Have A Nice Life

Have A Nice Life

La consapevolezza della morte

Combinando istanze shoegaze, sotterfugi elettronici e un’indole irreprensibilmente DIY, il duo del Connecticut formato da Dan Barrett e Tim Macuga ha portato il gothic-rock a nuove, arcane profondità, divenendo quasi istantaneamente un classico del genere

di Michele Corrado

Quel titolo: Deathconsciousness, la consapevolezza della morte. Quella copertina cupa e importante, ricolma di significati storico-filosofici: “La Mort de Maratdi Jacques-Louis David. Quel suono: mastodontico, opprimente, schiacciante, definitivo. La durata importante: un’ora e venticinque minuti in due parti intitolate “The Plow That Broke The Plains” e “The Future”.
Quando nel gennaio 2008 il primo lavoro degli Have A Nice Life arrivò sugli scaffali dei negozi di dischi (invero pochi) e tra le pagine delle riviste specializzate, sembrò di trovarci a cospetto di un tomo importante, la summa, il punto di arrivo cinico ed esistenzialista di una carriera lunga e imponente. Anche dopo averlo ascoltato, rimanendone travolti, Deathconsciousness tutto ci sembrò tranne che un’opera prima. Certo è che Dan Barrett e Tim Macuga si erano uniti sotto la sigla Have A Nice Life ben otto anni prima, un tempo sufficiente per sperimentare sul suono e trovare l’alchimia perfetta, ma Deathconsciuosness travalica ampiamente i due traguardi e sembra davvero porsi come un punto d’arrivo, la fine di un viaggio.
E in un certo senso lo è, tanto che il duo del Connecticut non avrebbe mai provato a ripetersi, cercando con i lavori successivi quasi di smarcarsi da un approccio così definitivista e affrontare la scrittura delle canzoni in modo meno complesso.
Rinunciando a paragonarli a cotanta opera prima, si tratta a conti fatti di due dischi gothic-rock sperimentale, solidi e significativi, che hanno confermato la statura della band sancendone lo status di classico moderno del genere.

Realizzato con mezzi non proprio up to date e DIY (dato che lo rende un’opera ancor più straordinaria) per Enemies List Home Recordings, Deathconsciousness è stato definito dalla stessa band the most depressing record in the history of music. Ma come suona un disco così depresso? Come suona un disco che ansima faticosamente, con il petto schiacciato da un macigno gigantesco quale la consapevolezza della morte, della caducità dell’essere umano e della vanità delle sue complicazioni socio-culturali? Certo, potremmo attenerci a un approccio critico-scientifico ed enumerare i generi lambiti da questa mistura musicale oscura (si va dalle coltri di effetti e lamenti di shoegazer quali i My Bloody Valentine all’ambient più spettrale, ai NIN), che vengono fatti agire dal duo sull’ossatura gothic-rock e sulle drum-machine delle loro composizioni. Così si farebbe però torto a un’opera unica e irripetibile, tale grazie alla sua natura narrativa ed espressionista.
Prendete l’inizio del disco, la cui capacità di suggerire vere e proprie immagini, quasi si stesse guardando un film, è scioccante. “A Quick One Before The Eternal Worm Devours Connecticut”: siamo in una selva oscura, la chitarra e i droni sinistri echeggiano tra il fogliame fitto, che lascia filtrare fasci di luci Malick-iane. Una pace tormentata, pungolata da un demone infimo, disturbata, scostante perché cosciente della sua scadenza a breve termine. Ma pur sempre una pace, sulla quale far piombare il verme eterno, a devastarla sotto le spoglie di un beat asfittico, lento ma implacabile e di un basso tortuoso, mostro delle caverne più profonde. Non possono che piangere e sanguinare, soccombere esanimi all’attacco, la chitarra e le voci in pena di “Bloodhail”; sicuramente il brano più accessibile e più confortevolmente post-punk della partita, e dunque (per molti) vessillo della band.
Il film continua tra i detriti e la polvere raggruppata in grumi dal sangue versato: il Connecticut è stato divorato, sventrato, così che “The Big Gloom” possa aggirarsi tra le sue macerie aprendo voragini noise che conducono dritto all’inferno.
Più autosufficienti, ma altrettanto cinematografici sono i quasi dieci minuti di “Hunter” che innesca beat incalzanti e chitarre gotiche solo nella sua seconda parte, dopo una prima lunga sezione di ambient raccolto in penitenza e disturbanti voci filtrate. Porta un po’ di leggerezza “Telephony”, che pur rimanendo depressa, con i volumi schiacciati dal mixaggio, quasi assume le rotondità pop dei Cure più soffici. Sono altri quattro minuti di pace, ingannevole come quella dell’opener, solo che a spazzarla via non ci sarà un ritmo, un mostro apocalittico assetato di morte. Al loro posto l’angoscia fatta ambient, sfregiata da stridenti ditate droniche sul vetro (“Who Would Leave Their Son Out In The Sun?”). Chiude la prima parte del disco “There Is No Food”, ulteriore esperimento ambient sospeso negli spazi vuoti e grigi di una casa trascurata: non c’è da mangiare, non c’è un o una partner, non c’è amore. Ci sono soltanto la solitudine e la distrazione di qualche suono confortevole, docile, rassicurante. Il ronzio di un frigorifero.

Meno liquida ed eterea, “The Future” è una seconda parte più fragorosa, concretista e, volendo, ruspante di Deathconsciousness. Non sembra dunque un caso che ad aprirla sia un brano dalla forte impronta chitarristica intitolato tra il serio e il faceto “Waiting For Black Metal Records To Come In The Mail”, occhiata rivelatoria verso una parte meno ovvia del background di Macuga e Barnett (del resto l’etichetta che dette alle stampe Deathconsciousness si occupa principalmente del genere). Oltre a essere più frammentario, nel senso che si compone di episodi più autoconclusivi, “The Future” differisce da “The Plow That Broke The Plains” nelle energie che emana, completamente diverse da quelle sovrannaturali, bibliche che infestavano la prima, spettrale parte.
Le chitarre assumono qui un ruolo chiave, finalmente da protagoniste, incarnando un impeto profondamente umano e disperato, che brucia, dissipa le sue forze scavando con le unghie per liberarsi dall'insormontabile, inscalfibile prigione di macerie. La luce non è garantita, forse lo è un futuro più sereno, di placida coesistenza con la mortifera rivelazione.
Le chitarre più dure, i cui effetti ne esaltano la spigolosa ossatura e l’essenza ferrosa, sono quelle della rutilante “Deep, Deep”, mentre quelle di “Waiting For Black Metal Records To Come In The Mail” indugiano lungamente su una coppia di riff sordi e ottusi.
L’episodio più bizzarro del lotto, e paradossalmente quello più easy listening, è una cantilena lo-fi intonata su una base di chitarra acustica spazzolata e pianoforte claudicante. Il brano, intitolato “Holy Fucking Shit: 40.000”, si esacerba in un finale di beat machine che menano scudisciate e distorsioni selvagge facendo venire in mente l’industrial più apocalittico.
Lo shoegaze, fino a quel punto soltanto aroma fugace e frugale, si impossessa della lunga frazione finale composta da “I Don’t Love” e dalla titanica “Earthmover”. La prima vede un mugolio di sollievo innalzarsi sulle ondate di feedback emanate dalle chitarre, è un momento quasi rilassato, ma mente a se stesso - “I Don’t  Love” - Ti piacerebbe. La seconda è invece da annoverare tra i vertici shoegaze del nuovo millennio; il genere viene qui però ricodificato, immerso in un mare di pece, dal quale le chitarre laceranti non possono che uscire vischiose e mefistofeliche.

Ancor più incredibile perché praticamente fatto in casa, è il lavoro effettuato sui suoni mediante un lavoro certosino di sovra-incisioni, loop e taglia e cuci delle parti suonate, che riesce a dare alla musica di ogni brano spazi e dimensioni. Altrettanto strabiliante è l’operazione effettuata simultaneamente sulle voci, che grazie agli effetti vengono trasfigurate e collocate in agolazioni sempre diverse, suonando all’occorrenza eteree, oltretombali o umane.
I riferimenti, le citazioni con le quali Macuga e Barrett da nerd terminali hanno letteralmente tempestato Deathconsciousness sono migliaia e coprono un raggio che si allarga da filosofi neo-platonici a “Da Da Da” dei Trio (celebre band della Neue Deutsche Welle), il cui beat viene campionato in “Holy Fucking Shit: 40.000”. Qualsiasi tentativo di coglierle tutte e comporre un mosaico soddisfacente sarebbe dunque impossibile. Chi avesse interesse ad addentrarsi in cotanta foresta di simboli e segni può avventurarsi nel booklet del disco, un tomo di quasi ottanta pagine scritto da un professore universitario che non ha temuto l’ardua sfida.

Per certi versi un seguito di Deathconsciousness non sembrava nemmeno lecito aspettarselo. Ovviamente avrebbe fatto piacere vedere gli Have A Nice Life di nuovo all’opera, ascoltarne nuovo materiale, ma se non si fossero fatti più vivi, il nutrito culto che in quegli anni si strinse intorno al duo se ne sarebbe fatto comunque una ragione, fondata su un lascito già reputato inestimabile. Invece, sei anni dopo, ecco il duo (che comunque, tra progetti paralleli e la propria etichetta The Flenser, non era stato con le mani in mano) rifarsi vivo. Con The Unnatural World, un lavoro che già nelle apparenze emanava meno imponenza e definitività, rivelando aspirazioni in un certo senso ridimensionate. Si tratta sicuramente di un disco più normale del suo predecessore, ma non per questo trascurabile o prescindibile, è anzi un lavoro di ambito gothic piuttosto pregiato e originale, merce a quei e di questi tempi abbastanza rara.
Oltre ad avere in dotazione uno dei giri di basso più conturbanti della premiata ditta Barrett Macuga, “Dan And Tim, Reunited By Fate” gioca con simpatia con il tema del ritorno, fornendo agli ascoltatori una ragione dell’insperato coming back.
L’incipit è al solito spettrale e immaginifico. Siamo nel “Guggenheim Wax Museum”: un mormorio sinistro aleggia tra le statue di cera, la chitarra e la beat machine scandiscono il ritmo dei passi strascicati di un fantasma antico. Il finale chitarristico offre uno degli acuti di chitarra più penetranti dell’intera produzione.
Molto più fisica, “Defenestration Song” ha sul finale quello che potremmo definire l’unico vero assolo di chitarra mai registrato dagli Have a Nice Life, così buono e al posto giusto da far sperare di poterne sentire altri. “Burial Society” rialza la quantità di elettronica e beat del mix, dando la possibilità a Barrett di far echeggiare un ritornello disperato ma perentorio in spazi vuoti e sacri. È ovviamente grigio e i suoi nembi vengono scalfiti e modellati da sinistre folate droniche, il cielo della piece ambient “Music Will Untune The Sky”.

I sette minuti di “Cropsey” sono un massiccio noise che si avvolge su se stesso e fagocita lo spazio circostante come un buco nero, ma ha un cuore d'oro: una flebile, dolcissima e sghemba melodia di pianola che nonostante il rumore assordante rimane sempre ben udibile. Finisce in dissolvenza, tra i lontani rintocchi e i muggiti di organetti funerei di “Emptyness Will Eat The Witch”, un disco che se non fosse arrivato dopo Deathconsciousness, avrebbe potuto rappresentare l’inizio di una moderna carriera gothic-rock (comunque decisamente sperimentale) di tutto rispetto, nonché incontrare molti più favori e meno delusioni, comunque paventate dai soliti critici musoni e fan più intransigenti.

Alla soglia dei venti anni di attività, gli Have A Nice Life non sono più quelli di una volta, ossia un’inconfrontabile mano demoniaca che ti afferra per una gamba e ti tira giù, fino a lasciarti affogare nel sangue negli abissi della vasca di Marat. O forse è Deathconsciousness a rappresentare un unicum, un monolite di disperazione e consapevolezza destinato a non ripetersi. Difatti il duo di Middletown ci mette ben sei anni prima di rifarsi vivo, con The Unnatural World, un disco meno scioccante, ma altrettanto personale e riconoscibile, che consacrerà Barrett e Macuga tra le più solide realtà post-punk dei nostri tempi.
Sea Of Worry, almeno nella sua prima metà, presenta connotati ancora più canonicamente gothic rock e strutture sempre meno sperimentali, ma rinsalda la convinzione che la band, nonostante il repertorio piuttosto sparuto, possa ambire al rango di classico del genere.
Posta in apertura, la title track imbastisce sin da subito un sound granitico, cupo e virulento, con le chitarre a sfondare gli spazi bui, mentre “Dracula Bells” ha un’introduzione chitarristica che ricorda sfacciatamente gli Interpol, proponendo un accostamento che (viene da pensare) qualche tempo fa alla band sarebbe addirittura dispiaciuto. Nel suo finale geometrico e scheletrico, la canzone ritorna su coordinate più tipicamente HANL, proponendosi in spigoli e inquietudini meno evadibili di quelli costruiti da Paul Banks e affiliati.
“Science Beat” fa storia a sé, con una beat-machine sugli scudi e tutt’intorno un mare di placide onde sintetiche, le cui acque vengono poi sferzate da un riff vicino al twee-pop che suona finanche vagamente gioioso; è il momento più luminoso di un’intera carriera. Rialza i volumi “Trespasser W”, che con il riff più nerboruto e diretto del lavoro si rivela un’altra mina post-punk.
Tutte le tendenze per la sperimentazione e per strutture meno regolari di Barrett e Macuga sono state condensate in un trittico finale dalla durata complessiva di ventitré minuti, che accontenterà chi della band preferisce questa attitudine.  “Everything We Forget” è un vaporoso limbo di droni e tastiere trascendentali; “Lords Of Tresserhorn” ha inizio nella stessa palude, ma con in più un basso cavernoso a scuoterne i fanghi e la voce straziata dai filtri, culminando poi in un’esplosione di rumori e offuscamenti eterei.
Chiude “Destinos”: tredici minuti di farneticazioni sulla vita dopo la morte da parte di un predicatore, la cui voce viene progressivamente stretta da sinistri cori gregoriani e ingoiata dal folk nero di una chitarra acustica che si fa via via più grossa, impossibile non pensare qui ai Current 93. Magistrale l’ingresso della chitarra elettrica e dei sintetizzatori lancinanti per un ineluttabile finale di nero vestito. 
Al solito sono eccellenti la produzione e la veste grafica, con una copertina differente da quelle dei dischi precedenti, ma incredibilmente affascinante, con decine di simboli nascosti tra le sue geometrie.

Appendice: progetti paralleli e solisti di Dan Barrett e Tim Macuga

Quella che segue è un’appendice senza pretese di esaustività sui progetti paralleli o solisti dei due, che da buoni patron di etichetta, mettono le mani un po’ ovunque e si cimentano in numerosi divertissement.

Riducendosi al solo moniker The Flowers Of St. Francis, sotto il quale sono stati rilasciati soltanto tre confusionari volumi di drone-noise music (The Flowers Of St. Francis Vol. 1, Vol. 2 e Vol. 3), la carriera solista di Tim Macuga risulta, rispetto a quella del ben più prolifico Dan Barrett, trascurabile. Prima di addentrarci in quest’ultima, iniziamo con qualche breve accenno su due progetti che vedono coinvolti entrambi i membri. Due sigle, Gate e Nahvalr, utili a dettare qualche coordinata più precisa sulle influenze che, insieme a numerose altre, hanno portato alla sintesi perfetta di Have A Nice Life.

Risalente al 2008 e con all'attivo un solo disco omonimo (rilasciato qualche mese dopo Deathconsciousness), Nahvalr è un progetto black metal con repentine piane dark-ambient che vede coinvolto il duo in solitaria. Nahvalr è un monolitico disco di un’ora e cinque minuti neri come la pece, le cui otto tracce si susseguono mixate senza soluzione di continuità. Chitarre distorte a tal punto da renderne irriconoscibili gli accordi e strilla demoniache infuriano nei momenti più abrasivi e urticanti, mentre spiriti senza riposo vengono fatti fluttuare in una casa distrutta nei momenti con gli strumenti in apnea. Invero non un lavoro propriamente significativo o riconoscibile, il disco può stuzzicare l’interesse di chi si trovi a suo agio con i generi tirati in ballo e gli umori più oscuri.

Anch’essa riconducibile ai soli Barrett e Macuga, la sigla Gate vede i due alle prese con post-hardcore e noise. Risalente al 2014 di The Unnatural World, l’Ep Now, While They Aren’t Looking, Tear It Apart racchiude in poco meno di quindici minuti il retaggio post-hardcore dei due musicisti. La pregevole copertina, raffigurante un gladiatore che chiude in maniera brutale un combattimento che lo vede vincitore, è lo scrigno di 4 staffilate chitarristiche sulle quali i musicisti piazzano un inedito cantato punk, lontanissimo dalla pirotecniche evoluzioni vocali del progetto madre.

Mentre quelle a nome Nahvalr e Gate appaiono come uscite relativamente estemporanee, digressioni in libera uscita dal progetto principale, le sortite di Dan Barrett in solitaria, specialmente quelle a nome Giles Corey, compongono quella che non esiteremo a chiamare una vera e propria carriera solista, sviluppatasi perlopiù tra Deathconsciousness e The Unnatural World.

La breve ma interessante saga di Corey inizia nel 2011 con un disco intitolato proprio Giles Corey, rilasciato attraverso la solita Enemies List. I titoli delle canzoni, al solito suggestivi, rimandano alla depressione e alla letteratura tipiche degli Have A Nice Life: chiese vuote, tombe ricolme di libri, burton-iane spose spettrali, cuori dormienti. A differire totalmente è l’apparato sonoro, qui sghembo, caliginoso, statico e polveroso in maniera spiazzante, un insieme di desolate fotografie in bianco e nero in cui fare aggirare come una presenza oscura litanie folk e slow-core. Nonostante il cambio radicale di scenari sonori rispetto a quelli di Have A Nice Life, rimane massivo l'utilizzo di beat-machine e sample.
In breve, Giles Corey è un ascolto da raccomandato, fosse anche solo per conoscere la voce di Barnett finalmente spoglia di effetti stranianti e distorsioni demoniache.

Il secondo lavoro targato Giles Corey (Deconstructionist del 2012), un impegnativo e un po’ pretenzioso massiccio ambien-drone lungo tre atti che superano abbondantemente l’ora di durata, risulta invece un ascolto faticoso e autoindulgente.

Sulla copertina di Deconstructionist appare però un’immagine che ci torna utilissima a collegarci a un altro progetto di Dan Barnett, nonché l’ultimo di questa frugale rassegna: Black Wing.
Sull’artwork del secondo Lp di Corey, una coppia di ragazzi osserva una minacciosa nuvola di fumo levarsi sopra un paesaggio rurale. Su quello di … Is Doomed, vediamo la medesima nuvola di fumo, a questo punto molto simile a un’ala nera, sbucare e allargarsi dal camino di una piccola casa di legno immersa nel grano dei campi.
Quello che è probabilmente il progetto più interessante di Barnett è forse anche il più semplice per tecnica e intenti: darkwave dal’altissimo tasso sintetico cantata da Dan con qualche filtro in meno del solito. Synth pesantissimi sono l’ingrediente principale della portata, variano invece di spessore i beat che possono fungere da accompagnamento oppure prevalere sul resto dell’impianto, come accade nel numero industrial “Black Wing”. Dotata di un’incantevole e lunga coda di sintetizzatori che luccicano come i cristalli di un antico lampadario, “Death Sentences” varrebbe da sola il prezzo dell’ascolto; mentre “If I Let Him In” svela notevoli punti di contatto con l’opera di John Maus.

A cinque anni di distanza, nel 2020, arriva per Black Wing il secondo capitolo: No Moon.
Le tenebre la fanno da padrone in entrambi i dischi, sin dalle copertine. In quella del primo assumono le sembianze di una fumata nera che si leva dal comignolo di una casa isolata, in questa nuova quelle di un cielo senza luna che si specchia in una crepa nella collina profonda (presumibilmente) fino all’inferno.
Pur rimanendo il progetto più orecchiabile dell’universo Have A Nice Life, in “No Moon” Black Wing spariglia le carte in tavola e i suoi orecchiabili giri di synth rifuggono le rassicuranti circostanze della forma canzone, tendendo a disgregarsi in malsani manti chillwave (“Ominous 80”, “Always A Last Time”) o a inerpicarsi in evoluzioni malformanti (“Choir Of Assholes/You Think It’ll Make You Happy But It Won’t”). Anche ai riff di sintetizzatori più rotondi e chiari, come lo sono quelli di “Is This Real Life, Jesus Christ” e “Bollywood Apologetics”, non viene concessa la consolazione di un ritornello, ma a cavalcarli ci sarà solo il lamento metallico di Barnett.
“Vulnerable” è un bombardamento noise ai danni di un coro di anime del purgatorio, sul quale Black Wing riversa bordate e percussioni distorte con l’intensità di un raggio laser; mentre “Sleep Apneac” è una lenta litania dai beat letargici i innescata dal canto di un crooner straziato dal dolore proveniente da un vecchio grammofono.
Dopo la lunga (invero un po’ troppo) e maestosa chiusura affidata a “Twinkling”, una mastodontica escursione tra rumore e sintetizzatori analogici, giunge a conclusione un lavoro vario e a tratti ardito, che certamente non raggiunge la potenza immaginifica degli Have A Nice Life, ma conferisce profondità inedita ad un loro progetto collaterale.

Have A Nice Life

Discografia

HAVE A NICE LIFE
Deathconsciousness(Enemies List, 2008)
The Unnatural World(Enemies List, 2014)
Sea Of Worry(The Flenser, 2019)
GILES COREY
Giles Corey (Enemies List, 2011)
Deconstructionist (Enemies List, 2012)
BLACK WING
... Is Doomed (The Flenser, 2015)
No Moon (The Flenser, 2020)
GATE
Now, While They Are Not Looking, Tear It Apart (Autoprodotto, 2014)
NAHVAIR
Nahvalr (Enemies List, 2008)
THE FLOWERS OF ST FRANCIS
Vol. 1 (Enemies List, 2011)
Vol. 2 (Enemies List, 2012)
Vol. 3 (Enemies List, 2015)
Pietra miliare
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Deathconsciousness (Full Record)
(da Deathconsciousness, 2008)

Defenestration Song
(da The Unnatural World, 2014)

Dracula Bells
(da Sea Of Worry, 2019)

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