Steve Roach

Steve Roach

Il corriere dell'ambient music

Con le sue esplorazioni di infiniti scenari possibili tra cosmogonia e tribalismo primordiale, Steve Roach ha imposto un nuovo standard all'ambient music, in cui l'elettronica non si limita più a fare da sfondo a un ambiente, spaziale o mentale, ma lo descrive, lo anima e lo costituisce. Ripecorriamo nei dettagli il lungo e denso cammino del "corriere" californiano.

di Matteo Meda

Il mondo è pieno di musicisti famosi ma poco influenti, e di altri influenti e famosi; poi ci sono musicisti di nicchia, che pur essendo influentissimi rimangono patrimonio conoscitivo per una cerchia limitata di ascoltatori. Uno di questi è Steve Roach, sintetista statunitense autodidatta che partendo dai punti di arrivo dei corrieri cosmici tedeschi ("le porte del cosmo che stanno lassù in Germania") e soprattutto dalle avanzate teorizzazioni ambientali ed etniche di Brian Eno e Jon Hassell ne ha operato una sintesi estrema, in parallelo con l'altrettanto cruciale opera del connazionale Robert Rich, imponendo una visione nuova della musica elettronica e ambientale, innalzata poi a sistema cognitivo da centinaia di epigoni e come tale perimetrata in uno stile, tanto da dare vita a un vero e proprio standard, destinato a divenire il punto di riferimento della definizione stessa di ambient music.
Trasportare il concetto enoiano della musica applicata allo spazio verso una concezione priva di dimensioni fisiche: questa la sintesi migliore dell'attività di Roach, la cui musica abbandona appunto l'oggetto e l'ambiente terreno (sia esso l'aeroporto o l'humus) per astrarsi verso tutto ciò che è infinito e indefinito. Siano esse dirette verso il cosmo, il vuoto o ambienti nuovi e immaginari, le esplorazioni del californiano riescono sempre a esulare da qualsiasi immaginario limitato, evocando visioni "nuove", inimmaginabili, senza per questo sfociare nel mondo dell'artificiale (caratteristica tipica invece del contemporaneo Robert Rich).

Il periodo "berlinese" (1979-1983)

Steve Roach nasce a La Mesa, in California, nel 1955. La sua passione prima è il motociclismo, a cui tutt'oggi si dedica, tanto da possedere un'invidiabile collezione di motociclette di alta cilindrata (dalla Guzzi alla Harley-Davidson), mentre la passione per la musica sboccia ben più tardi: a vent'anni, infatti, Roach inizia a interessarsi al mondo degli strumenti elettronici, apprendendo da autodidatta come sfruttare le potenzialità del sintetizzatore. Questa tipologia di avvicinamento alla materia musicale sarà determinante per l'approccio sonoro del musicista e per le evoluzioni sonore minimaliste che diverranno suo marchio di fabbrica.

Dopo qualche anno di gavetta, testimoniato da Moebius, suo primo lavoro e omaggio alla metà meno nota dei Cluster, esordisce nel 1982 con Now, un album ancora acerbo e fortemente debitore dell'opera di Klaus Schulze, con aperture tastieristiche e moduli ritmici tipici della scuola di Berlino.
Traveller l'anno successivo non si discosta molto, con brani propulsivi e potenti, ma ancorati a una radice minimalista, dove gli arpeggiatori svolgono un ruolo di primo piano nel disegnare strutture melodiche looppate e ipnotiche.
Le coordinate sonore di questi primi tre lavori si ripresenteranno anche a partire dal successivo album, che segnerà la svolta verso un minimalismo di pura ambient music.

La svolta ambientale (1983-1986)


Il primo, vero grande album in grado di rappresentare il sound di Roach arriva nel 1984. Nelle tre suite di Structures From Silence comincia infatti a prendere corpo una visione più personale della musica: il minimalismo sperimentato con i primi tre lavori viene infatti avvolto da una spessa coltre ambientale, fortemente debitrice dell'opera di Brian Eno ma al contempo contenente un nuovo modo di intendere le innovazioni del non-musicista. Nelle gocce pianistiche circondate da riverberi di "Reflection In Suspension", infatti, Roach produce un vero e proprio trait d'union tra "Music For Airports" e le saturazioni cosmiche dei primi Tangerine Dream, affrontando la commistione in nome di un marcato sviluppo melodico. Il medesimo tema è protagonista di "Quiet Friend", lungo le cui trame si articolano silenzio e forza descrittiva, in grado di raggiungere la prima, grande apoteosi nella mezz'ora scarsa della title track: lungo i saliscendi melodici in riverbero infinito si cela, infatti, una nuova modalità d'intendere l'ambient che diverrà standard negli anni a venire, di cui Roach sarà maestro e primo interprete, trasformando una musica il cui scopo era fare da sfondo a un ambiente, spaziale o mentale, in una vera e propria tela su cui descrivere, animare o addirittura creare l'ambiente stesso.
Structures From Silence è il primo capolavoro di Steve Roach, sottovalutato all'epoca, ma in grado di anticipare quel che sarà il trattato della sua rivoluzione.

Nel 1986, il musicista dà alle stampe i tre capitoli di Quiet Music, collana in edizione limitata e stampata solo su audiocassetta, che verrà resa disponibile solo tredici anni più tardi dalla Fortuna Records, prima della ristampa definitiva a firma Projekt del 2011. Si può definire come il suo "Discreet Music": nelle suite dei volumi 1 e 3, Roach scardina e destruttura le sue sculture sonore, nel tentativo di metterne in risalto il loro lato più "naturale". Il risultato convince solo a tratti, trasportando il suo scenario musicale fuori dalle costruzioni di Structures From Silence e avvicinandolo di molto alla new age acustica.
Quiet Music è una dichiarazione d'intenti, il sigillo delle coordinate sonore di Roach scomposte ai minimi termini, tutto fuorché indicativo di quelli che saranno i suoi prodotti futuri.

Nello stesso anno arriva anche un nuovo album, Empetus. Si tratta di una raccolta di brani risalenti al periodo "minimale" degli esordi e dell'ultimo ritorno alle dinamiche dei sequencer e delle percussioni sintetiche che ripercorrono un amore per i Tangerine Dream. Rispetto ai primissimi lavori, si assiste a una maggior consapevolezza nell'utilizzo del mezzo elettronico, che porta a un'esplorazione profonda del lato "viscerale" (per sua stessa dichiarazione) della musica di Roach. Ne sono i migliori esempi il motorik analogico di "Arrival" e "Conquest", lo spensierato melodismo di "Merge" e l'evocativa e spaziale soundtrack di "Twilight Heat", mentre l'abissale "The Memory" porta alla luce uno dei primi esperimenti nel mondo dell'ambient.
Nel 2008 l'album viene rimasterizzato dalla Projekt con l'aggiunta di due nuovi brani, entrambi di evidente derivazione schultziana: l'infinita e sfinente battaglia analogica di "Harmonia Mundi" e la montagna brillante di "Release".
Empetus è un ultimo manifesto del primissimo Roach, e senz'alcun dubbio il migliore fra gli album "minimalisti". Dopo la temporanea virata, però, il Nostro sarà impegnato nella produzione di due dei capitoli fondamentali della sua carriera.

La rivoluzione della nuova ambient music (1986-1989)

roach.3Il 1987 è segnato esclusivamente da una collaborazione con altri tre protagonisti del rinnovamento ambient: Kevin Braheny, guru della Hearts Of Space, Thom Brennan, contemporaneo scultore sonoro di siderale importanza ma meno noto, e il compianto oboista Richard Burmer. Il risultato è Western Spaces, album dedicato al deserto e piuttosto distante dagli usuali lidi sonori dei quattro. Il ritmo sale in cattedra a dettare legge fra le roventi cesellature di "The Breathing Stone", mentre inquieti lasciti aridi si incrociano nella passeggiata di "Desert Walkabout". E se con "New Moon At Forbidden Mesa" e la lunga "In The Heat Of Venus" si ritorna a navigare nelle placide e usuali acque limpide, la conclusiva title track s'inabissa in sinergie levigate più vicine ai mondi sublunari di Brehany.
Primo passo verso la rivoluzione che giungerà di lì a poco, Western Spaces ci propone una suggestiva sintesi delle atmosfere e degli stili ambientali del nuovo decennio, tirate a lucido da quattro delle menti più geniali della storia del genere.

L'anno seguente si apre di nuovo all'insegna di un sodalizio: The Leaving Time vede i soundscape del californiano interfacciarsi alle funamboliche percussioni di Michael Shrieve, meglio noto per il suo ruolo nei Santana. Ideale contraltare alle trame ambientali di Structures From Silence, è un lavoro incentrato sul ritmo delle percussioni di Shrieve, con Roach impegnato a cesellare languide aperture fra gli imponenti e mastodontici drumming. La tensione si mantiene elevata nella title track d'apertura e nella reprise conclusiva, mentre "Tribes" e "Big Running" sono vere e proprie anticipazione della svolta "tribale" che caratterizzerà gli anni 90. Più pacate, benché non certo rilassate, sono invece "San Diego" e Theme For The Far Away", dove Shrieve si abbandona fra le ipnotiche linee dei sintetizzatori, dettando loro il tempo con una precisione certosina.
The Leaving Time è un'anticipazione del lato "ritmico" che si ripresenterà di lì a poco nel capolavoro di Roach, nonché un'occasione per ascoltare insieme due musicisti distanti quanto fondamentali nei rispettivi ambiti.

È infatti nello stesso anno che Roach raggiunge uno dei vertici della sua carriera con Dreamtime Return, album seminale per lo sviluppo dell'ambient moderna e trattato indissolubile che verrà seguito alla lettera da almeno tre generazioni ad esso successive. Roach si ispira alla vita e alla spiritualità degli aborigeni australiani, ed è appunto questo l'elemento che costituisce il focus dell'intero lavoro. Diviso in due dischi, l'album coniuga gran parte delle anime che saranno caratteristiche della sua produzione: quella etnico-tribale - che sfocerà poi nella svolta hypno-trance - nel primo album e quella prettamente ambient-cosmica nel secondo. La "nuova-ambient" è lontanissima dal "non musicista" e dalla "non musica" di Brian Eno: Roach si pone in una rivoluzione copernicana del concetto stesso di musica ambient, in cui essa non è più musica come sfondo amorfo o come tabula bianca, bensì come catarsi di uno psicodramma personale.
Nel primo disco, l'uno-due di partenza di "Toward The Dreams" e "The Continent" introduce sin da subito l'elemento ritmico, ripiegando contemporaneamente su sostrati melodici di straordinario effetto, mentre nelle silenziose pulsazioni di "Songline" e "Atribe Meets The Dream Ghosts" si nascondono quegli stessi ammiccamenti minimalisti che avevano caratterizzato la prima fase della sua carriera, rielaborati però all'insegna di un ethno-ambient vicina alla contemporanea proposta di Forrest Fang, che pure tantissimo dovrà a quest'album. L'astrattismo deciso pervade invece i romantici intrecci d'archi di "The Other Side", fra i capolavori della sua produzione tutta, e la visionaria messa di "A Circular Ceremony", lasciandosi invece abbandonare all'atmosfera pura nel trittico di chiusura di "Magnificent Gallery"-"Truth In Passing" e, soprattutto, "Australian Dawn - The Quiet Earth Cries Inside".
La seconda metà è invece interamente votata alla reprise dell'ambient cosmica che aveva reso grande Structures From Silence e che sarà - assieme a quella derivante dall'anima ritmica - la base di partenza di buona parte della produzione successiva di Roach, fra ammiccamenti nella new age più elegante e sopraffina ("Through A Strong Eye"), inchini al miglior Harold Budd ("Truth In Passing") e lasciti a una desolazione (la conclusiva "The Return").
Dreamtime Return non è solo il capolavoro di Steve Roach, ma anche e soprattutto la chiave di volta dell'ambient a venire: chiunque abbia intrapreso la strada del genere dopo il 1987 deve infatti buona parte della propria ispirazione a quest'album. Dalla scena californiana di Stearns e Brennan alle recenti derive elettro-acustiche, passando pure per gli alfieri della moderna ambient nostalgica (Max Corbacho e Craig Padilla su tutti), non c'è artista o opera che non porti nel suo Dna una molecola originatasi in quest'album. Capace di riprodurre, con mezzi compositivamente evoluti, il senso primordiale del suono e della sensazione - che vive e prende significato in sé solo nell'interazione con l'ascoltatore in un tempo e in uno spazio - Dreamtime Return è opera pregna di raffinatezze e microstrutturazioni, minimale nel suo strabordare e ricca di innovazioni nella sua semplicità.

A pochi mesi di distanza, Roach corona la sua rivoluzione raccogliendo nell'epocale Stormwarning due lunghe performance, che fungono da sorta di riassunto del primo decennio di attività. Nelle trame delle due lunghe suite, il multistrumentista si alterna fra synth, percussioni e strumenti tradizionali, miscelando tutti gli stili attraversati nella prima parte della sua carriera. Il "Day One", datato 1985, fonde con naturale simbiosi le tessiture di Structures From Silence ai sequencer di Empetus, in venti minuti di puro archivio storico.
Ma è con la mezz'ora del "Day Two" che la dimensione live tira a lucido il Roach di Dreamtime Return: fra vibranti sezioni di percussioni, catartiche trame dal sentore epico e discese nell'ambient più viscerale, l'artista ripercorre le innovazioni del suo capolavoro proponendole a un pubblico raccolto in religioso silenzio.
Nel remastered del 1999 ad opera della Timeroom, si aggiunge alla tracklist anche una terza suite, "Day Three", risalente al 1991 e ancorata invece alle atmosfere placide e oniriche del Roach ambientale, spezzate da qualche intermezzo di pura matrice cosmica. L'edizione definitiva arriverà invece nel 2012, ad opera della Projekt.
Le performance di Stormwarning rivelano la forza della musica del californiano, in grado di strappare il filo che legava indissolubilmente l'ambient allo studio di registrazione in Eno e Budd, in favore di una concezione che mantiene i tratti somatici di quelle origini, ma amplifica le potenzialità di una musica finalmente in grado di essere riprodotta e di adattarsi a qualsiasi ambiente.

E proprio la multimedialità della musica sarà linguaggio fondamentale nelle profusioni sonore di Roach, impegnato anche nel fornire le proprie composizioni come fondali per opere visive: ne sono esempio "Earth Dreaming" e "Space Dreaming", due cortometraggi a cura del regista Georgianne Cowan e interpretazioni visive rispettivamente di Dreamtime Return e Structures From Silence. Gli strumenti offerti dal nuovo millennio consentiranno al californiano di riprendere in mano il discorso attraverso la serie delle Immersions, vere e proprie sculture video-sonore che sanciranno il suo approdo presso la Projekt di Sam Rosenthal.

Le collaborazioni e la contaminazione etnica (1989-1992)


Lo scossone assestato all'ambient da Dreamtime Return provocherà in Roach una vera e propria fibrillazione creativa, che lo porterà a produrre in media tre-quattro album all'anno fra progetti solisti e collaborazioni, molti dei quali capaci di riaffermare il suo nome con prepotenza e mantenerlo perennemente sulla cresta dell'onda. Prima di questo exploit c'è però ancora spazio per alcune opere fondamentali, che porteranno lo stile del californiano a evolversi e trasporsi, fino allo sbarco verso lidi ritmici e ipnotici, che segnerà una vera e propria "divisione" della sua produzione.

Il 1989 prosegue con due importantissime collaborazioni, che lo vedono spartire la scena con i quattro più importanti suoi contemporanei in ambito ambient. La prima presenta il terzetto da sogno delle menti californiane: assieme a Roach ci sono infatti Michael Stearns e Kevin Braheny, e il risultato si concretizza in Desert Solitaire, sorta di sequel di Western Spaces sul tema del deserto. Gli episodi composti dal solo Roach sono diretti discendenti di Dreamtime Return: "Flatlands" ne riprende le percussioni eteree, mentre "Specter" le visioni paradisiache. Stearns propone invece le classiche celestiali architetture del suo lato più visionario: "From The Heart Of The Darkness" e "Shiprock" lo fanno nel silenzio e nei sussurri degli strumenti acustici, memori di "Lycia", mentre "Labyrinth" si abbandona nelle costellazioni sonore già esplorate in "M'Ocean" e "Floating Whispers".
Più ammalianti sono le fronde etniche di Braheny in "Knowledge And Dust" ed "Empty Time", mentre le vette dell'intero lavoro sono senza dubbio "The Canyon's Embrace" e "Cloud Of Promise", sinfonie catartiche e prive di coordinate spazio temporali, dove l'ambient si lancia sempre più nei sentieri della solitudine e dell'eterea desolazione, abbandonando il suo carattere "materiale". Effetto medesimo si ha in "Highnoon", dal sentore più "cosmico", e nella title track conclusiva a firma Roach-Braheny, ideale congedo dal deserto lungo una quieta e misteriosa notte.
Desert Solitaire funge da vero e proprio scambio di velleità fra tre nomi d'eccellenza della musica ambient: districandosi a turno fra le caratteristiche stilistiche dei tre, fondendole e amalgamandole, è prodotto riuscitissimo e fondamentale per il prosieguo delle rispettive carriere.

Quasi contemporaneamente, arriva anche il primo duetto a quattro mani con il pioniere del minimalismo ambientale Robert Rich, in quello che sarà il primo dei due parti della coppia.
Strata è un vero e proprio caleidoscopio, in grado di svariare tra ipnotiche sculture, mantra etnici e sussurrati onirismi ambientali, e segna anche il primo sodalizio con la Hearts Of Space, label americana che diverrà vero e proprio punto di riferimento per la scena ambient americana. Della prima categoria fanno parte la mastodontica ouverture di "Fearless" e le tribali "Mica" e "Iguana", veri e propri outtake del lato ritmico di Dreamtime Return. I tappeti dronici di "Magma" e "Remembrace" si caratterizzano invece per atmosfere cupe e sinistre, in previsione di uno stile che Roach coronerà nel nuovo millennio, mentre i cesellati sample di Rich prendono il sopravvento nella pura new age di "The Grotto Of Time Lost" e nei dolci field recordings di "Ceremony Of Shadows", inanellandosi e mischiandosi ai soundscape di Roach nell'omaggio a Salvador Dalì di "Persistence Of Memory".
A completare il quadro, le docili pennellate quasi acustiche dell'aggraziata "Forever" e della meditativa "Remembrace", prima che nel congedo della paradisiaca "La Luna" i sintetizzatori si distendano placidi, scorrendo con gracilità fino al termine delle danze.
Sorta di punto d'incontro tra la new age, la fourth world music di Jon Hassell e i primordiali tentativi di world music dei Jade Warriors, Strata risulta uno dei migliori dischi ambient del periodo, intelligibile e lontano da ipotesi isolazionistiche, profondo e sereno.

Dopo un viaggio in terra oceanica che lo tiene impegnato per tutto il 1991, e che ispira l'infelice parentesi di Australia: Sounds Of The Heart - collezione di asettici e spigolosi frammenti per digeridoo concepita al fianco della musicologa e ricercatrice Sarah Hopkins e del re mida dello strumento David Hudson - Roach sforna nel 1992 un nuovo, importante capitolo della sua saga ambientale. World's Edge è un naturale continuum di Dreamtime Return, da cui eredita anche il formato di doppio cd, e il capostipite delle produzioni ambientali di Roach, che verranno da questo momento in poi alternate a lavori di matrice tribale, cosmica e a una nuova forma di ambient-trance.
La prima metà dell'album raccoglie dieci gemme in potenza fra di loro: negli iniziali dieci minuti della title track la devozione a Kevin Braheny e alle sue dilatate architetture è smossa da siluri cosmico-concreti e da ritmiche insusualmente ipnotiche, premonitrici proprio della svolta trance di fine millennio. Il discorso è ripreso all'insegna di etnici tribalismi in "The Call" e "Thunderground", e di tecnologiche vertigini in "Steel And Bone", mentre flussi soffici avvolgono e compongono i restanti brani, spaziando da mood obliqui e tesi ("Undershadow", "When Souls Roam") a oniriche preghiere sublunari ("Glimpse" e i capolavori "Falling, Flying, Dreaming" e "Drift").
"Beat Of Desire" è invece anticipazione dell'immersione nel puro cosmo del secondo disco, interamente occupato dall'ora scarsa di "To The Threshold Of Silence", opera estremamente minimale che ripercorre in maniera meno dura e drammatica l'insegnamento dei Tangerine Dream di "Zeit". Si tratta di un pezzo subliminale, in cui si respira una sensazione vaga di dramma incombente, con il succedersi degli accordi che sembra ripetere un ciclo, per poi scoprirsi lentamente lontanissimi dal punto di partenza, in una spirale creativa che irretisce e conquista.
World's Edge prosegue all'insegna dell'eccellenza il cammino di Roach, dilatando e sviluppando ulteriormente le innovazioni già proposte in precedenza e sfoderando uno dei migliori esempi di fusione tra ambient e musica cosmica. Il musicista riproporrà questa ricerca in molti lavori successivi, riuscendo in buona parte delle occasioni a raggiungere un livello altrettanto elevato, nonostante un'esigua minoranza di prove sottotono, causata con tutta probabilità dall'euforia produttiva che lo contagerà a partire da fine millennio.

Nello stesso anno la collaborazione con Rich si rinnova grazie a quello che sarà, ad oggi, l'ultimo disco firmato dai due. Soma è album introverso e psichedelico, immerso in ambienti elettro-etnici ricchi di pulsioni percussive e di oscillazioni sotterranee che fanno da preludio ad alcune delle opere seguenti. Il tratto somatico principale è l'accentuazione del lato tribale, che troverà il suo fulcro nel progetto Suspended Memories. Ciò nonostante, l'incantesimo di Strata non riesce a ripetersi: il contributo di Roach si fa marcato negli episodi migliori, come nella tiepida apertura new age della conclusiva "Touch" e nella costruzione stratificata dell'atonale "Seduction Of The Minotaur", mentre il Rich dronico partorisce la title track e "Silk Ridge", ottimi fondali sonori privi però della carica necessaria per svettare.
La gran parte del disco s'inabissa fra percussioni e battiti marziani strumentalmente ineccepibili, ma incapaci di colpire: l'iniziale "Love Magick" e "Going Ingland" ci provano concendendosi alla pura world music, con il risultato di apparire come puri esercizi di stile, mentre "Nightshade" e "Blood Music" vorrebbero incantare e ipnotizzare, anche qui senza riuscirci.
Dalla finta tensione di Soma emerge ancora una volta la grandissima capacità tecnica dei due, che non si accompagna però ad alcuna forma di emozione, e l'album, benché non considerabile come un vero passo falso, è senza dubbio il parto meno riuscito dai tempi di Structures From Silence.

Tribali e percussioni: la nuova frontiera e la crisi ispirativa (1993-1995)

roachNegli anni seguenti, Roach decide di abbandonare temporaneamente l'ambient per concentrarsi sulla ricerca etnico-tribale e sulla costruzione di nuovi strumenti musicali: nonostante l'esigua durata temporale di questa "svolta", gli album coinvolti saranno numerosi e nella gran parte di questi il californiano non riuscirà a raggiungere i picchi artistici toccati con la sua ricerca ambientale.

Il vero crocevia verso questa virata è la partecipazione del californiano al side-project Solitaire, che lo vede condividere la vena compositiva con Elmar Schulte - sorta di sciamano delle percussioni, influenzato dalle estreme lezioni dello zombie Zero Kama. È il 1993 e il risultato è Ritual Ground, uno spento e sfiancato collage di percussioni etniche e flussi elettronici, incapaci di fondersi e compensarsi come in passato, a causa soprattutto dell'onnipresenza delle prime. Prova pregna di manierismo, ben distante dai risultati ottenuti con Shrieve qualche anno prima, l'album è l'anticamera al tracollo che seguirà in molti dei suoi lavori "tribali".
Nello stesso anno, Roach decide di mettere mano al suo archivio, pubblicando il primo capitolo di quella che diverrà una vera e propria serie. The Lost Pieces raccoglie dieci outtake prodotti nella decade 80 per compilation e opere visive, attraversando quasi tutti gli stili caratterizzanti le prime fasi del suo percorso. Le melodie ritmiche di "After The Dream" e "Since We Are Away" e le aperture paradisiache di "Eclipse" e "Mojave" pescano direttamente dalle lande docili di Quiet Music e dai castelli ritmici di Dreamtime Return, mentre le riflessive contemplazioni di "Red Shore", "Repose" e "Closer" sono parenti di Structures From Silence e World's Edge. A guardare verso le esplorazioni più recenti sono invece le cupe "Full Moon Prophecy" e "Three Repties Wait At The Opening To The Underworld", memori di Desert Solitaire e Strata e non distanti da Stearns e Rich.
The Lost Pieces è una scatola di frammenti e appunti tralasciati nello sviluppo ambientale di Roach, in gran parte all'altezza delle sue prove migliori, che da il "la" a una pratica che verrà riproposta con puntualità negli anni successivi.

Un'unica, isolata eccezione è sancita invece dalla fondazione del supergruppo dei Suspended Memories, formato assieme ad altri due nomi di rilievo: Jorge Reyes, "discepolo" messicano dell'opera etno-ambientale di Roach, e Suso Saiz, pioniere di una new age mistica e contorta.
Il primo risultato dell'opus è Forgotten Gods, già edito un anno prima nel solo Messico grazie alla piccola Grabaciones Lejos Del Paraiso e distribuito oltreoceano di nuovo dalla Hearts Of Space. L'album, forte di una perfetta interazione fra i tre, funge sostanzialmente da cartina di tornasole dei sentieri solcati nelle rispettive carriere: riecco, ancora una volta, il Roach tribal-etereo in "Different Deserts", quello claustrofobico in "Suspended Memories, Forgotten Gods" e quello dronico di richiana memoria in "Night Devotion".
Reyes è forse il meno presente - tanto da fuoriuscire con prepotenza solo nell'etnico-sacrale di "Snake Song" e nella placida sinuosi di "Saguaro" - mentre Saiz e le sue trame oblique si issano a dominatori nelle roventi distese di "Mutual Tribes", nei rumori industriali di "Ritual Noise" e nell'inquietante apertura della conclusiva, desertica "Shaman's Dream".
Forgotten Gods è un lavoro che ricicla dai trascorsi dei tre senza mai però appoggiarvisi del tutto e che mescola con perizia passato e sperimentazione. Grazie soprattutto alle spigolose e mai scontate pennellate di Saiz, il disco risulta anche essere uno dei meno accessibili e più "avanguardisti" mai composti da Roach, benché si tratti di una parentesi solitaria prima di una serie di album sottotono.

Questi prendono forma a breve distanza l'uno dall'altro, con i nomi di Origins e Artifacts, accomunati nel sound quanto nell'artwork. Il primo, sempre nel 1993, si compone di sette autentici macigni, con Roach che si traveste da sciamano proseguendo il discorso iniziato con Australia pochi anni prima, mentre il secondo - uscito un anno dopo - è una sua evoluzione all'insegna degli strumenti etnici (digeridoo in primis) e di un autentico voltafaccia alle sonorità dei capolavori ambient. Il parto gemellare di elementi tribali e percussioni mette di fronte a un lato della musica di Roach privo di pathos e ispirazione, che proseguirà anche nell'illusorio ritorno al fianco di Michael Stearns per l'album Kiva, sorta di ricerca sulla musica tradizionale degli indiani d'America e pericolosamente vicino alle trame più scontate della new age etnica.

Il Roach di questi lavori dista anni luce dall'architetto che aveva segnato con maestria l'intera scena ambientale degli anni 80, e perde progressivamente i tratti somatici che avevano reso la sua musica al tempo stesso evocativa e rivoluzionaria. Ma quella "tribale" sarà una parentesi destinata a sfociare in una nuova, successiva, frontiera, che porterà il musicista - in parallelo a uscite più vicine al suo sound "classico" - a fondere la sua ambient music e i suoi esercizi percussivi con le trame vibranti della trance music, riuscendo così a personalizzare nuovamente il suo stile e a ritornare nell'olimpo che aveva temporaneamente abbandonato.

Il sodalizio con Dirk Serries e l'ambient cosmica (1995-1999)

La seconda metà degli anni 90 sarà segnata per il californiano da un ritorno alle origini ambientali, che gli permetterà di riprendere in mano i fasti della sua carriera, e dall'incontro con Dirk Serries, alias vidnaObmana, contemporaneo esponente belga della scena ambientale dal curriculum estremamente variopinto. Al suo fianco e in solitaria, Roach partorirà alcuni fra i capitoli più suggestivi della sua carriera, consacrandosi definitivamente come uno dei più grandi musicisti ambient di sempre e sperimentando con successo - dopo quella tribale - una nuova forma di interazione di linguaggi, questa volta fra la sua musica e le memorie dei corrieri cosmici tedeschi.

Il primo di questi - la cui first press risale al 1994 in tiratura limitata a 1000 copie, prima della definitiva ri-edizione ad opera Timeroom, marchio che Roach stesso fonderà pochi anni dopo - si intitola The Dream Circle e vede Roach recuperare un linguaggio più canonicamente elettro-ambientale e raggiungere il massimo della perfezione formale: nella suite di un'ora e un quarto che compone interamente il disco, si viene a creare una massa in lentissimo e costante mutamento, con subunità sonore che si intersecano in un processo virtualmente infinito. Si tratta anche del primo lavoro a vantare la struttura della traccia unica in sostituzione ai brani, metodo compositivo che il musicista riproporrà successivamente in gran parte dei suoi dischi più "nostalgici" e vicini ai canoni dell'ambient pura. La musica di Roach non è mai stata più astratta, evanescente eppure così quietamente drammatica e dialettica nel raccontare una storia senza parole, un universo senza corpo eppure reale, un mondo di ombre, anemico e metaforico.
The Dream Circle segna contemporamente il rientro di Roach nei lidi a lui più affini, la sua resurrezione e il preambolo verso i due, grandissimi episodi che gli faranno seguito. Primo, vero concept-album del californiano, si porrà come vero iniziatore di una saga destinata a proseguire con prolificità nel marasma produttivo del nuovo millennio.

Il 1995 segna l'incontro e l'inizio del sodalizio con il già citato Dirk Serries, musicista belga dai trascorsi multiformi e variegati da poco accasatosi presso la Projekt di Sam Rosenthal, ovvero la label più importante dell'intera scena dark-gothic americana: figlio illegittimo dell'industrial dei Coil, ha spaziato da un dark-ambient debitore di Lustmord a una mescola più luminosa di droni e atmosfera, fino alla deriva ritual-ambientale ispirata in buona parte da Dreamtime Return. E proprio questa collaborazione introdurrà Roach alla corte della Projekt, per quello che sarà un rapporto importantissimo per la storia di entrambi.

Il primo parto dei due in coppia, che da il La a un percorso artistico destinato a perdurare con prolificità fino ad oggi, si intitola Well Of Souls ed è uno dei vertici della musica ambientale. Impossibile - a differenza di quanto accaduto prima nelle collaborazioni fra Roach e i suoi contemporanei - assegnare a uno dei due una paternità predominante nel disco o nei singoli episodi: Roach e Serries non si limitano a dialogare e scambiarsi velleità, ma le intrecciano a fondo, riuscendo a creare un suono personale e seducente mediante una varietà sconfinata di sfumature.
Il disco è un monumentale doppio album (benché la tracklist si componga di "soli" otto brani), composto per metà da suite della durata di mezz'ora ciascuna, e per l'altra da lunghe digressioni ferme intorno ai dieci minuti. E se in queste ultime i due paiono quasi "limitare" la loro ispirazione, concentrandola nel segno della contaminazione terrena (l'iniziale "In The Presence Of Something"), piuttosto che della purezza (lo sciame di droni paradisiaci "The Quiet Companion", la placida meditazione di "The Dwelling Place"), il significato vero e più profondo del disco è ancorato proprio negli sconfinati viaggi dei brani più lunghi. Così le due metà di "Outlands" aprono le porte all'insegna di un rituale dapprima cosmico ("In The Realm Of Twilight") e poi amorfo ("The Secret Arrival"), preparando il terreno verso il trittico successivo: "The Gathering", che chiude il primo disco, è un rovente pastiche sublunare di gelide pulsazioni e roventi masse sonore, mentre "Deep Hours" vola verso l'apocalisse del vuoto sconfinato e la title track, prima candidata al titolo di capolavoro nel capolavoro, si arena sulle lande di una rassegnazione desertica e obliqua, quasi angosciante.
Well Of Souls apre il progetto in tandem di Roach e Serries all'insegna dell'eccellenza, ponendosi come uno dei dischi più complessi e magniloquenti della discografia dei due, e come uno dei lavori meno accessibili e più pregni di creatività dell'intero movimento. Fortemente debitore dei corrieri tedeschi e portatore di una fusione fra la suddetta corrente e l'ambient music cristallina di Structures From Silence, è anche - assieme ai successivi parti del Roach solista - coronamento del nuovo percorso del californiano, dedito proprio alla teorizzazione della più naturale fra le simbiosi: quella fra l'ambiente e il cosmo, e fra le due rispettive correnti musicali.

roach5A distanza di pochi mesi, la carriera del californiano si arricchisce di un altro, entusiasmante capitolo. Rientrato a casa Hearts Of Space, Roach pubblica quello che è senza dubbio il manifesto più puro della sua musica: The Magnificent Void.
Se Dreamtime Return era il trattato di tutte le sfaccettature della nuova ambient music, questo nuovo lavoro è invece un surrogato per sottrazione, in cui il californiano riprende una dimensione prettamente cosmica e aritmica, ripulendo la sua musica da ogni orpello di contaminazione. Il disco gode di un fenomenale rigore stilistico che si traduce in una grande suggestione, che lo rende non solo uno dei più paradigmatici di tutta la sua discografia, ma anche uno dei più completi ed evocativi della sua poetica subliminale. Così il subdolo e ritirato minimalismo dell'iniziale "Between The Grey And The Purple" funge da approccio silenzioso alla materia, sviluppata poi nel labirinto stratificato di "Infinite Shore" e nella catarsi universale di "Cloud Of Knowing".
Le distese sintetiche di questi episodi sono rette dai rigidi e compatti pilastri sonori dei tre temi portanti, ovvero l'ovattata e ciclica "Void Memory One", la rarefatta e dronica "Void Memory Two" e la lussureggiante e visionaria "Void Memory Tree", prima che l'intera costruzione si abbandoni al caldo abbraccio del capolavoro "Altus", venti minuti di traversata interuniversale in cui il rifrangersi delle onde sonore, in continua alternanza di crescendo e decrescendo, tende a suscitare una tendenza all'alienazione e alla totale immersione nell'ambiente sonoro.
The Magnificent Void è l'autentico documento finale della ricerca di Roach sulla musica ambient, un trattato più importante per il suo status di sunto di un'intera generazione che per le innovazioni e le novità proposte. Recuperando la semplicità atmosferica di Structures From Silence e le passeggiate nel cosmo della coppia Braheny-Clark, l'album si rivela uno dei vertici della produzione del musicista, al pari di Well Of Souls e secondo soltanto a Dreamtime Return.

Nel 1996, Roach partecipa su richiesta della Hearts Of Space all'album Halcyon Days, sorta di ritorno alla contaminazione etnica precedentemente affrontata. Ma il disco risulta ben distante dagli epitaffi tribali di metà anni 90 e pare piuttosto evolvere la formula (anch'essa per nulla riuscita) sperimentata in precedenza con Australia: Sounds Of The Earth. Il californiano è accompagnato da Stephen Kent - un altro noto suonatore di digeridoo - e dalla canadese Kenneth Newby, una delle prime artiste a cavalcare l'onda del multimediale. Da intendersi principalmente come un progetto di quest'ultima, l'album si rifà in toto alla rivoluzione world di Peter Gabriel e del suo "Passion", ponendosi però al contempo come sintesi tra la corporeità spirituale di percussioni e strumenti tradizionali e la spazialità dei sintetizzatori. Il risultato non incide né eccelle, regalando comunque un ascolto estremamente complesso e senz'alcun dubbio migliore di quello proposto nelle simili esperienze del passato.

Di importanza decisamente maggiore è invece il secondo parto al fianco di Serries, vera e propria predizione riguardo le trame che Roach intraprenderà nel nuovo millennio. Composto nuovamente da suite della durata di quindici-venti minuti, Cavern Of Sirens introduce gradualmente gli elementi che il californiano svilupperà di lì a poco. L'album è un vero e proprio bignami, dove i due ripescano e rivisitano i rispettivi trascorsi (quello tribale per Roach e quello psico-industriale per Serries): prove tangibili sono rappresentate dall'ipnosi percussiva di "Hidden Earth And The Shadows Dance" e dalla gelida e avvinghiante ouverture di "Ascension For Protection", dove le velleità dei due vengono riproposte all'insegna di una cura e di un'ispirazione decisamente maggiori rispetto al passato.
A guardare al futuro ci pensano invece gli episodi migliori: "The Current Below" recupera la formula dell'etno-atmosferico lambendo di nuovo le lande della new age (questa volta, però, raffinata e lussureggiante), mentre l'odissea di "Middle World Passage" scorre liscia e fluttuante, velocizzando i tempi, caricando di tensione emotiva le linee melodiche e ponendosi come capostipite dell'ambient-trance. La nostalgica conclusione di "The Graceful Sky" viaggia invece in retrospezione, saturando l'ambiente di malinconiche e sibilline melodie cicliche, all'insegna della quiete e della profonda purezza.
Cavern Of Sirens ripropone in una salsa "nuova" un duo che pare intendersi alla perfezione, regalando un prodotto di qualità nuovamente sopraffina, uno squarcio proiettato verso le esplorazioni che Roach (ma anche lo stesso Serries) proporranno negli anni a venire. Nel silenzio e all'oscuro di molti, l'ambient-trance ha visto la luce.

Un anno più tardi, il californiano ripropone dal vivo un'esperienza dal sound similare a The Magnificent Void, intesa come una sorta di viaggio in un pianeta lontano e deserto, coronando così anche nel concept la sua visione cosmica della musica ambient. La performance, fra le più belle e coinvolgenti mai proposte dallo stesso, è documentata dall'album On This Planet, un vero e proprio diario di bordo musicale dell'astronauta-esploratore Roach, che contiene - fra le altre - alcune "scoperte" che saranno riprese in album successivi.
Il racconto inizia da "Heart Of The Tempest", dove il vento fragoroso dell'atmosfera del "nuovo" pianeta accoglie in un vuoto selvaggio, prima che le percussioni già di stampo marcatamente trance ci conducano sul suo suolo: "Journey Of One" è così il primo parto ufficiale del Roach che sarà, tanto che proprio da esso deriverà l'omonimo live-capolavoro del 2011. "The Nexus Place", all'insegna di un etnico alieno e raggelante, ci narra dei costumi e delle abitudini della popolazione scoperta, mentre "Void Memory 4" vede il "terrestre" rivelare dettagli sul suo pianeta, rielaborando le tre parti dell'omonima composizione di The Magnificent Void.
Si passa poi a una dettagliata trattazione dell'ambiente circostante: a descrivercelo ci pensano la quiete statica di "Cloud Watching The Toolmaker" e i dieci minuti di pura, agghiacciante trancedelia di "Remember It Now". "The Ecstasy Of Travel" ripercorre invece i travagli pratici ed emotivi del viaggio interstellare, prima del congedo, rappresentato dai respiri fagocitati di "A Darkest Star" e dalla conclusiva catarsi dello splendido quarto d'ora della title track: il viaggio è terminato, è tempo di nostalgia e di ricordi, cullati da romantici droni e languide linee di sintetizzatori che si accavallano, completandosi in un ciclo indelebile quanto il ricordo della traversata.
On This Planet traspone a livello di immagine quello che è stato il viaggio di Roach negli ultimi, fantastici anni e riconferma - se mai ce ne fosse stato bisogno - la sua grandissima capacità di esecutore. È l'ipotetica chiusura di un ciclo, e contemporaneamente una prima, concreta introduzione al mondo dell'ambient-trance, il cui vero manifesto sarà, due anni più tardi, il bellissimo Light Fantastic.

Il 1998 vedrà Roach fondare una sua etichetta distributrice, la Timeroom, e produrre due album: lo spento e statico Slow Heat, prima riproposizione della struttura a traccia unica già sperimentata in The Dream Circle le cui tessiture ambientali non riescono però nell'intento di emozionare, e il sorprendente Dust To Dust, in collaborazione con il chitarrista e bassista Roger King, che rimarrà esperimento unico nella sua carriera. Il disco, infatti, unisce in modo inedito certe pulsioni rock di frontiera con le digressioni elettro-ambientali tipiche del californiano: il basso, la chitarra e l'armonica a bocca, suonata dallo stesso Roach, creano un tessuto armonico dilatato e reso straniante dal tappeto ambientale. Siamo in pieno "desert sound", ma alienato da un gioco di specchi deformanti, in grado di creare uno spettro stilistico coinvolgente, orignale e tutto fuorché scontato. L'album è una riprova della poliedricità artistica del californiano, capace di adattare i suoi soundscape anche a mondi musicalmente lontanissimi dal suo, benché risulti, nel complesso, lontano dalla visionaria poetica delle sue opere migliori.

Il Roach di questi anni è sperimentatore sonoro, innovatore e protagonista indiscusso dell'intera scena ambientale, capace di mantenere in quasi tutte le sue produzioni un livello altissimo e di confermare il suo status di capostipite dell'intero movimento. Nel periodo seguente, con l'avvento del nuovo millennio, si assisterà a una vera e propria esplosione di creatività, che porterà il musicista a sfornare una miriade di dischi, nonché a sviluppare e teorizzare la frontiera dell'ambient-trance: in molti di questi - che saranno equamente divisi tra parti sperimentali e in potenza del suo percorso trancedelico, lavori nostalgici dell'imperitura formula teorizzata in The Magnificent Void, flirt con le forme dell'arte multimediale e collaborazioni dai sapori più disparati - il californiano riuscirà a mantenere l'incredibile qualità dei lavori dei tardi anni 90 e a confermarsi ulteriormente come uno dei musicisti ambient più importanti di sempre.
L'incredibile prolificità con cui Roach si presenterà sul mercato (circa 3-4 dischi all'anno di inediti) lo porterà però a dare vita occasionalmente anche a lavori minori per spessore, ispirazione e importanza. Ciò nonostante, gran parte della critica musicale taccerà quasi tutti i suoi prodotti come statici, ripetitivi, fini a sè stessi e ancorati eccessivamente a cliché mai evoluti: si tratta di una visione limitata e superficiale, dettata con tutta probabilità da una scarsa attenzione negli ascolti di una musica tutto fuorché immediata e da non pochi pregiudizi.

L'ambient-trance e l'incontro con Vir Unis (1999-2000)

roach4All'alba del nuovo millennio, Roach raggiunge il traguardo dei vent'anni di carriera: anni in cui ha saputo dapprima rivoluzionare l'estetica e le coordinate della musica ambient, lanciando le sue varie interpretazioni, e poi raccogliere in un trattato unitario la moderna concezione della sua forma più pura e per eccellenza. Dreamtime Return e The Magnificent Void sono album fondamentali, vere e proprie pietre miliari del genere e della musica tutta, lavori che hanno consacrato un mito e che da soli potrebbero garantire al californiano lo status di principale esponente ambientale del dopo-Eno. Ma il percorso di Roach - al contrario di quanto sostenuto da parte della critica musicale - è tutto fuorché giunto al capolinea.

Il 1999 è il primo anno in cui si assiste alla fibrillazione creativa annunciata in precedenza: escono, infatti, ben dieci album a nome Steve Roach fra raccolte, remastered, progetti solisti e collaborazioni. A inaugurare gli ultimi dodici mesi del millennio, arriva la seconda puntata della saga The Lost Pieces, intitolata Truth & Beauty. L'album raccoglie outtake del Roach tribale ("Fall Of The Moai", "Before The Sacrifice") così come di quello cosmico - "Aftermath", "The Unreachable (Again)" - senza far mancare la sorpresa di turno, ovvero due brani risalenti al periodo di Quiet Music e caratterizzati da un lirismo acustico e delicato, raramente mostrato in passato. "Earthman" e "Fate Awaits" sono i due fiori all'occhiello di una raccolta piacevole, ma che nel complesso poco aggiunge a quanto già noto. Discorso analogo si adatterà anche ai successivi episodi della saga, veri e propri diari infarciti di gemme per la gioia dei collezionisti.

Dopo le edizioni remastered ad opera della Timeroom di The Dream Circle e Stormwarning, ecco arrivare l'atteso successore di The Magnificent Void: Atmospheric Conditions prosegue in una direziona analoga, focalizzandosi su oscure odissee di droni mediante cinque lunghe suite e ridimensionando ulteriormente la magniloquenza delle partiture, mai così vicine alla pura new age. "Underground Clouds Over A Secret Grosso" vede sovrapporsi flussi invisibili di synth lines, che dialogano silenziosamente senza mai scambiarsi particolari effusioni, mentre nelle due metà di "In The Heart Of Distant Horizon" una luce fioca e livida illumina distese sconfinate, totalmente deserte nella prima parte e che si movimentano progressivamente nella seconda. A chiudere, le oscure "Two Rivers Dreaming", dove il pathos pare soffrire però di una certa mancanza di umano sentimento, a favore di un gelo eccessivo e quasi artificiale.
Atmospheric Conditions vorrebbe spingersi oltre i confini del cosmo di The Magnificent Void, ma finisce con l'ottenere alla lunga l'effetto di brancolare nel buio. Album comunque coraggioso e tutt'altro che immediato, è in realtà ben distante dalla nuova svolta che Roach ha nelle corde.


Di questo stesso trend "meditativo" è prodotto ben più efficace il terzo parto al fianco di vidnaObmana, pubblicato inizialmente in limited edition dalla Projekt con il titolo di Ascensions Of Shadow, per poi essere rimasterizzato nel 2005 acquisendo il nome della lunga suite che lo compone, Somewhere Else. In essa, scenari simili a quelli di Atmospheric Conditions vengono "riscaldati" dalle atmosfere esistenzialiste del belga, che s'inseriscono a riempire i vuoti della (qui più efficace) formula sussurrata di Roach. Ci troviamo così di fronte a una sinfonia onirica di un'ora e un quarto, dove - come già avvenuto in precedenza - i due s'intendono al meglio, benché appaia evidente la leadership di Serries su tutto il progetto.
Somewhere Else chiude temporaneamente il cerchio del californiano sull'ambient atmosferica: la svolta trance è alle porte e con essa un cambio di strada sorprendente e fondamentale.

Quattro mesi dopo, Roach inaugura un nuovo, importante sodalizio, che lo vede spartire le sue velleità con John-Strate Hootman, in arte Vir Unis, compositore di colonne sonore e sperimentatore, la cui missione è da sempre quella di affrontare la materia ambientale all'insegna della tecnologia. In quello stesso periodo, nell'ambito di tutt'altra scena, la moda dei rave party è da tempo al tramonto, sostituita da un ritorno di fiamma delle discoteche, in grado di riappropriarsi una grossa fetta di pubblico, raggiungendo un successo quasi superiore a quello dei famigerati anni 80. Questa nuova tendenza dà il via a un proliferare di scene, al successo di generi anche molto diversi fra loro, come l'eurodance, la techno più melodica (variazione di quella originale, già mutatasi nell'ambiente dei rave) e la trance music. E, a distanza di pochi anni dalla commistione ambient-techno dei vari Aphex Twin, Autechre e Boards Of Canada, la nuova alchimia arriva proprio dalla coppia Roach-Unis e dal loro primo parto.

Body Electric fonde i ritmi e le trame sinuose dell'estetica trance con i canoni dell'ambient moderna, e risulta essere fondamenta e primo mattone di una tendenza che sarà, nuovamente, seguita da più parti. È una rivoluzione su tutti i fronti: addio suite - sostituite da undici brani di cui solo due vicini ai dieci minuti di durata - e niente più odissee atmosferiche; al loro posto un sound futurista e ipertecnologico, all'insegna di un groove ritmico a tratti invadente e aggressivo, che si alterna a momenti di maggiore stasi, completamente sintetico, su cui Roach interviene con onde d'urto elettroniche taglienti, fredde, robotiche.
L'esperienza tribale è qui riproposta all'insegna della perfezione sonora, della pulizia e della sintesi: "Born Of Fire" ne è piena rappresentazione, nel suo ipnotico incedere percussivo, dal ritmo quasi trip-hop. "Pure Expansion" e "Homunculus Within" proseguono nello smuovere la massa, priva di melodia o di qualsiasi tocco emotivo: le drum machine sono padrone indiscusse della scena, capaci di aumentare il ritmo e la tensione avvicinandosi addirittura alla techno più pura ("Mind Link") o all'Idm aphextwiniana ("Synaptic Gap").
Altrove, dissonanze aspre e oblique paiono voler dare una seconda interpretazione del cosmo ("Gene Pool", "Solar Tribe") o delle visioni terrene ("Cave Of The Heart"), mentre la nostalgia verso i trascorsi è distribuita esclusivamente nel muro melodico di "Bloodstreaming" e nelle moderne pulsioni di "The New Dream".
Body Electric ci presenta il Roach del terzo millennio, nuovamente lontano dall'ambient canonica che lui stesso ha contribuito a formare e impegnato nella missione di aggiornare i suoi canoni a una tendenza nuova e, per la prima volta, quasi in opposizione alla sua. L'album è un mattone fondamentale per lo sviluppo sonoro e concettuale dell'ambient-trance, benché soffra in alcuni tratti di un evidente eccesso d'ambizione, confluente in un sound anche troppo "artificiale" e costruito più sulla misura delle intenzioni che sulla pura ispirazione.

Ma l'impresa del californiano è in realtà appena cominciata: a distanza di un mese - preceduto dall'attesa, prima edizione in cd dei tre Quiet Music, riuniti su un singolo disco - l'esperienza per certi versi estrema di Body Electric trova la sua naturale collocazione nel capolavoro Light Fantastic, il vero manifesto dell'ambient-trance. Dell'esperienza con Unis restano le trame elettro-percussive, la cui freddezza è però contenuta dal caldo abbraccio dei sintetizzatori, finalmente tornati protagonisti. I brani tornano a dilatarsi, e l'attacco di "Trip The Light" pare partire ben memore delle trame percussive del predecessore: il raggio di luce arriva però ben presto, ed è rappresentato dall'incedere della melodia che lentamente ricopre e si unisce al ritmo, capace di rarefarsi ulteriormente nel moderno viaggio nel cosmo di "Breathing The Pulse". Le complementari "The Reflecting Chamber" e "Touch The Pearl" sposano dapprima giochi di effetti sonori in solitaria, per poi canalizzarli grazie al sostegno dell'irrefrenabile ritmo, che si fa invece da parte nei dieci minuti di "Realm The Refraction", per ripresentarsi infine - silenzioso e quasi dimesso - nel finale languido di "The Luminous Return", un quarto d'ora di taglienti lame atonali e pulsazioni sotterranee.
Così come Dreamtime Return aveva iniziato l'ambient moderna, Light Fantastic dà il via a una tendenza altrettanto fondamentale, fungendo da tunnel di connessione fra il mondo dell'ambient e quello dell'Edm attraverso l'intermediario della trance. Capolavoro pregno di sfaccettature e ben più profondo di quanto possa apparire, è senz'alcun dubbio il suo album ad oggi migliore assieme a Dreamtime Return e The Magnificent Void, nonché l'ultimo a proporre un'innovazione corposa e di rilevanza per la storia del genere.

Da questo momento in poi, infatti, il cammino del californiano non subirà più ulteriori virate verso nuovi lidi, ma si concentrerà sulla ricerca e sullo sviluppo delle strade già solcate anche mediante l'introduzione di elementi inediti, dividendo ciascuno dei numerosi prodotti fra i vari ambiti della sua creatività.

L'esplosione creativa (2000-2003)

La preannunciata fibrillazione produttiva del californiano prenderà corpo con l'avvento del nuovo millennio, momento dal quale questi inizierà a sfornare una mole impressionante di lavori, tutti dediti all'evoluzione dei linguaggi teorizzati in precedenza e molti dei quali al fianco di nomi "storici" e "nuovi". A dividersi saranno anche i sentieri discografici: il musicista continuerà a far uscire parte dei suoi lavori sotto il marchio della sua Timeroom (questi saranno generalmente i meno riusciti), mentre i più importanti porteranno avanti il rapporto con la Projekt, della quale Roach diverrà vera e propria punta di diamante, ispirando l'opera e collaborando con nomi quali Loren Nerell ed Erik Wøllo.

A dare il La al nuovo millennio è il rinnovo del sodalizio con il messicano Jorge Reyez, per l'album
Vine ~ Bark & Spore, una spenta raccolta di rituali ancestrali, percussioni e rimasugli etnici.
A distanza di poco tempo, Roach ritorna invece a solcare la strada dell'ambient intimo e acustico già intentato con Atmospheric Conditions, dando alle stampe Early Man, un regalo per pochi intimi in edizione limitata di cinquecento copie. L'album verrà poi rimasterizzato l'anno seguente dalla Projekt con l'aggiunta di un secondo disco, e diverrà uno dei "classici" del nuovo millennio: il suo scopo, pienamente riuscito, è trasportare le trame di The Magnificent Void dal cosmo all'atmosfera terrestre. Il contatto con la new age diviene qui quasi un matrimonio e la grandeur del lavoro è situata interamente nelle lunghe cavalcate dell'oscura "Early Dawn" e della pittoresca title track, venticinque minuti del Roach più "umano" mai udito dai tempi di Quiet Music.
Nel magma riluttante delle brevi "Begins Look Skyward" e "Flow Stone" si nascondono droni effervescenti e levigati, mentre "Walking Upright" si snoda tra pattern non distanti dall'industrial del primo vidnaObmana e "Hunting & Gathering" riporta alla recente deriva trance grazie al suo cuore ritmico in perenne pulsazione.
Early Man è uno degli album più intimi e quieti di Steve Roach, nonché il proseguimento di un processo evolutivo in continuo movimento.

A proseguire un discorso più simile all'ambient "classica" è invece Midnight Moon, uscito nello stesso anno per la Projekt e sostanziale aggiornamento delle sue sculture alle tendenze del nuovo millennio (glitch su tutte). La strutura è ripresa da The Magnificent Void, con tre lunghi brani alternati a frammenti più brevi e concisi. La nemesi di "Ancestors Circle" narra il viaggio di ritorno nel cosmo dopo le esplorazioni terrestri dei precedenti due album, e altrettanto fanno le ovattate reminescenze pseudo-acustiche di "Moon And Star", i droni disturbati e quasi glitch di "Deadwood" e gli obliqui rimandi alla coppia Eno/Budd di "Hope". "Broken Town" ci offre invece dieci minuti di puro guitar-processing, la cui melodia si muove sinuosa tra melancolia e oscurità, mentre le complementari "Midnight Loom" e "Later Phase" riprendono nuovamente a muoversi fra chitarra trattata in pieno suolo lunare e droni disturbati à-la-Oval.
Midnight Moon ci propone nella sua integrità il Roach del nuovo millennio, al passo con i tempi e distantissimo dal risultare scontato o ripetitivo. La sua è una musica capace di sussistere al tempo e di potersi evolvere in numerosi modi riuscendo così anche a progredire senza ripudiarsi.

Non altrettanto a fuoco risulta essere il suo tentativo di riproporre nuovamente le velleità tribali di Origins e Artifacts, che si traduce nella collaborazione con il percussionista Byron Metcalf per l'album The Serpent's Liar. Per quanto nato con ottimi auspici, il disco si perde nella totale egemonia delle percussioni, troppo marcate e "naturali" per avvicinarsi all'ambient-trance di Light Fantastic e troppo presenti per adattarsi a fondale sonoro. Il risultato non dista troppo da quello dei due, pessimi album "tribali", dove l'elettronica si adagia nel backstage fungendo da puro soprammobile per lasciare spazio alla furia sconfinata di Metcalf e ai suoi vorticosi ritmi, di rado capaci di variare o sorprendere. Roach, dal canto suo, pare non essere interessato a cercare una qualsiasi soluzione "nuova", che riesca a ridar linfa alle composizioni. La struttura di doppio album - che raccoglie i lavori prodotti in anni di incontri e session - e la lunghezza complessiva di quasi due ore non aiutano The Serpent's Liar a raggiungere la pista di decollo, dal quale i suoi quindici brani si tengono invece ben distanti.

Dopo la partecipazione all'interessante Prayers To The Protector - raccolta di preghiere del monaco tibetano Thupten Pema Lama musicate dall'artista in veste minimalista, e sua ultima apparizione per la storica Fortuna - e il secondo ed ultimo parto al fianco di Vir Unis - lo spento Blood Machine, tiepida riproposizione di quanto già sentito in Body Electric - nel 2001 Roach torna a lavorare nell'ambito del visivo con un opera intolata Time Of The Earth: A Desert Dreamtime Journey e composta da un filmato di immagini assemblate e sfumate sul tema del deserto, accompagnate da una colonna sonora composta specificamente ad hoc, che verrà pubblicata come album due anni più tardi.

roach6Il ritorno alla pura dimensione musicale avviene con l'ottimo Core, che porta avanti la formula ambient-trance all'insegna di un sound digitale e futuristico. Plateale esempio ne sono il collage di onde ritmiche della bellissima e cristallina "Endorphin Dreamtime" e i salti ritmici dell'ouverture di "Way Of Now", in cui l'astronave del californiano pare tramutarsi in macchina del tempo e varcare il confine del presente.
In alcuni episodi, la matrice trancedelica prende il quasi totale sopravvento su quella ambientale: le due metà di "So It Goes..." e "Wing Of Icarus" si votano così a un'elettronica movimentata e all'insegna dell'uptempo, pur senza lasciare da parte le classiche trame melodiche dense e stratificate. In "Train Of Thought" il beat rallenta, virando nella prima metà verso un trip-hop livido e carnale e rimembrando nella seconda i fasti slow-rhythm di Dreamtime Return; circondati dall'oscurità, i medesimi tratti somatici si ripresentano nella seconda metà di "Core Meditation", mentre le strutture sotteranee della prima metà di "Core Meditation" e la nebbia umida e rarefatta della conclusiva "Indigo Yeaming" s'immergono nell'ambient più pura e profonda.
Riprendendo in mano un discorso originale e moderno, Core segna un ulteriore passo avanti verso un suono futurista e ultra-moderno.

Altrettanto riuscito, anche se più improntato al suo sound classico, è Streams & Currents, uscito nello stesso anno e ideale successore di Midnight Moon: se quest'ultimo pareva mettere l'accento sull'interpretazione in chiave moderna dell'ambient, nel nuovo lavoro protagonsite indiscusse sono melodia e tradizione, come dimostrato dal massiccio incremento della strumentazione acustica. Le tracce tornano a dilatarsi, e con loro la ricerca del pathos e della suggestione: in "Spirit Moves" percussioni ancestrali e melodie oniriche s'intrecciano per quasi mezz'ora, attraversando ora sentieri più ostici ora discese fluide in un saliscendi emotivo che culla con destrezza per tutta la sua durata. E onirismo è la parola chiave anche degli episodi più brevi, che aprono e chiudono il disco: elegante e massiccio nei droni deflagranti di "Present Moment", intimo e quasi timido nel breve congedo della concreta "Ebb" e della silenziosa "Flow". In mezzo, il quarto d'ora liscio e levigato di "Slow Rising" e la malinconia plumbea della toccante "Almost Touching", che paiono rifarsi alle atmosfere terrestri di Atmospheric Conditions ed Early Man.
Streams & Currents si sofferma sul lato melodico dell'ambient di Roach, pur non isolandosi dalla dimensione umana come avvenuto in Early Man, bensì sposandola e mescolandola alle trame cosmiche e all'atmosfera terrestre.

Dopo l'ultimo parto del 2001 - l'inutile raccolta mixata Pure Flow - l'anno seguente si apre con l'arrivo del terzo lavoro ufficiale al fianco di vidnaObmana - se si escludono la parentesi di Circles & Artifacts, fondale sonoro per una mostra della fotografa Martina Veroheven e Live Archive, testimonianza di una performance non particolarmente interessante né originale. InnerZone è uno dei prodotti più arcigni e sperimentali delle carriere di entrambi, che intensifica ulteriormente le venature industrial già evidenziatesi nel precedente Cavern Of Sirens. L'ambiente si ricopre di nera pece, riscontrabile nei droni primordiali e concreti di "At The Edge Of Everything", nella lugubre danza aliena di "Strands" - trasposizione in salsa dark-noise dell'ambient-trance - nel vuoto sinistro di "Encounter Passage" e nel caos calmo di "Spires", dove l'ambience viene cosparsa di sample striduli e taglienti, prima dell'apocalittica conclusione della title track, il cui ritmo lento e ipnotico trasporta in una dimensione malsana e terrorizzante.
In InnerZone, Roach e Serries si armano di coraggio tentando una svolta dedita alla sperimentazione pura e abbandonando qualsiasi forma di cliché; ciò nonostante, i due non riescono a cesellare nelle roventi piaghe del disco l'atmosfera dei loro episodi migliori.

La breve escursione fuori dai canoni prosegue anche nel successivo Trance Spirits - concepito assieme al compositore Jeffrey Fayman con Robert Fripp nel ruolo di ospite di lusso ai suoi frippertronics - ed equamente diviso fra memorie tribali ("The Calling"), rituali (la title track), trancedeliche ("Seeker" e "Year Of The Horse") e nuove prevaricazioni di ritmo e percussioni con l'elettronica ridotta a fondale ("Taking Flight" e "In The Same Blue Water", rispettivamente ouverture e congedo).
Nel complesso, l'album non aggiunge né toglie nulla a quanto già emerso in precedenza, regalando un ascolto di "lusso" più suggestivo per la line-up che per il prodotto musicale.

A breve distanza Roach ristampa su disco la colonna sonora dell'opera audiovisiva Time Of The Earth, rimasterizzando le tracce e ripubblicandole con il titolo di Day Out Of Time. I vari brani sono legati fra loro dal tema del deserto, ripreso nuovamente dopo le interpretazioni passate di Western Dreams e Desert Solitaire. La rarefazione di Atmospheric Conditions si interseca alle sperimentazioni di InnerZone, producendo quello che è forse il primo, vero album del californiano a poter interamente ricevere la classificazione di dark-ambient. L'inquietudine e la desolazione pervadono gran parte delle tracce, dai riverberi (nuovamente) industriali di "Underground Clouds" ai droni obliqui mossi da pulsazioni sotterranee di "Walking Upright", passando per il temibile respiro di "Two Rivers Dreaming" e le aperture macabro-solenni di "Begins Looking Skywards" e "This Life". Qualche pallido raggio di luce fuoriesce invece dai puri tribali di "True West", dalle architetture malinconiche di "The Eternal Expanse" e dai cicli melodici sussurrati della minimale e conclusiva "The Return" (in alcun modo legata all'omonima conclusione di Dreamtime Return), veri e propri bagliori in un'oscurità che il rito propiziatore di "The Holy Dirt" e la tiepida sinfonia di "Merciful Eyes" non riescono a mitigare.
Day Out Of Time propone nuovamente un'evoluzione di chiaro stampo sperimentale, senza però scadere negli eccessi di InnerZone e risultando così prodotto saldo e compatto, nonostante una durata forse eccessiva e la (scontata) perdita di forza espressiva in assenza del corredo video. Nel 2012, nel decimo anniversario della sua prima stampa ad opera Timeroom, l'album è stato rimasterizzato dalla Projekt, con l'inclusione nel packaging di un Dvd contenente il filmato originale in versione integrale.

In conclusione d'anno, c'è spazio ancora per due album: il primo è Darkest Before Dawn, ideale prosecuzione del discorso di Day Out Of Time e ritorno alla formula della suite unica, anche stavolta della lunghezza di un'ora e un quarto circa. È un lavoro caratterizzato di nuovo da un'atmosfera oscura, più vicino però alle sculture di droni che alle desolate sperimentazioni del suo predecessore, forte piuttosto di una magniloquenza, di una perfezione formale e di una potenza evocativa ancora una volta eccellenti, anche se non manca qua e là qualche momento di stanca.
Il secondo è All Is Now, doppio album che raccoglie da un lato alcuni estrapoli e campioni utilizzati durante alcune performance negli Stati Uniti, dall'altro documenta una di queste - tenutasi a Sedona - nella sua interezza, riproponendo l'ambient-trance futurista di Core, l'intimità onirica di Early Man, le spigolose venature industriali di InnerZone e il connubio di ambient canonica, modernità e melodia di Streams & Currents. Pur non riuscendo a bissare gli stratosferici risultati di Stormwarning e On This Planet, l'album rende al meglio la suggestione dei concerti del musicista.

L'architetto ambientale prosegue il suo percorso all'insegna della varietà e del continuo rinnovamento, anche se questo non fa più rima, come in passato, con l'innovazione e il lancio di tendenze. Pur senza più stupire con particolari novità, la ricerca di Roach non si ferma ed è anzi in continua espansione, pronta a lasciarsi contagiare ulteriormente e a flirtare con una miriade di sonorità nuove, o più semplicemente a rinnovare i suoi fasti mettendo l'accento su un carattere sempre diverso dei vari stili incarnati negli anni.

Sacralità, melancolia e sperimentazione (2003-2006)

I cinque anni successivi proseguiranno più o meno sulla stessa tendenza del post-Light Fantastic, con il californiano dedito ad aggiornare i suoi cliché e a sperimentare sugli stessi sposando correnti stilistiche di vario genere, fino a giungere al matrimonio con l'arte multimediale del progetto Immersion.

L'annata 2003 si caratterizza per una riduzione delle uscite, e in essa prendono forma soltanto le quattro parti di un progetto nuovo di zecca: Mystic Chords & Sacred Spaces. Il nuovo mondo con cui Roach si approccia nei due album della serie è la musica sacra, votata però al paganesimo e all'esoterismo puro. Influenzato con tutta probabilità dalle conoscenze di altri artisti del "giro" Projekt, come Alio Die e Michael Laird, il progetto si compone di due album, distanziati di circa due mesi: il primo, intitolato semplicemente Mystic Chords & Sacred Spaces Parts 1 & 2, è uno dei lavori più lunghi mai prodotti dal californiano, nonché un'unione "nuova" di cavalcate (che vanno ad amalgamarsi nella prima parte) ed episodi più brevi. Nella Part 1, l'umanesimo e la potenza evocativa si fondono, assumendo una carica esoterica del tutto nuova, tradotta nei venti minuti di dilatazioni e atmosfera di "Oracle", nel flusso candido di "Vortex Ring", nella pura church-ambient dell'ovattata "Within The Mystic" e della dimessa "Presence" e nell'architettura solenne della splendida "Palace Of Nectar". Il discorso prosegue nella Part 2, assumendo però una connotazione pù strettamente descrittiva: e così "Wren And Raven" funge da ponte di congiunzione verso visionarie letture new age ("The Otherworld", "Wonderworld", "Slowly Dissolve"), rari dipinti di scenari apocalittici ("Soulwave", "Womb Of Night") e vere e proprie preghiere liberatorie ("Thereshold", "Wordless") trascinanti in altrettanti scenari paradisiaci (le rispettivamente successive "Dream Body" e "Nameless").

Nel secondo capitolo della saga, Mystic Chords & Sacred Spaces Parts 3 & 4, il discorso viene sviluppato in maniera più prettamente sacrale: se nelle prime due parti, e in particolare nella seconda, Roach si era posto come pittore di affreschi e tele, nei restanti due quarti del lavoro il musicista lascia condurre le sorti al lato più astratto dell'immaginazione, riproducendo tematiche e sensazioni senza il tramite dell'immagine. Nasce così una terza parte onirica e mansueta, che viaggia sostenuta a tratti da droni distesi e placidi (la rarefatta "Personal Nature", la semi-concreta "Open Heart", le magniloquenti "The Spiral Of Time's Fire Burns On" e "This Moment Is Another Memory") e ad altri da masse sonore in lento e costante mutamento ("This Moment Is A Memory", "Tuning Back") o da flussi onirici e aggraziati (l'onirica "Turn To Light", le evocative "Slightly Below" ed "Essence Of Phaedra", la malinconica "Left Perfectly Alone"). La quarta parte è invece interamente occupata da "Piece Of Infinity", una delle "classiche" suite da un'ora e un quarto che si pone come liturgia dal significato eterno, capace di interpretare e fondere l'umore di tutte e tre le altre parti del lavoro, spaziando da lunghe progressioni intime a sezioni solenni, passando per intermezzi tesi e preludi in crescendo.
Mystic Chords & Sacred Spaces è probabilmente - assieme alle successive Immersions - il progetto più ambizioso e riuscito dell'intera carriera di Roach: capace di proporre più di sei ore filate di musica senza il minimo segno di cedimento, privo di guizzi particolarmente originali, così come di episodi sottotono, è il candidato principale a smentire la tesi di chi, già nel 2003, bollava l'arte del californiano come statica e involuta. Un'arte ancora capace di risultare influente, tanto da ispirare la virata mistica di alfieri della nuova ambient come J Arif Verner e Max Corbacho.

Gli altri prodotti dell'anno sono due raccolte - l'antologia mixata Space And Time e lo scialbo collage di live e remix Life Sequence - e il terzo capitolo della saga The Lost Pieces, intitolato Texture Times. Il piatto di quest'ultimo riprende nuovamente in mano frammenti inediti e interessanti, come la quieta "Grey And Purple", il trittico di "Spiral Triptych" e "Soul Light", tutti outtake della frangia "acustica" della musica di Roach.
La fortunata serie si concluderà l'anno seguente con il quarto e ultimo capitolo, Places Beyond.

Il 2004 è aperto dal quarto lavoro in collaborazione con Dirk Serries: Spirit Dome è forse il peggior risultato ottenuto dai due, un lungo flusso sonoro su traccia unica che prosegue nell'isolamento sperimentale del precedente InnerZone eliminando la melodia e votandosi alla forma dell'ambience, ovvero la new age più concreta e ostica, dove indiscussi protagonisti sono i rumori della natura (cascate d'acqua, pioggia, vento) e i primi field recordings. Si tratta di una musica il cui scopo usuale è quello di guidare sessioni di meditazione, e che al di fuori di quel contesto risulta spesso - come anche in questo caso - ripetitiva e abbastanza fine a se stessa.

Il percorso "spirituale" continua nella programmata trilogia Fever Dreams, in cui la sua ambient music si fonde nuovamente alle tradizioni popolari. Il primo, omonimo capitolo di questa nuova saga mescola con furbizia rimasugli del Roach più classico con percussioni, digeridoo e strumenti tradizionali vari, riuscendo dopo molto tempo a non sfigurare né risultare fuori luogo, ma cavalcando ulteriormente una tendenza spentasi del tutto con l'arrivo del nuovo millennio.
Nel secondo episodio, intitolato Holding The Space, e nel terzo Fever Dreams III - che vedrà la luce tre anni dopo - la formula non sarà minimamente variata, e finirà col risultare spenta e scontata. La trilogia rappresenta, con tutta probabilità, il punto più basso del Roach dei 2000 e forse l'unico davvero privo di novità e, per certi versi, di un senso.

steve2pngIn conclusione d'anno, la formula di Mystic Chords & Sacred Spaces viene riproposta in Mantram, composto di nuovo al fianco di Byron Metcalf con la partecipazione, questa volta, anche di uno dei guru della new-world americana, l'oboista Mark Seelig. Il risultato è l'ennesima suite di un'ora e un quarto, che questa volta però si pone come una sorta di vero e proprio mantra, sposando la tradizione orientale e rifacendosi al lato più mistico della kosmische tedesca (quello, fra gli altri, dei Popol Vuh del compianto Florian Fricke). Il risultato è un album pregno di tensione emotiva e ottimamente prodotto, dove Roach gioca un ruolo sicuramente più importante rispetto a quanto fatto in Spirit Trances fornendo le sue odissee sonore con la forza visionaria del "cinematografico" Metcalf e la gracile dolcezza melodica di Seelig.

Il 2005 è una sorta di anno sabbatico per il californiano, che concentra gran parte delle sue attenzioni sul remastered del capolavoro Dreamtime Return ad opera Projekt. Per l'evento, Roach prepara le cose in grande: assieme all'edizione regolare, viene pubblicata anche un'edizione deluxe con il nome di The Dreamtime Box, che affianca alla nuova edizione dell'indimenticato trattato due dischi di materiale inedito, successivamente pubblicati anche singolarmente. Il primo di questi, Possible Planet, si lancia in sperimentazioni di commistione fra i suoi soundwork più oscuri e la musica concreta, lasciando confluire i risultati in tre lunghe e arcigne suite di puro dark-ambient. A metà fra Sleep Research Facility e le esplorazioni concrete della scena avantgarde, è ancora una volta un lavoro che fa della sperimentazione un grido, risultando però a conti fatti troppo arcigno e ambizioso, con la conseguente perdita di suggestione. L'altro disco incluso nel box set, New Life Dreaming, si rifà invece maggiormente all'ambient melodico-acustica, racchiudendo una miriade di emozioni nella melancolia delle sue cinque suite brevi (un quarto d'ora ciascuna circa) e tornando con ancor più vigore ai fasti di Quiet Music.

L'approdo al multimediale e le "immersioni" (2006-2008)

L'anno seguente segna l'avvio della nuova frontiera dell'arte di Steve Roach: con il progetto Immersion, infatti, il californiano approda nel mondo dell'arte multimediale, come già aveva fatto Brian Eno con le sue installazioni videosonore. È un Roach sempre più moderno e al passo con i tempi, a soli tre anni dal trentesimo anniversario dell'inizio della sua carriera, che proseguirà la sua ricerca anche dal punto di vista musicale, mentre in contemporanea sempre più musicisti avvieranno esperienze con un debito importante nei confronti della sua opera (su tutti gli alfieri di casa Kranky e il trascendente Eluvium).

Il primo parto della serie, Immersion: One, viene concepito dallo stesso Roach come "un flusso sonoro in perfetta simbiosi con il mondo vivente". Si tratta, per certi versi, di un ritorno alla concezione originaria di ambient music come musica in armonia con l'ambiente circostante: quest'ultimo, però, ha necessità di essere studiato e progettato appositamente, poiché ogni singolo brano ha caratteristiche diverse, come d'altronde ogni ambiente. Ed ecco nascere il progetto dell'audio-video, che però non si limiti più alla composizione di una musica in grado di adattarsi all'immagine, ma dia vita a un concepimento paritario, dove ciascuno dei due sia complementare dell'altro.
Ennesimo calco della formula della suite lunga, Immersion: One si colloca per la prima volta in un ambito puramente metafisico: se Dreamtime Return interpretava linguaggi astratti mediante i canoni del mondo vivente, questa nuova composizione - un flusso quieto e sotterraneo, quasi minimale, di settantacinque minuti - è contraltare delle immagini, anch'esse indeterminate e formate dall'alternanza di colori, luci e ombre. Ciò nonostante, la particolarità dell'operazione risulta visibile solo nelle performance dove il fondale visivo è proiettato su maxi-schermi, poiché nelle edizioni di questo e dei successivi album non è incluso alcun contributo video.
Immersion: One segna l'inizio di una nuova frontiera nel percorso di Roach, dal punto di vista artistico-concettuale più che da quello strettamente musicale, a riprova ulteriore della continua evoluzione della sua ricerca.

La matrice cosmica di The Magnificent Void e successivi torna protagonista - dopo le parentesi votate al sacro, all'intimo e alla sperimentazione - in Terraform, album che Roach concepisce assieme a uno dei più attivi e talentuosi compositori ambient di casa Projekt, il canadese Loren Nerell. Il disco rievoca i paesaggi sublunari adattandoli al recente intimismo acustico, riuscendo a risultare, nelle sue quattro suite, uno dei migliori prodotti del Roach post-trance, nonché forse il più a fuoco dei parti sperimentali.
Così "Cavity Of Liquids" è la "classica" cascata di droni magnetici del californiano completata dai cesellati disturbi glitch di Nerell, e "Texture Wall" ne riprende la tematica aggiungendo uno stridore metallico quasi industriale. La minacciosa "Ecopoiesis" percorre invece sentieri di pura matrice cosmica, rievocando i Tangerine Dream di "Atem", mentre "Paraterra" - quasi un episodio del Nerell solista - s'immerge in un dark-ambient screziato qua e là da lievi glitcherie.
Terraform è disco complesso e ricco di sfaccettature, pronto a garantire tutto fuorché un ascolto facile, ma capace di penetrare, con il tempo, in profondità e al tempo stesso di raccogliere finalmente appieno i frutti seminati nella coraggiosa ricerca dell'ultimo Roach.

Dopo un buon live al classico NEARfest, nel successivo Proof Positive a tornare di moda sono le pulsioni ambient-trance, che abbandonano quasi del tutto l'ambient per votarsi a un connubio di ritmo e melodia dal sapore fin troppo retrò. Così se i venti minuti di "Westwind" sembrano un eterno preludio a un'esplosione ritmica che non arriva mai, "Living In The Pulse" ed "Essential Occurrence" sono marcette analogiche che paiono uscire direttamente dagli anni 70, a cavallo fra Jean-Michel Jarre, Klaus Schulze e Vangelis. "Adreno Stream" ricicla lo stesso identico ritmo di "Westvind" e la title track prosegue per trentadue minuti in saliscendi opachi e, alla lunga, noiosi, inutilmente zuccherosi e vicini alla new age più spinta dei vari Gandalf e Ray Lynch.

Pochi mesi dopo, il Dvd Kairos: The Meeting Of Time And Destiny testimonia un nuovo esperimento multimediale, dove la musica è rappresentata da un flusso di strutture cicliche che cambiano colore al variare di una nota o del ritmo. Il punto debole del progetto è però nel suo lato musicale, vero e proprio riciclo dalle opere recenti che nulla aggiunge a quanto già sentito in passato e pare voler assolvere con il minimo degli sforzi lo scopo di accompagnare lo show visivo. Il progetto non avvicina nel complesso la riuscita di Immersions, risultando però essere l'unica testimonianza permanente delle esplorazioni multimediali di Roach.

Quest'ultimo, invece, si arricchisce un anno più tardi di due nuovi capitoli, che saranno anche le uniche uscite di Roach, assieme a un nuovo album. In Immersion: Two cambia il movente concettuale: lo scopo, ora, è creare una musica "che possa riempire i vuoti degli spazi inattivi". La formula è la stessa, il sound è ulteriormente scarnificato e silenzioso rispetto al primo capitolo: il flusso sonoro si muove lento, colmando ogni spazio e occupando ogni porzione di superficie silenziosa, operando variazioni impercettibili e astraendosi totalmente dalla dimensione fisica. Il contraltare visivo procede assieme al suono, saturando strutture lineari e non con il trascorrere dei minuti, di pixel in pixel, arrivando a completare il "puzzle" in concomitanza al termine della performance.
Il terzo e contemporaneo capitolo, Immersion: Three, ricongiunge la dimensione umana alla musica, che ha qui lo scopo di "fungere da sottofondo per una qualsiasi attività, sia essa lavorare, studiare o rilassarsi". A cambiare è anche il formato: non più una sola suite di settantacinque minuti, ma ben tre riportate su altrettanti cd per quasi cinque ore consecutive di musica. La prima di queste, "First Light", si muove nei sottoboschi emotivi cari a Thom Brennan, crescendo sempre più in forza e intensità, a evocare le prime luci dell'alba. La seguente "Sleep Chamber", invece, procede in senso inverso, dominata da un'aura oscura che va scemando sempre più. La conclusiva "Still" si mantiene su un sentiero analogo, lasciando filtrare qualche occasionale bagliore di luce dall'oscura coltre che la circonda.
Nei due nuovi parti delle Immersions, Roach prosegue la sua personale cavalcata nella re- interpretazione del concetto di musica ambient, guardato da un'angolazione sempre diversa e unito al mezzo del video in un vero e proprio sinolo. Non è una rivoluzione, ma l'ennesimo progresso, a riconferma di una creatività in continuo esubero, di un talento incapace di appassire e di una ricerca sempre più improntata a una pluralità di linguaggi.

A concludere il 2007 arriva anche il primo vero e proprio progetto solista da Proof Positive. Arc Of Passion è una sorta di trait d'union delle strade percorse dal californiano negli ultimi anni: c'è il cosmico-sacrale nei venti minuti di aperture sintetiche di "Moment Of Grace", ci sono le distese di sequencer di memoria schulziana evolutesi dall'ambient-trance nelle due metà della title track e c'è la claustrofobia cosmico-concreta delle ultime collaborzioni con Serries. Si tratta però di un disco interlocutorio, che pare fermarsi per un attimo con lo scopo di affilare le armi dopo anni di lavoro e di ribadire con forza concetti già ben chiari in passato: benché ancora una volta caratterizzato dall'ormai usuale perfezione sonora, è lavoro minore e di caratura inferiore rispetto agli episodi precedenti, nostalgico e innocuo.

Le vere protagoniste del biennio 2006-2008 sono senz'alcun dubbio le interazioni multimediali, frontiera sulla quale Roach pare aver investito nel suddetto periodo gran parte delle sue energie: dimostrazione ulteriore ne sono l'esiguo numero di uscite rispetto agli standard più recenti del musicista e il fatto che tre dei cinque lavori facciano parte proprio della serie "multimediale" delle Immersions. Si tratta di una sorta di chiusura del cerchio aperto con la rivoluzione concettuale di Dreamtime Return: Roach è ora libero di lavorare come un vero e proprio designer del suono e di plasmare le sue architetture sonore e gli ambienti visivi in cui collocarle nella più totale libertà.

L'avventura con Erik Wøllo e le variazioni sui temi (2008-2012)

Gli anni successivi al 2008 vedranno l'artista esentarsi definitivamente dal ruolo di innovatore: questi si concentrerà, infatti su un continuo sviluppo delle sue strade, mediante il quale proseguirà in ogni caso nel produrre lavori ricchi di spunti e originali, molti dei quali capaci di fare storia a sé. In questa fase, però, si assisterà anche all'arrivo di alcuni dischi minori e a una progressiva riduzione delle uscite inedite, che torneranno ad assestarsi sui due album all'anno.

steve_roach_tucson_brightAd aprire il 2008 è il buon A Deeper Silence, ennesimo lavoro strutturato in suite unica, e fortemente debitore, nelle sue atmosfere oscuro-eteree, della serie Immersions e delle collaborazioni con Serries. Nello scorrere del compatto flusso sonoro è impossibile però non notare un evidente calco di una formula assestata e fossilizzata, quella stessa che da The Magnificent Void in poi risponde appieno alla definizione di ambient, tanto da essere comune a quasi tutti gli attuali esponenti del genere. Il successivo Landmass tenta di smuovere la sostanza iniettando una forte dose di disturbo sonoro e rifacendosi maggiormente alla scena ambient-drone in crescente sviluppo: l'esperimento, però, non paga, riportandoci un disco molto distante dal "classico" Roach e non in grado di reggere il confronto con i più giovani contemporanei.

Decisamente più riuscito è invece il secondo prodotto della collaborazione con Byron Metcalf e Mark Seelig: Nada Terma è una vera e propria sinfonia di ambient neoclassico, pregna di misticismo e tratti esoterici, che ripropone da una diversa inquadratura il rapporto con il sacro esplorato nei quattro capitoli di Mystic Chords & Sacred Spaces. Le percussioni si fanno da parte nella prima metà dell'album, lasciando al caldo abbraccio degli archi sintetici il ruolo di guidare le tele sonore: queste sposano un suggestivo paganesimo nei languori del primo movimento e un crescendo apocalittico nel secondo, prima di raggiungere la catarsi nell'oscurità del terzo. La restante metà dell'album vede invece il graduale ingresso del ritmo: ipnotico e timido nella preghiera del quarto movimento e protagonista indiscusso nel quarto d'ora di arabeschi del quinto e nei venti minuti scarsi del settimo.
Nada Terma è senz'alcun dubbio il miglior risultato del Roach etno-tribale in trent'anni di carriera, capace di unire la tradizione pagana con la suggestione della musica sacra. Si tratta, ad oggi, dell'ultimo parto accreditato al trio: il californiano e Seelig si re-incontreranno invece due anni più tardi per un progetto a quattro mani.

Ma il vero piatto forte dell'ultima fase di carriera del californiano è l'incontro con Erik Wøllo, poliedrico compositore norvegese di impostazione classica, folgorato nel bel mezzo della sua carriera dalla proposta musicale della nuova ambient. Il suo legame indissolubile con il ritmo è protagonista di Stream Of Thought, un album dalle mille facce che vede i due improvvisare totalmente e lanciarsi al di fuori di qualsiasi canone. A essere rivoluzionata è per prima la struttura del disco: si tratta, per la gran parte, di brevissime escursioni in territori sempre diversi (19 in totale, tutte senza titolo), fra cui un'elettronica movimentata da pulsioni techno (le parti quattro e cinque), ricordi di languido misticismo guidati dalla chitarra di Wollo (la prima e la nona), escursioni nella pura ambient-trance (la seconda, l'undicesima e la sedicesima) e ancora memorie scomposte e ricostruite del Roach più canonico (quello ambientale nella terza, nella quarta, nella settima e nella quindicesima e quello elettro-etnico nella sesta) o del Wøllo sperimentatore (la dodicesima, la tredicesima e la diciannovesima - brano più lungo del disco con il suo quarto d'ora scarso).
A dominare, nell'atmosfera dell'album, è soprattutto il norvegese, con Roach che pare quasi inchinarsi al talento e all'abilità del suo "discepolo" lasciandogli campo libero per rimettersi nuovamente in gioco. Stream Of Thought è una sorta di testamento, in cui il maestro e l'allievo uniscono esperienza e forza creativa, centrando un risultato di caratura elevata che conferma l'instancabile voglia di ricerca del primo e il talento cristallino del secondo.

Il 2009, che segna il trentesimo anno dall'uscita di Moebius, vede Roach produrre alcuni fra i lavori migliori del nuovo millennio, spaziando tra riusciti calchi della sua formula e una sorprendente divagazione. Il primo di questi è Dynamic Stillness, una vera e propria immersione nella dark-ambient: riprendendo la struttura del doppio album, Roach dà vita a una delle suite più arcigne e sperimentali della sua intera discografia nei quaranta minuti di "Birth Of Still Places", ouverture del primo disco: un serpentone di distorsioni e avvinghianti effetti sonori che non concede tregua alcuna. Le livide trame di "Long Tide" e l'espressionismo decadente di "A Darker Light" lo vedono invece flirtare con l'ambient-drone, prima che "Opening Sky" riporti in territori più rilassati.
Agli inquieti soundscape di "Nature Of Things" spetta invece il compito di aprire il secondo disco, che prosegue poi imbucandosi nella galleria di tre lunghe suite: il quarto d'ora di concretismi rifratti di "Further Inside", le ambientazioni sublunari di "Slowly Revealed" e l'ineffabile conclusione di field recordings di "Canyon Stilness".
Dynamic Stillness è uno dei lavori più complessi e meno accessibili dell'intera produzione di Roach: distante dai flussi placidi del suo stile canonico e intento a lambire i lidi delle sperimentazioni moderne, è il riuscitissimo tentativo di Roach di interpretare le stesse con personalità.

A breve distanza, il californiano dà alle stampe il quarto capitolo del progetto Immersions, intitolato Immersion: Four, che segna il ritorno della struttura della suite unica, abbandonata nel precedente e terzo parto della serie. Nell'ora e un quarto che compone il lavoro, Roach si spinge ulteriormente verso l'atarassia, intendendo il disco come un flusso sonoro stabile in grado di poter essere riprodotto in un qualsiasi ambiente all'infinito. Il risultato è un sound ancor più ineffabile di quello dei precedenti capitoli, che procede apparentemente senza subire variazioni, scorrendo lento senza soluzioni di continuità.
Immersion: Four, pur non riuscendo a eguagliare per freschezza e ispirazione i precedenti capitoli, prosegue all'insegna dell'alta qualità la meravigliosa saga di cui fa parte, arricchendola ulteriormente.

Il successivo Afterlight prosegue sul copione di A Deeper Silence: mediante il medesimo modello della traccia unica, Roach riesce però a ottenere un risultato decisamente migliore rispetto al suddetto lavoro. La melodia è padrona assoluta nel lento scorrere della massa sonora, rintuzzata qua e là solo da campionamenti naturali, che ne aumentano la componente "meditativa", avvicinandosi alle contemporanee nuove forme dell'ambient americana, dominate su tutti dagli alfieri di casa Kranky (Stars Of The Lid, Pan American, Loscil). La copertina - una delle più belle degli album di Roach - che ritrae un cielo oscuro in cui la luce solare riesce a trovare un pertugio, ben rappresenta il mood del disco, che si sofferma però sul secondo elemento, con la matrice "dark" lasciata quasi del tutto da parte.
Afterlight è un disco nostalgico, per certi versi fuori tempo, che riesce però a farsi notare per la sua capacita di evocare grandi suggestioni con un mezzo ridotto e già sfruttato più volte.

Il 2009 si conclude con un altro lavoro in suite unica di ottima fattura, Destination Beyond. Se il suo predecessore segnava un nostalgico ritorno a un ambient melodica e vicina alla new age, questo nuovo disco sperimenta rallentando e ricoprendo di melodie la formula dell'ambient-trance, rifacendosi alle costruzioni ritmiche del Klaus Schulze di "Moondawn". Non troppo distante da parte del materiale concepito al fianco di Erik Wøllo, l'album cerca e trova una via alternativa di approccio all'ambient ritmico, concludendo nel migliore dei modi un anno d'oro per il californiano.

La ricerca di Roach sulla sacralità trova il suo ideale punto d'arrivo in un concerto tenutosi nella cattedrale di Grace nel 2010 e testimoniato nell'album Live At Grace Cathedral, uscito lo stesso anno. Nelle due lunghe immersioni musicali il musicista riprende i temi portanti dei suoi parti più recenti, fondendo esoterismo, docili melancolie e profondità, dando vita a una performance carica di tensione emotiva e di suggestione. Il primo lavoro in studio dell'anno è invece il bellissimo Sigh Of Ages, vero e proprio ritorno alle origini più lontane - quelle elettro-ambientali di World's Edge - e distantissimo da tutte le produzioni precedenti. Il soundscape è dominato da arpeggi melodici, sui quali s'inseriscono flussi lievi e acuti: non c'è spazio per la classica magniloquenza dell'ambient del californiano, né per le complesse architetture sintetiche divenute trademark della scena a lui affine. Così "Quelling Place" sembra provenire direttamente dai lavori sperimentali della coppia Jansen/Barbieri, "The View From Here" offre un salto temporale enorme, ripercorrendo i sentieri minimalisti dei primissimi lavori, mentre "Return Of The Majestic" flirta con strutture elettro-esotiche ricordando da vicino Michael Amerlan e il suo "Ascendences". Nel quarto d'ora di "Sentient Breath" un flusso rarefatto di droni gelidi ricoprono e divorano il sostrato melodico, che se ne libera mostrandosi nella sua purezza nella successiva "Morning Of Ages", prima di abbandonarsi a rifrazioni e ipnosi nella conclusiva "Longing To Be...".
Sigh Of Ages è un caleidoscopio retrò che cammina su quelle strade tralasciate in precedenza dal musicista e che colma un vuoto di cui probabilmente non ci si sarebbe accorti con un tasso qualitativo altissimo.

Dopo i già citati lavori al fianco di Metcalf e Seelig e una scontata e "metallica" collaborazione con l'esploratore Brian Parnham per The Desert Inbetween - disco statico e ancorato ai recenti fasti "avanguardistici" affrontati al fianco di Dirk Serries - che apre il 2011, Roach pubblica il quinto e ad oggi ultimo capitolo della serie Immersions.
Immersion: Five - Circadian Rythms segna un brusco cambiamento rispetto all'assetto precedentemente caratteristico dei capitoli della saga, sia dal punto di vista musicale che da quello strutturale e concettuale. Per la prima volta, un album della serie prende il titolo di un brano e non si esprime nella forma audio-visiva. Il doppio album raccoglie due maxi-suite - forma che negli ultimi anni pare essere diventata espressione fissa dell'arte del californiano: la semi title track si allontana completamente dal quieto fluire dei capitoli precedenti, posizionandosi a metà tra ritmiche post-cosmiche e ambient-trance, mentre "Shroud Of Night" abbraccia le costellazioni psico-droniche affrontate nei recenti parti sperimentali.
Seppur meritevole di premio per il coraggio di variare una formula radente la perfezione, Immersion: Five - Cyrcadian Rythms è senz'alcun dubbio il prodotto meno riuscito dell'intero progetto, nonché una sorta di pesce fuor d'acqua in confronto ai suoi predecessori.

Il sodalizio con Erik Wøllo si arricchisce di un secondo capitolo con l'arrivo di The Road Eternal, disco che recupera in parte un linguaggio più affine al "maestro" californiano rispetto al sorprendente Stream Of Though, e prosegue dall'altra nello sviluppare la formula techno-ritmica di quest'ultimo. Nei venti minuti della title track si assiste a un ritorno nella beatitudine dell'onirismo acustico, e gli stessi ambienti sono dipinti nei brevi acquarelli di "First Twilight" e della conclusiva "Night Strands", mentre "Depart At Sunrise" si tuffa in pieno territorio ambient-trance, prima di lasciare spazio alle suadenti pulsioni techno di "The Next Place" e al dub sotterraneo di "Travel By Moonlight".
The Road Eternal non riesce nell'intento di stupire quanto il suo predecessore, proponendo delle ottime produzioni fra di loro troppo slegate stilisticamente. Resta, in ogni caso, un lavoro di buon spessore, in grado di farsi apprezzare anche al dì fuori del contesto ambientale.

roachsoundquestIn conclusione d'annata arrivano due nuovi album dal vivo: il primo - Live At SoundQuest Fest - mescola rimasugli di tribalismo con estratti dai parti al fianco di Mark Seelig e Byron Metcalf, mentre il secondo risulterà essere testimonianza di una performance epocale.
Ripescando e costruendo architetture monumentali su una composizione precedentemente proposta nel bellisimo On This Planet, Journey Of One si pone infatti come vero e proprio testamento dei suoi trent'anni di carriera. Nelle due, multiformi suite che lo compongono, si alternano in spanning tutte le sottili interpretazioni che il californiano ha dato della sua arte negli anni: si parte - nella prima metà - da flussi sonori, per giungere a ritmi e tribali, passando per l'ambient sonica di Dreamtime Return, l'elettronica di World's Edge e l'elettro-etnica dei lavori a nome Suspended Memories. Nella seconda, invece, le alienazioni cosmiche dei primi minuti si dissolvono lentamente in ritmi di pura ambient-trance, per poi lasciare spazio al misticismo sacro dei cori tibetani e, infine, a un placido isolamento, memore delle Immersion e sfumato su una melodia che conduce direttamente ad Afterlight.
In Journey Of One è racchiuso tutto il meglio della musica di Steve Roach: i tratti somatici delle sue rivoluzioni, le sfumature e le sfaccettature della sua recente ricerca e delle parentesi estemporanee. Si tratta di un'ipotetica antologia che invece di limitarsi a raccogliere quanto già edito, improvvisa nuovi temi di caratura sopraffina in quegli stessi ambiti in precedenza lanciati e cavalcati. È uno dei capolavori dell'artista e della musica ambient tutta.

I lavori recenti (2012-2015)

Nel 2012 il musicista si dedica al restauro del bellissimo Stormwarning e a un'edizione completa di Day Out Of Time, che abbina al disco audio anche il Dvd contenente il corredo visivo - e nel successivo 2013. A seguire, arrivano anche una manciata di nuovi lavori: il primo di questi è il vivido Groove Immersion, ovvero la fusione tra i ritmi dell'ambient-trance e le sonorità tribali di metà 90. Nella "Part 1" di un'ora e un quarto che lo compone per intero, l'album rivela un'anima divisa fra tensione e magnetismo, senza riuscire però a stupire in maniera particolare.
Di tutt'altro stampo è invece il successivo Back To Life, che torna ad assestarsi su un'ambient rarefatta e "disturbata" e a presentare la struttura di doppio album "brani+suite". Le disfunzioni si rivelano a tratti sotto forma di ritmo pulsante (il quarto d'ora di humus caustico di "Tranquillity Base"), ad altri con inserti glitch (gli oscuri presagi di "Cloud Cover", la temibile morsa di "The Wonder Of It All"), mentre altrove la forma si rifà più da vicino alle esplorazioni cosmiche di The Magnificent Void, come nel flusso languido di "Touchstones" o nei droni epici della splendida title track. A porsi in eccezione sono le atmosfere minimali e ovattate di "Everything Inside", il pastiche ciclo-melodico di "Where Rasa Lives" e l'ora abbondante di "Mist Of Perception", autentico viaggio nei sensi percettivi che occupa interamente il secondo disco.
Back To Life è, ad oggi, l'ultimo disco solista del californiano, che sviluppa i canoni dell'ambient teorizzata quasi vent'anni prima riuscendo ancora a colpire nel segno e ad affascinare in maniera notevole, con buona pace dei vari detrattori che da tempo insistono nel bollare la musica del californiano come "tutta uguale", "autoreferenziale" e "statica".

L'ultima uscita dell'anno saluta il ritorno, a otto anni dal pessimo Spirit Dome, del sodalizio con Dirk Serries - che ha nel frattempo abbandonato lo pseudonimo di vidnaObmana. Questa non è l'unica novità che Low Volume Music porta con sè: già dal titolo, il disco sembra volerci infatti anticipare già dal titolo un cambio di rotta sostanziale nelle dinamiche del loro percorso. Niente più muri invalicabili di droni robotici, addio dissonanze e convergenze industriali: al loro posto, il paradigma della quiete per antonomasia: il basso volume. Il risultato è una formula intima, pacata e per certi versi minimale, vicina al Roach “umanista” di Afterlight: una ricetta forse un po' furba, che ripropone ciliché ben definiti e di sicura presa emotiva, ma che riesce nell'intento di raccontare sottovoce, cullando con dolcezza, la resurrezione del percorso congiunto dei due. Così “Here” apre all'insegna dell'onirismo puro, tra flussi quieti e droni vibranti, lasciando poi spazio ai languidi sussurri di “Whisper” - la miglior incarnazione del concetto espresso nel titolo – e alla più acustica “Closed”, che ripesca i languori del Serries dei primi anni novanta. La profondità massima è raggiunta però nelle due mini-suite conclusive: “Bow” viaggia a ridosso del cosmo, abbracciando contemporaneamente rarefazione e cicli lividi à-la-Tim Hecker, mentre “Haze” recupera il linguaggio fluido del Roach più nostalgico, cesellando in un quarto d'ora un misto di malinconia, serenità e pace dei sensi.
Low Volume Music è un album che guarda indietro, riuscendo a riportare in auge il sodalizio fra i due nella maniera contemporaneamente più semplice ed efficace possibile. Non c'è rinnovamento né sperimentazione, e non siamo certo al livello dei migliori lavori del Roach post-duemila: resta lo sfruttamento di uno standard sonoro in eterno legame con la suggestione, incapace di deludere tanto quanto di impressionare.

Negli ultimi mesi dell'anno, il musicista annuncia di avere in programma la pubblicazione di ben tre nuovi lavori, previsti tutti per la prima parte del 2013. A prendere forma per primo è il quinto capitolo al fianco di Byron Metcalf, che si candida senza mezze misure come il miglior risultato ottenuto dalla coppia. Messa da parte la smania per il ritmo e la passione per la ritual music, i due partono in questo Tales From The Ultra Tribe per un intrigante viaggio verso i lidi più quieti della tribal-ambient, con il ritmo capace finalmente di formare un tutt'uno con i soundscapes elettronici. “Setting Forth” introduce fra pulsioni elettrizzanti e sincopi pragmatiche, seguito sulla stessa linea dalla maratona instabile di “Midnight Migration”, dove l'elettronica è, a sorpresa, padrona assoluta. L'ipnosi è regina sovrana, evocata dalle sinewaves di Roach, pronte ad accogliere a braccia aperte Metcalf e il suo armamentario ritmico: i risultati si ammirano in “A Noble Direction” prima e “The Magma Clan” poi, suggestive interazioni fra tradizione tribale e ambient cosmico. Il lato dark di quest'ultimo universo affiora nella danza notturna di “Return Of The Dragon Bone Tribe”, prima di sciogliersi nei flussi melodici di “In The Safety Of Travel”. A completare lo spettro è “Road From Here”, unica vera parentesi di stampo rituale affidata in toto a tamburi e bonghi, ideealmente conclusa dalla breve coda eterea di “Fire Sky Portal”.
Tales From The Ultra Tribe segna il compimento finale (e in parte tardivo), a tredici anni dal primo incontro, del sodalizio con Byron Metcalf, nonché l'ennesima vittoria di un musicista dotato di una creatività inesauribile.

A distanza di poche settimane, è il turno del primo lavoro in solitaria del 2013. Soul Tones torna a mettere l'accento su quella che è l'arte di cui il californiano resta a tutt'oggi sovrano incontrastato: l'ambient music pura, di stampo cosmico. Quella stessa che aveva visto il suo baricentro storico nel 1996 nell'insuperato capolavoro The Magnificent Void, e che aveva vissuto un'iniezione di nuova linfa vitale grazie alla serie multimediale delle Immersions - apice della produzione contemporanea di Roach tutta. Sono due suite a comporre per intero l'album: la title track e “Resolved”. Nei tre quarti d'ora della prima, le ormai classiche sinewaves di Roach si producono in un dialogo soffice, legandosi e slegandosi progressivamente al silenzio, immergendosi in un oceano profondo per riemergere ad intermittenza. I suoni si fanno più organici nella mezz'ora scarsa della seconda, dove l'intreccio dei flussi diviene più corposo e stretto, quasi a voler rappresentare il raggiungimento dell'equilibrio ricercato in precedenza.
Annunciato come primo capitolo di un'ipotetica trilogia sull'esplorazione dell'anima – legata nel sound e nel concept ma non presentata come “saga” - Soul Tones ci presenta uno Steve Roach in forma smagliante, intento nel fornire l'ennesima lezione di ambient music.


Dopo i due gioielli con cui aveva segnato l'inizio del questo 2013 e la parentesi di Rasa Dance - disco compilato con materiale già edito al fianco della moglie Linda Kohanov sul tema del rapporto tra cavalli ed esseri umani - il maestro dell'ambient music sigla nel successivo Future Flows una sorta di collage di gran parte delle sue esperienze più incontaminate, ricordando da vicino quanto fatto nel 2007 con Arc Of Passion. Proprio per questo, l'album finisce per autocitarsi più del solito, senza per questo far mancare l'ormai usuale, elevatissima qualità. Il sogno cosmico dell'iniziale “An Omnipresent Sense Prevails” e l'oscuro affresco spaziale di “Rapt In Night” non fanno dunque mancare più d'un inchino ai conterranei Michael Stearns e Michael Amerlan, segnando l'ennesima intersezione fra loro fondamentali linguaggi sonori. L'atarassia sovrana in “Spectrum Of Change” e il candore livido di “Heart Of Light” toccano invece territori di stampo più squisitamente drone, pronti ad assumere connotati più colorati fra i richiami sussurrati di “Air Meditation” e le sentinelle in coro della conclusiva “Regeneration Revelation”. A completare il quadro i due lunghi tappeti di saliscendi analogici di “The Texture Of Remembering” e, soprattutto, “The Future Flows From Here”, che cercano con nostalgia i tempi del mai abbastanza considerato “World's Edge”.
Future Flows è probabilmente il disco più interlocutorio e variegato del periodo recente del californiano, ma non per questo un lavoro che smentisca lo stato di forma smagliante che sembra averlo pervaso negli ultimi cinque anni.

A metà 2013 Roach sigilla in Live Transmission un'esibizione registrata negli studi di SomaFM, solo tre giorni dopo la performance ad Ambicon, festival celebrativo della storica e indimenticabile Heart Of Space che ha visto una delle rare occasioni per assistere ad una performance del californiano. Pubblicata su doppio Cd dalla Projekt, l'album non gode di particolari acuti o di momenti memorabili, pur non risultando nel complesso una prova negativa. Emblematici, in tal senso, sono i venti minuti di “In The Light Of Day” e i cinque della sua reprise “Kairos Portal”, due suite dal marcato retrogusto Schulziano (quello dei lavori di inizio millennio) che si perdono però nel ricorso eccessivo ai loop. La modestissima “Zone Of Drones” prova a ripiegare su droni oscuri senza tangere minimamente, mentre la coppia “Looking For Something”-“Reflecting Chamber” cerca e trova con più successo il contatto rispettivamente con le distese desertiche dei dischi “californiani” e la tensione degli ultimi lavori con vidnaObmana (non a caso presente assieme a Byron Metcalf come “fornitore di samples”). La mezz'ora di “Vortex Immersion” torna di nuovo a calcare “Kairos Portal”, dilatando questa volta i tempi e posticipando l'ingresso del ritmo, al contrario del quarto d'ora più melancolico di “Westwind” e delle dilatazioni fluttuanti di “Today”, che riportano il soundworld ad una dimensione più vicina alle sconfinate tele a cui Roach ha abituato.
Tele che in Live Transmission stentano nell'unire alla maestria tecnica quella capacità evocativa in cui Roach continua comunque a non avere rivali, limitata probabilmente anche dalla natura di “live a distanza” con cui l'album è nato.

Il successivo Spiral Meditations arriva verso fine anno e torna invece sorprendentemente a solcare i territori di quella Berlin School da cui l'avventura del musicista aveva preso il via: com'era avvenuto tre anni prima in Sigh Of Ages, a riprendere vita sono tessiture sonore elettro-minimaliste, giochi di sequencer, inchini all'analogico, intrecci di sinewaves in rotazione e un certo gusto per il modernariato sonoro. Il disco è in realtà un flusso diviso in sette parti, ciascuna fusa nell'altra come a formare un vero e proprio enigma spiralico, dove la necessaria costruzione del concept finisce per prevalere sull'atmosfera e per minare la spontaneità del tutto. “Consumed By Sunlight” fa trionfare un luccicare di stelle sulla più classica base da cielo notturno, prima che “Sand Painting” omaggi in maniera palese lo Schulze dei tempi moderni, seguito nella missione dalla liquida “Helix”. Altrove, il contatto è con le cavalcate ritmico-melodiche coniate nell'ultimo update della sua ambient-trance: la pulsazione vorace della title track corre al triplo della velocità di Light Fantastic, e la sua scia di vapore e vento prende la forma di “The Feeling Expands”, per poi spegnersi in un intermittenza che ricorda da vicino il Robert Rich di “Numena” in "Sustained In Soul Light". A porsi da contraltare a tutto questo scintillare sono i venti minuti della seconda parte della title track, di fatto un'evoluzione di droni che sembra preannunciare un'esplosione rimandata fino al passaggio al brano successivo. Il tutto al centro di un lavoro che non può che ricoprire un ruolo minore all'interno di una produzione vasta e ricca di perle come quella del musicista californiano, seppur distinguendosi come un tentativo di fuoriuscire dagli abituali cliché ambientali.

roachcut_02A chiudere l'annata arriva un uno-due di ripescaggi dagli archivi live del musicista: entrambi datati 2000, si tratta del Live In Tucson al fianco di Jorge Reyez (in digital-only) e di At The Edge Of Everything, registrazione di una delle rarissime performance extra-americane di Roach, all'E-Live Festival di Ehindoven. Ad ascoltare i suoni proposti nell'ora e mezza dell'esibizione e l'accento messa in maniera evidente sulle sonorità ambient-trance con l'aggiunta di influenze tribal, non è difficile collocare la stessa nel contesto del tour di Light Fantastic. I confini stilistici sono delineati fin dal principio nel quarto d'ora aspro di percussioni viscerali e digeridoo di “The Edge Opens”, introduzione a un viaggio immersivo che procede dopo l'ingresso nella malsana anticamera di “Serpents Rebirth”, autocontemplazione prolungata per dieci, interminabili minuti. “Hyperpassage” attacca poco dopo a giocare con arpeggiatori e filtri analogici fino a quando le classiche distese soniche del californiano tentano di dare un po' di colore. Decisamente più riusciti il tappeto brulicante di “Cloudwatching With The Trancemaker” e il tribalismo alieno della breve  “Crossroads Of Three”, mentre il tocco di classe desertica della conclusiva “Refractions Of Remembering” mette una pezzia al cambio di tendaggio forzato del tuffo cosmico di “Apparition Celebration”. Esperienza live al solito impeccabile, ma a livello musicale - complice anche un'eccessiva varietà stilistica - stavolta la perfezione è ben lontana.

Come avvenuto nell'anno precedente, anche il 2014 è segnato a pochi giorni dal suo inizio da un'uscita collaborativa del maestro. Ad affiancarlo questa volta è Kelly David, musicista con base in Colorado che ha seguito da vicinissimo l'evolversi della scena californiana, senza mai riuscire però ad emergere al pari dei suoi contemporanei. Il risultato è The Long Night, un magniloquente inno alla notte, esplorata in tutte le sue facce e da punti di osservazione situati in luoghi e ambienti diversi. Un'opera che cerca e trova punti di contatto con alcuni degli universi più peculiari della gamma sonora di Roach, dal dark-ambient alle pulsioni viscerali coniate al fianco di Byron Metcalf, passando per le sinewaves e i più classici flussi astrali divenuti ormai marchio di fabbrica della sua miscela. Un cielo scuro e privo di qualsiasi luce si materializza nell'avvolgente “Last Light”, solcato da nuvole alte e fitte nella prima metà di “Calm World”, pronte poi a dissiparsi rapidamente nella seconda per lasciare spazio a estese costellazioni. Nei battiti sotterranei di “The Deep Hours” queste sembrano prendere vita e dare il via a una sorta di danza primordiale, per poi fermarsi di colpo e lasciare spazio al passaggio simultaneo di più comete nel conclusivo quarto d'ora della title track. Il tutto a riprova di come il legame dialogico con l'ambiente naturale continui ad essere per la musica del californiano una fonte di linfa vitale che sembra sempre più lontana dal potersi esaurire.

Il 2014 è anche l'anno del trentennale di Structures From Silence, festeggiato come di consueto dalla puntuale Projekt con un'imperdibile deluxe edition. E proprio in corrispondenza dell'importante ricorrenza, Roach torna a percorrere da una serie di prospettive la strada aperta con l'indimenticato primo capolavoro della sua carriera. In The Delicate Forever, uno degli album più variopinti e riassuntivi della sua carriera, a tornare protagonisti sono dunque i colori più tenui e generativi della sua musica, con la delicatezza chiamata a fungere da unico comun denominatore delle cinque suite. La title track è un lungo e reiterato flusso che torna a convertire il minimalismo spazializzato di Eno e della sua “1/1” nell'immagine dinamica del moto ondoso. Venticinque intensissimi minuti del Roach più organico e quieto dai tempi di Afterlight, il cui buio si tramuta in “Perfect Sky” nella più classica e pittoresca inquietudine cosmica. Totalmente contrapposto a queste ambientazioni è l'altrettanto splendido carillon di “The Well Spring”, la cui danza di arpeggiatori va addirittura a recuperare quelle primissime esperienze di memoria berlinese già rispolverate nel gioiello Sigh Of Ages. Altrettanto a fuoco, per quanto decisamente meno suggestive, sono l'esplorazione dell'inospitale grotta di “Where The Mysteries Sleep” e la chiusura sottovoce affidata a “HearAfter”, un tappeto di droni bagnato da gocce limpide. Da prenotarsi in fretta e non lasciarsi scappare è invece la splendida dilatazione della title track, allungata a settantatre minuti e offerta in cinquecento copie su solo CD a nome The Delicate Beyond, un ipotetico destino alternativo per un disco nuovamente magistrale.

In chiusura d'anno, dopo il primo volume dell'imperdibile raccolta di classici Desert Collection, è la volta del comeback postumo assieme a Jorge Reyes, tristemente scomparso nel 2009. The Ancestor Circle raccoglie brani risalenti alla preparazione della performance pubblicata anch'essa postuma in Live In Tucson 2000: ben quattordici anni fa, più o meno il medesimo periodo in cui i due lavoravano al deludente e spento Vine~Bark & Spore, dove già le pulsioni ambient-trance ricoprivano un ruolo fondamentale. I soundscape una volta dipinti a suon di percussioni sono qui affidati ad arpeggiatori ipnotici, chiamati a dare il La ritmico all'alternarsi/fondersi dei tipici flussi di sinewaves del californiano e della voce gregoriana del compare messicano. Il monolite “Memories Unsuspended” ambisce senza mezzi termini allo status di capolavoro, bilanciato alla perfezione fra groove trancedelico e la malinconia terrena da attribuire ai sussurri amazzonici di Reyes. Il resto del lavoro, invece, si assesta su una ben più ordinaria (per quanto altrettanto valida) revisione dei canoni classici. Quelli rituali si ripresentano offuscati dalla nebbia nell'apertura di “The Circle Opens”, intrisi di trance nell'arcano di “Espacio Escultorico” e ornati da field recordings insolitamente protagoniste in “Spirit, Stone And Bone”. Quelli più epici esplodono nella chiusura nostalgica di “Temple Of Dust” e nella marcia oscura e opprimente di “Procession Of Ancestors”. La dedica alla vita (persa da Reyes) nel titolo assume ad ascolto concluso il suo significato autentico: gli incanti dei due sono a tutt'oggi efficacissimi.

La "prima" di Roach sul 2015 arriva in compagnia del fido Byron Metcalf e dell'australiano Rob Thomas, già con il primo nell'ottimo “Medicine Work” due anni prima. Monuments Of Ecstasy torna a calcare il tema del deserto e prosegue la "storica" ricerca del californiano sulla tradizione ritmica aborigena, qui portata alle estreme conseguenze. La lunga odissea percussiva di “Monuments Of Trance” è il cuore pulsante della progressione, e guida verso uno stato di ipnosi profonda e irreversibile. A fargli da contrappunto la lunga (e altrettanto austera) immersione introduttiva di “Archaic Layers” e la raffica di “Molecules Of Momentum”, in cui sembra davvero di tornare ai tempi di “Origins”. Nel mezzo di queste lunghe tempeste di sabbia rossa, il rifugio a suon di arpeggiatori di “Primal Analog” costituisce un'eccezione capace di mantenere comunque lo stato di trance, perso solo nella scia di luce della conclusiva “This Place On Earth. La title track è invece una vera sorpresa, una cavalcata blu notte che nasce in seno a rumori e disturbi trans-umani per poi essere lentamente sovrastata da una scia armonica prima e da una linea melodica (!) poi, entrambe affidate a Roach. Una sorta di canto dal cuore più profondo del deserto, di trasposizione in chiave impressionista di un tribalismo ambientale fino ad oggi (e, in tutto il resto del disco, ancora oggi) immersivo per sua stessa definizione. Un tassello che mancava nella carriera di Roach, che arricchisce il già alto valore complessivo di un disco magistrale. Al solito, più del solito.

È poi la volta di Invisible, regalato in digitale a fine 2014 ai più assidui frequentatori del suo shop online e ristampato a grande richiesta su Cd a inizio di quest'anno, in edizione di sole 300 copie. Nei settanta minuti di questa lunga immersione, Roach mette in scena il soundscape più inquieto degli ultimi dieci anni della sua carriera: nemmeno Possible Planet e Dynamic Stillness si erano spinti tanto in profondità nell'evocare l'instabilità, nell'indagare il dark side delle visioni del maestro californiano. Qui si arriva addirittura a sfiorare il contatto con certe deviazioni post-industriali, in una contemplazione che si sofferma sui dettagli più sinistri e angosciosi dell'oscurità: quelli, appunto, legati al venir meno della vista. Così le usuali nebulose immersive in grado di guidare negli angoli più remoti dell'immaginazione e di evocare gli scenari più vari e lontani nel tempo, si trasformano qui in strumenti funzionali a sensazioni nuove: il timore e l'inquietudine. Il silenzio riconquista un ruolo preponderante e a decadere è anche l'usuale continuità del flusso, qui spezzato da vagiti concreti, rumori distanti e irriconoscibili. Quasi fosse il luogo prediletto ed inconscio di tutte quelle impurità solitamente filtrate per favorire l'evoluzione della purezza.

Elaborato negli ultimi giorni di un anno buio e piovoso, semplicemente osservando i contrasti di luce e la sostanziale parità emotiva tra giorno e notte, Invisible è una fuga, un'evasione dalle magnifiche evocazioni della sua musica verso un luogo dove l'occhio abdica.

A pochi mesi segue poi il ritorno alle origini prime "berlinesi" con Skeleton Keys, un disco realizzato esclusivamente con un set-up di synth analogici modulari e autentico comeback ai tempi di Now (per altro rimasterizzato in questo stesso periodo in Lp) e Traveler, prima della svolta di Structures From Silence. L'apertura di “The Only Way In” appare subito come una trasfigurazione in pulsione delle cavalcate di Michael Amerlan, affidata alle evoluzioni di un sequencer che accumula e scarta elementi sonori ad ogni passaggio. Si tratta solo di un primo approccio con la materia, pronta a essere rielaborata in una varietà di declinazioni già a partire dalla marcia sostenuta di  “The Function Inside The Form”. In “It's All Connected” torna d'attualità la trancedelia al ralenti, mentre “Outer Weave” tocca con mano i territori convulsi e hypno-tech dei lavori con Vir Unis. Il ritorno alla purezza analogica è affidato alla seconda metà del lavoro: se “Escher's Dream Is Dreaming” e “A Subtle Twist Of Fate” simulano affascinanti featuring rispettivamente con Klaus Schulze e i Tangerine Dream di “Rubycon”, l'inno delicato di “Saturday Somewhere” e l'inchino al pop sintetico di “Symmetry And Balance” offrono forse i take più originali e difficilmente collegabili ai trascorsi storici del californiano. Due ciliegine su una torta gustosa, di quelle dal sapore e dalla ricetta quantomai “classiche” ma che proprio per questo piacciono sempre. Al disco fa seguito una raccolta, intitolata The Skeleton Collection 2005-2015, che ripercorre l'intera genesi dell'estetica analogica del "disco madre" prorogatasi nel decennio in questione, e che poco aggiunge alla sua poetica nostalgica quanto fortemente attuale.

Con la sua sesta firma apposta sull'anno 2015 tra collaborazioni e album solisti, Steve Roach realizza quello che è probabilmente e per certi versi il lavoro più atipico degli ultimi anni della sua carriera. Etheric Imprints segna senza mezzi termini una svolta verso un isolazionismo dai risvolti quasi esistenziali, che già aveva fatto ingresso silenziosamente nelle trame del maestro californiano fra gli spettri di Invisible. Mai un disco di Steve Roach era parso così rarefatto. Niente più immersioni in un ambiente altro che la musica era chiamata ad evocarem a rappresentare e costituire al tempo stesso. Niente più sinewaves e flussi in dialogo: l'ouverture della title track, destinata a divenire uno dei brani-emblema del presente di Roach, si abbandona al dimesso e rassegnato languore di note di piano sintetico, sfiorando da vicino le contemplazioni nel buio del collega Harold Budd. Tutt'attorno un silenzio inquieto, che nella catarsi di “Indigo Shift” viene avvolto dal ritorno di spettri vocali deformati, contorni di un rituale oscuro al cui centro si colloca un arpeggiatore analogico detonato. Bisogna aspettare “Holding Light” per ritrovare qualche traccia del suono (e delle atmosfere) più classiche di Roach: fra flussi, armoniche, comete e asteroidi si torna a parlare un linguaggio più familiare. Diciassette minuti che fungono da eccezione a livello sonoro, pur celebrando la venuta della luce che in “The Way Forward” assume connotati più concreti ed empirici, tra amalgami di loop e la melodia finale à-la Michael Danna, affidata alla voce solitaria di una tastiera. Una chiusura che corona alla perfezione un percorso di auto-analisi che stavolta prescinde ogni carattere meditativo, preferendo ad esso una forma di realismo emotivo.

Nel 2016 il ritorno con Spiral Revelation, ancora una volta alla corte di mr. Rosenthal, è una sfida che si compie nell’esplorare una nicchia in controtendenza, in declino eppure ancora piena di potenzialità: l’Intelligence Dance Music, l’Idm, come se il maestro dell’Arizona si ponesse la causa/effetto di rilanciare una sfida nata anni or sono e cresciuta in nicchie di pregio come Timpanik.
Cicli e loop, glitch e spirali vorticiste di suono sono tutte le sicurezze che Roach immette nelle sei tracce del nuovo full-length, con ardore, donando una vita cellulare e molecolare a un sound tendenzialmente algido e artificioso: il tocco dell’artista, la pennellata fine di un pittore espressionista del suono.
In ogni traccia regna un’armonia contemplativa, piccole estasi tipiche di Roach; già con “We Continue”, in apertura d’album, nulla è corrotto, nulla può corrompere un suono cristallino, progressivo nelle mille evoluzioni dei rapporti tra synth ed elaborazione concettuale. Ogni suono è un movimento, la frazione ripartita sul complesso di una suite contemporanea, assai affinata con le concettualità di Philip Glass. Un’opera evoluta, nella quale riscoprire ad ogni ascolto nuove ispirazioni, con passiva estasi.
Tanti i riferimenti al kraut elettronico, frutto anche dell’esperienza trascorsa, una vita dietro a macchine analogiche e digitali: “Primary Phase” risente dei percorsi "ossigenati" di Jean-Michel Jarre, mentre nel finale la title track riserva quasi venti minuti di assoluta bellezza: la corsa, il flusso di elettroni, di globuli bianchi e rossi, il volo migratorio di oche disperse oltre le nubi, banchi di pesce immersi nel blu assoluto del suono, della vita.

Giunto a quasi 40 anni di durata, il cammino di Steve Roach pare non volersi fermare. Proseguendo imperterrito nel proporre pietanze sempre diverse, variazioni continue e a volte impercettibili della sua formula, il maestro dell'ambient moderna si è dimostrato e continua a dimostrarsi perfezionista e ricercatore instancabile, capace di soffermarsi su ogni singolo dettaglio della sua musica, a sua volta sempre capace - eccezion fatta per pochi casi - di emozionare, conquistare e suggestionare. Negli ultimi tempi in tanti, troppi, fra critici e opinionisti, hanno diffuso e sostenuto una tesi secondo la quale la musica ambient "classica" nella sua forma pura e incontaminata, starebbe subendo una crisi irreversibile. A tale ragione è da molti stata ricondotta una presunta parabola discendente che avrebbe colpito i portabandiera del genere, fra cui proprio il californiano, la cui esplosione creativa ha servito un'occasione irripetibile per stroncare la sua opera, nella totale ignoranza dei continui progressi e delle mille sfaccettature che la sua musica è stata in grado di assumere di album in album. Con buona pace dei detrattori, Roach è ancora fra noi, e con lui l'ambient tutta. O forse, la verità, è che entrambi non se ne sono mai andati: tra una presunta crisi e l'altra, la carne al fuoco è sempre stata tanta, e promette di continuare a esserlo.

Contributi di Michele Chiusi, Nicola Tenani

Steve Roach

Discografia

STEVE ROACH
Moebius (Moonwind, 1979)
Now (tape, Fortuna, 1982/Fortuna, 1987)
Traveler (Domino, 1983/Fortuna, 1987)
Structures From Silence (Fortuna, 1984/Projekt, 2001)
Quiet Music 1 (Fortuna, 1986)
Empetus (Fortuna, 1986/Projekt, 2008)
Quiet Music 2 (Fortuna, 1986)
Quiet Music 3 (Fortuna, 1986)
Dreamtime Return (Fortuna, 1988/Projekt, 2005)
Stormwarning (live, Soundquest, 1989/Timeroom, 1999/Projekt, 2012)
World's Edge (Fortuna, 1992)
The Lost Pieces (raccolta, Rubicon/Projekt, 1993)
Origins (Fortuna, 1993)
The Dream Circle (Soundquest, 1994/Timeroom, 1999)
Artifacts (Fortuna, 1994)
The Dreamer Descends (ltd, Amplexus, 1995)
The Magnificent Void (Hearts Of Space, 1996)
On This Planet (live, Hearts Of Space, 1997)
Slow Heat (Timeroom, 1998)
Truth & Beauty: The Lost Pieces Volume Two (raccolta, Timeroom, 1999/Projekt, 2010)
Atmospheric Conditions (Timeroom, 1999)
Dreaming... Now, Then: A Retrospective 1982-1997 (antologia, Fortuna, 1999)
Quiet Music (raccolta, Fortuna, 1999)
Light Fantastic (Hearts Of Space, 1999)
Early Man (Manifold, 2000/Projekt, 2001)
Midnight Moon (Projekt, 2000)
Core (Timeroom, 2001)
Streams & Currents (Projekt, 2001)
Pure Flow: Timeroom Editions Collection 1 (raccolta, Timeroom, 2001)
Day Out Of Time (Timeroom, 2002/Projekt, 2012)
Darkest Before Dawn (Timeroom, 2002)
All Is Now (live, Timeroom, 2002)
Mystic Chords & Sacred Space, Parts 3 & 4 (Projekt, 2003)
Mystic Chords & Sacred Space, Parts 1 & 2 (Projekt, 2003)
Space And Time: An Introduction To The Soundworld Of Steve Roach (antologia, Projekt, 2003)
Texture Maps: The Lost Pieces Vol. 3 (raccolta, Timeroom/Projekt, 2003)
Life Sequence (raccolta, Timeroom, 2003)
Fever Dreams (Projekt, 2004)
Holding The Space: Fever Dreams II (Timeroom, 2004)
Places Beyond: The Lost Pieces Vol. 4 (raccolta, Timeroom/Projekt, 2004)
Possible Planet (Timeroom, 2005)
New Life Dreaming (Timeroom, 2005)
The Dreamtime Box (box set, Timeroom, 2005)
Immersion: One (Projekt, 2006)
Storm Surge: Live At NEARfest (live, NEARfest, 2006)
Proof Positive (Timeroom, 2006)
Kairos: The Meeting Of Time And Destiny - A Visual Music Odissey (soundtrack, Timeroom, 2006)
Immersion: Two (Projekt, 2006)
Immersion: Three (Projekt, 2007)
Fever Dreams III (Timeroom, 2007)
Arc Of Passion (Projekt, 2007)
A Deeper Silence (Timeroom, 2008)
Landmass (Timeroom, 2008)
Dynamic Stilness (Projekt, 2009)
Immersion: Four (Projekt, 2009)
Afterlight (Timeroom, 2009)
Destination Beyond (Projekt, 2009)
Live At Grace Cathedral (live, Timeroom, 2010)
Sigh Of Ages (Projekt, 2010)
Immersion: Five - Circadian Rhythms (Timeroom, 2011)
Live At SoundQuest Fest (live, Timeroom, 2011)
Quiet Music: The Original 3-Hours Collection (raccolta, Projekt, 2011)
Journey Of One (live, Projekt, 2011)
Groove Immersions (Timeroom, 2012)
Back To Life (Projekt, 2012)
Soul Tones (Timeroom, 2013)
Ultra Immersion Concert (dig, live, Timeroom Digital, 2013)
Rasa Dance (raccolta, Epona, 2013)
Future Flows (Projekt, 2013)
Live Transmission (live, Projekt, 2013)
Spiral Meditations (Timeroom, 2013)
At The Edge Of Everything (live, Timeroom, 2013)
The Desert Collection - Volume One (raccolta, Timeroom, 2014)
The Delicate Forever (Projekt, 2014)
The Delicate Beyond (ltd, Projekt, 2014)
Invisible (ltd, Timeroom, 2015)
Skeleton Keys (Projekt, 2015)
The Skeleton Collection 2005-2015 (raccolta, Timeroom, 2015)
Bloodmoon Rising (4xCD, Timeroom, 2015)
Etheric Imprints (Projekt, 2015)
Alive In The Vortex (live, Timeroom, 2015)
Vortex Immersion Zone (Timeroom, 2015)
STEVE ROACH & ROBERT RICH
Strata (Hearts Of Space, 1990)
Soma (with Robert Rich, Hearts Of Space, 1992)
STEVE ROACH & DIRK SERRIES (aka VIDNA OBMANA)
Well Of Souls (Projekt, 1995)
Cavern Of Sirens (Projekt, 1997)
Ascension Of Shadows/Somewhere Else (ltd, Projekt, 1999/Projekt, 2005)
Circles & Artifacts (ltd, Contemporary Armonic, 2000)
Live Archive (live, Groove Unlimited, 2000/Projekt, 2008)
InnerZone (Projekt, 2002)
Spirit Dome (Projekt, 2004/Projekt, 2008)
The Memory Pool/Revealing The Secret (ltd, steveroach.com, 2008)
Low Volume Music (Projekt, 2012)
STEVE ROACH & VIR UNIS
Body Electric (Projekt, 1999)
Blood Machine (Green House, 2001)
STEVE ROACH & BYRON METCALF
The Serpent's Lair(Projekt, 2000)
Mantram (with Mark Seelig, Projekt, 2004)
Nada Terma (with Mark Seelig, Projekt, 2008)
Dream Tracker (with Dashmesh Khalsa, Dr. BAM, 2010)
Tales From The Ultra Tribe(Projekt, 2013)
Monuments Of Ecstasy (with Rob Thomas, Projekt, 2015)
STEVE ROACH & JORGE REYES
Vine ~ Bark & Spore(Timeroom, 2000)
Live In Tucson 2000(MP3, steveroach.com, 2013)
The Ancestor Circle (Projekt, 2014)
STEVE ROACH & ERIC WØLLO
Stream Of Though (Projekt, 2008)
The Road Eternal (Projekt, 2011)
ALTRE COLLABORAZIONI
Western Spaces (with Kevin Braheny, Richard Burmer & Thom Brennan, Innovative Communication/Fortuna, 1987)
The Leaving Time (with Michael Shrieve, Novus/RCA, 1988)
Desert Solitaire (with Michael Stearns & Kevin Braheny, Fortuna, 1989)
Australia: Sound Of The Heart (with David Huson & Sara Hopkins, Hearts Of Space, 1990)
Kiva (with Michael Stearns & Ron Sunsinger, Hearts Of Space, 1995)
Halcyon Days (with Stephen Kent & Kenneth Newby, Hearts Of Space, 1996)
Dust To Dust (with Roger King, Projekt, 1998)

Prayers To The Protector (with Thupten Pema Lama, Fortuna, 2001)

Time Of The Earth: A Desert Dreamtime Journey (soundtrack, with Steve Lazur, Projekt, 2001)

Trance Spirits (with Jeffrey Fayman, Robert Fripp & Momodou Kah, Projekt, 2002)

Terraform (with Loren Nerell, Solelimoon/Projekt, 2005)

Nightbloom (with Mark Seelig, Projekt, 2010)

The Desert Inbetween (with Brian Parnham, Projekt, 2011)

The Long Night (with Kelly David, Projekt, 2014)

Spiral Revelation (Projekt, 2016)
SUSPENDED MEMORIES (with Jorge Reyez & Suso Saiz)
Forgotten Gods (Grabaciones Lejos Del Paraiso/Heart Of Space, 1993)
Earth Island (Hearts Of Space, 1994)
SOLITAIRE (with Elmar Schulte)
Ritual Ground (Silent, 1993/Projekt, 2000)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Steve Roach su OndaRock