sezione strumentale. Foggiando le parti cantate in maniera speculare ai dialoghi in lingua francese, Glass adotta una forma leggera di sprechgesang che coniuga il solenne canto d’opera classica al teatro contemporaneo, mutuando la veste ancora molto melodica che fu del Debussy di “Pelléas et Melisande”.
Dal lato squisitamente musicale il linguaggio glassiano agisce da complemento a uno scenario di evidente ispirazione gotica, dando preminenza tanto alla brillantezza dei sintetizzatori quanto a una piccola orchestra d’archi (14 elementi tra violini, viole e violoncelli) che suggerisce  la vicinanza all’immaginario di un altro maestro della soundtrack cinematografica, il connazionale Danny Elfman. Alla maniera dei leit-motiv wagneriani, ogni tipo di azione o sentimento espresso sullo schermo corrisponde ad altrettanti temi musicali, poi riassunti da Glass nell’overture destinata ai titoli di testa. Le tinte magiche della tastiera contrappuntano alla perfezione gli ambienti del castello, dalla prima manifestazione davanti agli occhi increduli del padre di Belle all’elegante sequenza a ralenti in cui la giovane fa il suo ingresso salendo di corsa la scalinata.
Il ritmo sostenuto dello score crea un efficace contrasto con l’andamento perlopiù ieratico della pellicola datata al 1946, sottraendola così all’obsolescenza narrativa che è propria del cinema classico. Quasi senza sosta la sonorizzazione riesce a immergerci completamente in un’atmosfera di sogno, più di ogni accuratezza scenografica o dei costumi sui quali, tuttavia, Cocteau non aveva tralasciato nessun dettaglio.
Nel 2015 l’aficionado Michael Riesman firmerà e inciderà su disco una splendida trascrizione per solo pianoforte dell’opera, concentrata esclusivamente sulle scene in cui compaiono i due protagonisti, interpretando così il cuore stesso del romanticismo che pervade il racconto.

Symphony No. 4: "Heroes" (1996)

Philip Glass - Symphony No. 4: HeroesUn sentimento d’amicizia e stima reciproca ha sancito negli anni il legame umano e artistico tra Philip Glass, David Bowie e Brian Eno: questi ultimi scopersero il compositore americano sin dagli esordi e riconobbero in lui lo spirito di ardita innovazione che a loro volta li avrebbe guidati nella realizzazione di quelli che oggi sono considerati album unici e irripetibili nella storia del pop-rock. Uno scambio di ispirazioni, dunque, ma in un certo senso anche una torcia che passa di mano in mano, superando gli stretti confini di genere per scrivere una storia condivisa dell’espressione contemporanea. Il compositore ricorda con ammirazione il Duca Bianco, che a differenza sua aveva sempre preferito la "Heroes Symphony" alla "Low", che segnò l’esordio di Glass nella forma musicale predominante d’epoca classica.
Laddove le avanguardie europee continuavano scientemente a travisare gli elementi fondanti della musica orchestrale sino a strapparla del tutto alla sua identità originaria, l’approccio di Glass si è sempre mantenuto particolarmente austero e rispettoso nei confronti dell’ingombrante tradizione che lo precedeva. Sembra darne conferma il fatto che, rispetto al repertorio da camera, molte meno sinfonie di Glass sono state inserite nei programmi delle rassegne musicali d’oltreoceano: solo il direttore d’orchestra Dennis Russell Davies ne ha subito riconosciuto e affermato il valore, dirigendone fedelmente negli anni le prime assolute e incidendo le registrazioni di riferimento sull’etichetta Orange Mountain dello stesso Glass; e in effetti sarebbe stato proprio Davies, in prima istanza, a spronare il compositore ormai cinquantenne ad affrontare il genere, tanto che le prime quattro sinfonie vennero scritte nell’arco di appena cinque anni (1992-1996).
Va da sé che quella di Glass non è un'operazione di banale “remixaggio” e riarrangiamento della pietra miliare bowiana quanto piuttosto una libera sintesi, originariamente accompagnata da un balletto contemporaneo della coreografa Twyla Tharp, già collaboratrice di Glass dieci anni prima per In The Upper Room. Sei movimenti, ciascuno originato nella cellula melodica di un brano da “Heroes” – compreso un episodio, “Abdulmajid”, scartato dal master finale del disco. Un excursus prettamente classico che spazia dalla più pomposa solennità a un lirismo delicato che oggi, in seguito alla morte prematura di Bowie, risulta ancor più commovente.
La piena autonomia espressiva è riservata ai movimenti derivanti dagli omonimi strumentali: con una gravità riconducibile già nell’album all’incipit della ‘Quinta’ di Beethoven, le quattro note discendenti di “Sense Of Doubt” vengono ripetute come un presagio inquietante, collocandosi idealmente al centro dello sviluppo drammatico della sinfonia. I flebili ottoni si dividono con gli archi l’adattamento di “Sons Of The Silent Age”, che scambia l’epicità dell’originale per una somma grazia che altrove di rado caratterizza il rigore degli ensemble glassiani. Nella “Heroes Symphony” si manifesta un equilibrio di eleganza e di squisitezza melodica il cui afflato romantico è stato accostato a quello di Anton Bruckner, e che probabilmente non avrà pari nelle altre pagine sinfoniche del compositore. Col tempo Glass avrebbe accantonato, ma mai del tutto escluso, la possibilità di completare specularmente la trilogia berlinese di Bowie con un’ultima sinfonia dedicata a “Lodger”.
Poche settimane dopo l’improvvisa scomparsa di Bowie, l’opera è tornata ad avvampare il pubblico in una serata organizzata dal MIT, nel Massachusetts – il cui ricavato è andato a sostegno della ricerca sul cancro – e nel giugno del 2016, in occasione del popolarissimo Glastonbury Festival.

Philip Glass

Discografia

DISCOGRAFIA SELEZIONATA
Music With Changing Parts (Chatham Square, 1971 – Elektra Nonesuch, 1994)
Einstein On The Beach (Tomato, 1978 – Sony Classical, 2012)
Glassworks (CBS, 1982)
Mishima (Nonesuch, 1985)
Satyagraha (CBS, 1985 – Sony Classical, 2003)
Akhnaten (CBS, 1987 – Sony Classical, 2003)
Powaqqatsi (Nonesuch, 1988)
Music In Twelve Parts (Venture, 1988 – Nonesuch, 1996)
Solo Piano (CBS, 1989)
Two Pages/ Contrary Motion/ Music In Fifths/ Music In Similar Motion (Elektra Nonesuch, 1994)
La Belle et la Bête(Nonesuch, 1995)
Kronos Quartet performs Philip Glass (Nonesuch, 1995)
Koyaanisqatsi (Nonesuch, 1998)
The Hours – Music from the Motion Picture (Nonesuch, 2002)
Études For Piano, Vol. I, Nos. 1-10 (Orange Mountain, 2003)
In The Upper Room (Orange Mountain, 2009)
How Now / Strung Out (Orange Mountain, 2014)
The Symphonies (11 Cd, Orange Mountain, 2016)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Philip Glass su OndaRock

Philip Glass sul web

Sito ufficiale
Facebook