ROME

ROME

Sotto le ceneri d'Europa

Jérôme Reuter ha traghettato il neofolk verso nuovi e personali lidi, tra cantautorato e docu-drama storico. Dai primi anni del Duemila, l’artista lussemburghese ha interpretato il sentimento di profonda crisi del continente europeo, mettendo in scena temi legati alla guerra, all'amore, al dolore e alla morte

di Marco De Baptistis

Nel corso del tempo la prolifica discografia di Jérôme Reuter, in arte Rome, ha preso la forma di un complesso percorso esistenziale e poetico di rara bellezza e profondità, un baluardo intellettuale che si erge sulle rovine del mondo moderno, raccogliendo idealmente il testimone di gruppi come Death In June e Sol Invictus ma, al contempo, seguendo una propria via verso un evocativo neofolk cantautorale.
Dai primi anni del Duemila, Reuter interpreta alla perfezione il sentimento di profonda crisi del continente europeo, ripercorrendo con il suo lavoro anche i lati più bui della storia del Novecento. L’artista lussumburghese ha sempre evitato di fornire risposte facili, ritenendo che il suo compito sia essenzialmente quello di sollevare domande e reazioni, facendo brillare contraddizioni e lati in ombra della modernità, anche alla luce fioca della realtà del nostro presente. Non tutto deve essere messo in luce, come ha dichiarato lui stesso nella nostra intervista (e più di recente anche in quella rilasciata alla rivista svedese Bardo Methodology). Si richiede dunque attenzione per entrare nel mondo messo in scena da Rome, una sorta di viaggio al termine della notte tra suggestioni storiche e letterarie.

L’alba martial-folk sotto l’egida della Cold Meat Industry

Tutto inizia in Svezia con la Cold Meat Industry, seminale etichetta discografica gestita da Roger Karmanik. Dalla fine degli anni Ottanta, la label svedese rivoluzionò il mondo della musica (post)industrial dando vita a nuove diramazioni e sottogeneri: dal dungeon synth di Mortiis al death industrial di Brighter Death Now, passando per il neoclassicismo degli Arcana e il dark-ambient di Raison d'être, non dimenticando il black-industrial dei Mz.412. Era il 2006 e Reuter sotto lo pseudonimo di Rome (il nome non altro è che l’abbreviazione di Jérôme) dà alle stampe l’Ep Berlin proprio per l'etichetta svedese.
Partendo da un martial/neofolk debitore di gruppi come Death in June, Der Blutharsch, dei compagni di etichetta Puissance e del primo Dernière Volonté, Reuter costruisce un teatro d’altri tempi e lo fa attraverso un cut-up di campionamenti d’epoca e lenti scivolamenti in un cantato greve e avvolgente. Brani come “Like Lovers” e “The Orchards” colpiscono dritti nel segno per il particolare timbro vocale dell’artista, oltre che per l’estrema cura dei contenuti e dell’ambientazione. Il Nostro mette in campo da subito una cifra stilistica ben riconoscibile, trovando un buon bilanciamento tra una severa attitudine industrial (“Cloacks” e “Wake”) e un plumbeo intimismo lirico (“Herbstzeitlose”). Sin dal campionamento di “Like Lovers”, in cui una voce con piglio deciso esclama: “Compromise is not possible”, si viene irrimediabilmente conquistati dall’ardita e incompromissoria proposta di Rome.

Il primo album targato Rome non si fa attendere. Sulla scorta del successo di Berlin (tra gli appassionati di certe sonorità, s’intende) esce, sempre nello stesso anno, Nera. In effetti, anche qui l'atmosfera è, come nell’Ep, nerissima. L’epigrafe incisa sull’interno del digipack originale dell’album recita in italiano “A noi è mancata soltanto la fortuna non il coraggio”. Si tratta di una frase presente anche in un campionamento in italiano (si tratta di una voce con accento emiliano-romagnolo) inserita nel brano “A La Faveur De La Nuit”, tristissima ballata al pianoforte che parla di sconfitta e ardimento.
Tutto l’album sembra ruotare attorno alle vicende tragiche della Seconda Guerra Mondiale con tanto di suoni di sirene anti-raid aereo presenti in “A Burden Of Flowers” e latrati di cani al seguito di una pattuglia di soldati in “A La Faveur De La Nuit”. In “Hope Dies Painless” possiamo ascoltare echi del folk apocalittico dei Death In June.
In generale, Nera fonde delle ballate folk con sinfonie industrial alla Der Blutharsch, impreziosendo il tutto con un cantato che guarda a Nick Cave e Scott Walker. È proprio la voce di Reuter a fornire quel tocco malinconico e cupo in cui emerge un forte e giustificato pessimismo per le sorti dell’umanità, cui fa da contraltare un’enfasi marziale novecentesca che rimanda a vecchi documentari in bianco e nero e a un’Europa che non esiste più, sepolta tra le macerie e la polvere della Storia.

unnamedConfessions d'un Voleur d'Ames, secondo album uscito per Cold Meat Industry nel 2007, si distingue nettamente per l'eleganza della sua scrittura, agitata dal fantasma della darkwave più passionale sporcata da fumi industriali. Intelligenti nell'utilizzare con il dovuto distacco gli stereotipi più triti del genere, le "confessioni" di Jerome sono calibrate con grande maturità e buon gusto, trascinate da un'emotività sincera e palpabile, senza mai cadere nella pomposità, nemmeno quando, piegandosi ai cliché del proprio stile, infittisce le canzoni di voci e campionamenti orchestrali epici e maestosi, come nella splendida intro "Ni Dieu Ni Maitre", degna dei vecchi Puissance.
E se "The Consolation Of Man" è un avvio guardingo, nel segno del neofolk più nebuloso, canzoni come la straordinaria "Querkraft", "Der Wolfsmantel" e "The Joys Of Stealth" esprimono tutta la malinconia e il (dis)incanto necessari a dar vita alla loro rara, stupefacente bellezza. Restando indimenticabili sin dal primissimo ascolto. Degne di nota anche "This Twisted Crown", il folk spettrale e ipnotico di "The Torture Detachment" e la visionaria chiusura "L'Adieu Aux Anciencs", con solo un sussurro allucinato e sparute note di piano a fare da scenografia.

Masse Mensch Material è il terzo album, realizzato nel giro di appena diciotto mesi. Qui Rome mette in scena un limbo dove passato e presente s’intrecciano e si specchiano l'uno nell'altro; da lì l’artista osserva le scelte, le passioni, le illusioni, le sconfitte di una umanità al bivio, oggi come ieri. Vi partecipa ora con riluttanza, ora con trasporto e commozione; se ne allontana scontroso, tornando a chiudersi nel suo bozzolo. “Die Nelke" e "Neue Erinnerung" sono i nuovi fulgidi gioielli attorno a cui ruota l’opera; partendo dai "soliti" accordi neofolk, guidate da una voce sempre più profonda e espressiva, queste canzoni si innalzano in percorsi ascensionali che, specie nei loro epici e sconsolati refrain, sfiorano vette di inaudita bellezza.
In “Die Nelke”, è presente anche un evocativo campionamento in italiano che recita “Guarda come questi tempi sono pesanti/ Bisogna rimanere attenti/ Bisogna aspettare/ Di nascosto sempre migliorarsi”, ma corre veloce, Jérôme, non perde tempo a guardarsi indietro, non cerca compromessi, solitario e impenetrabile: l'ansia disperata che invade "Wir Gotter Der Stadt" sembra lottare contro sé stessa e costituisce un altro momento-clou dell'album.
La forza di Rome sta ora più che mai nell'universale potere di strofe e ritornelli, nutrendosi qui di bruschi e rischiosi contrasti: il sarcastico carosello "Die Brandstifter" (non deve essere passato inosservato "Paris Spleen", l'ultimo album uscito su Cold Meat Industry dei nostri intrepidi Ataraxia) trova un suo alter ego opposto e complementare nel gelido requiem "Wir Moorsoldaten", di esemplare rigore formale. La sensibilità oscura che opprime la fangosa "Kriegsgotter" trova modo di illuminarsi nello struggente cantautorato di "Der Erscheinungen Flucht". E già in apertura colpisce il violento stacco tra le soffici folate ambient di "Sonnengotter" e il tumulto di "Der Brandtaucher". Eppure ognuna delle molte anime dell'album trova il suo ideale compimento nell'insieme, lasciando ulteriori margini di miglioramento a una formula che sa esprimersi con efficacia in una prova di maturità superata a pieni voti con fierezza, intelligenza ed equilibrio.

Fiori dall’esilio e canti perduti

9359298753_fed0704360_bDopo i primi tre album per Cold Meat Industry, s’inaugura una nuova fase con Flowers From Exile, pubblicato nel 2009. L’album segna il passaggio verso la label tedesca Trisol e l’ufficiale ampliamento della line-up in sede live. Quello che iniziò come progetto solista del solo Reuter ora è un assortito trio che oltre al songwriter include il multi-strumentista Patrick Damiani e il violinista Nikos Mavridis.
L’album è un lavoro d’intenso e desolato intimismo, che sceglie come metaforico scenario la guerra civile spagnola, concentrandosi su diari, memorie, desideri di coloro che dal conflitto vengono costretti all'esilio, fotografati durante le loro marittime peregrinazioni in cerca di una vita nuova in terra straniera. E come da filosofia-guida del progetto, il travestimento old-style nasconde in realtà rassegnate riflessioni d'attualità.
Pure se lirico ed epico come di costume ("Legacy Of Unrest"), Rome fa delle sue anime folk e pop fondamenta indistruttibili su cui edificare canzoni che eliminano quasi del tutto le spigolosità industrial e certa marziale pomposità dei lavori precedenti, che potevano rendere pesante l'ascolto ai non seguaci della grey-area. È un lavoro più cantautorale e melodico, ispirato più all'arte di Leonard Cohen (sentire per credere la title track) che ai Death In June.
E nel dovuto debito ai numi tutelari, è l'arte di Rome a farsi sempre più riconoscibile: la voce calda e carismatica di Jérôme, gli arrangiamenti accattivanti, il vivido rimpianto di melodie che portano via al primo ascolto, nella dolcezza disarmante di "Odessa" e "Who Fell In Love With The Sea", nell'abbrivio di "The Accidents Of Gesture", che più si allontana dalla terraferma più prende slancio e confidenza, permettendosi addirittura l'inserimento di folate shoegaze.
L’album diventa ben presto uno dei lavori più amati e conosciuti di Rome, tanto che in occasione del suo decennale, nel 2019, viene proposto integralmente in sede live durante Wave of Darkness on the Baltic Sea, evento dedicato a sonorità post-industrial, neofolk e martial, realizzato su una nave da crociera che attraversava il Baltico, da Stoccolma a Riga e ritorno. Evento cui parteciparono anche diversi artisti storici della Cold Meat Industry, rimettendo in gioco molte di quelle sonorità ed estetiche da cui il progetto Rome era nato e aveva mosso i suoi primi passi.

Nos Chants Perdus del 2010 procede nella direzione tracciata dall’album precedente, ma è anche un lavoro più melanconico e pessimista, dove emergono soprattutto la voce e la chitarra acustica in una visione più minimale e diafana rispetto ai lavori del passato. Si abbandona la Spagna a favore della Francia di Pierre Drieu La Rochelle, Camus e Apollinaire. L’album è ambientato, in massima parte, negli anni dell’occupazione tedesca in Francia, ma convergono nei testi suggestioni letterarie appartenenti a tempi diversi della storia francese. “Les deraciné” (Gli sradicati) è un brano che rimanda, sin dal titolo, a un famoso libro dello scrittore nazionalista francese, Maurice Barrès. Rome conquista l’ascoltatore con la sua anima di chansonnier alla Jaques Brel, ma siamo di fronte a un lavoro meno immediato dei precedenti, quasi isolazionista e cantato con un tono che ricorda il più cupo Scott Walker.

Die Aesthetik Der Herrschaftsfreiheit nasce come triplo cd che contiene, nel complesso, la bellezza di trentasei brani; un'opera sicuramente imponente, pubblicata nel 2011 e ispirata anche dal romanzo di Peter Weiss "L'estetica della resistenza". Sin dal titolo ("L'estetica della libertà dal dominio", letteralmente, ma anche "L'estetica dell'autonomia", "L'estetica dell'anarchia"), la trilogia tratta appunto il tema della rivolta nell'ambito dei più svariati contesti socio-culturali.
Lungo i tre capitoli ("Aufbruch Or A Cross of Wheat", "Aufruhr Or A Cross Of Fire" e "Aufgabe Or A Cross Of Flowers") Jérôme, aiutato da Patrick Damiani, passa pertanto in rassegna il martial industrial e il neofolk acustico, ma anche la dark-ballad cantautorale e lo spoken-word recitato su tappeti sonori ambient.
La qualità complessiva della trilogia è senza dubbio superiore alla media del settore (le belle tracce non mancano), ma il tutto soffre di una certa prolissità - i numerosi spoken-word, seppur evocativi e funzionali al concept, tendono ad appesantire l'opera, inoltre non tutti i brani hanno beneficiato in eguale misura del talento dell'artista lussemburghese, rendendo il lavoro nel suo complesso meno riuscito dei precedenti.

Hell Money esce nel 2012 ed è sostanzialmente un concept-album sui mali provocati dal denaro: il compito di analizzare e sviscerare la tematica viene affidato ai passaggi più energici, come la scoppiettante “Amsterdam, The Clearing” e l'impietosa “Golden Boy”, contaminata da suoni esotici, canti africani e qualche rimando allo stile della prima era.
Il nuovo Rome-sound trova invece le sue vette nella cascata di lacrime di “Tightrope Walker (Wild Milk)” - fra i brani più belli mai scritti dal lussemburghese - nell'attacco ai massimi sistemi di “Fester” e nella ninnananna à-la-Cohen di “Rough Magic”, dove la dolcezza sostituisce in toto l'oscurità. Ma il sentimento prevalente nell'intero lavoro è una rassegnata malinconia, protagonista indiscussa dell'omaggio (già dal titolo) alla 4AD di “This Silver Coil”, della languida “Silverstream”, della sonata pianistica “Red-Bait” e del finale agrodolce e toccante di “The Demon Me (Come Clean)”.
La forza di dell’album, anche rispetto ai precedenti episodi della lunga saga di Rome, sta nella sua capacità di dialogare con l'ascoltatore senza intermediari. Anziché soffermarsi sulla cura certosina di arrangiamenti e suggestioni, Reuter si concentra sul lato poetico e intimo della sua musica senza ricorrere ad alcun artificio, sfruttando solo una sensibilità compositiva degna dei migliori songwriter.

Dalla Rhodesia al Vietnam, a passeggio tra i fantasmi della Storia

img_4285Nel 2014 è la volta di A Passage To Rhodesia. Dopo l’approfondimento introspettivo e cantautorale dell’album precedente, Reuter riporta la sua narrazione in territori di guerra, andando a trattare il conflitto che ebbe luogo in Rhodesia tra il 1964 e il 1979, la cosiddetta "Bush War". La Rhodesia fu uno stato - riconosciuto a livello internazionale soltanto da pochi paesi - autoproclamatosi nel 1965, nel tentativo di sfuggire al suffragio universale che le altre ex-colonie britanniche stavano acquisendo in quel periodo. Una simile decisione diede il via, in un contesto più che mai teso, agli scontri tra le forze del governo "bianco" (che vedevano comunque nelle proprie fila un cospicuo numero di soldati di colore) e due gruppi armati di stampo comunista/marxista: lo Zanla (Zimbabwe African National Liberation Army) di Robert Mugabe e lo Zipra (Zimbabwe People's Revolutionary Army) di Joshua Nkomo.
Oggi basta guardare una cartina dell'Africa per vedere come, in loco della Rhodesia, vi sia lo Zimbabwe: la vittoria delle forze di liberazione portò infatti, dopo una breve transizione, alla creazione del nuovo stato, sotto il pugno di ferro Mugabe, dittatore sanguinario dello sfortunato paese africano, morto soltanto nel 2019. Ma questa è, appunto, un'altra storia: Rome in questo lavoro si concentra invece sull'epica del vinto, ovvero gli eredi dei coloni europei, in un concept che - complice l'edizione "speciale" - assume i tratti di un vero e proprio amarcord multimediale. Un cofanetto stampato in 1000 copie contenente due cd, un 10'', poster, cartoline della Rhodesia etc.
L’album è affresco corale a più voci, un “discorso indiretto libero” bipolare, pieno di registrazioni d’epoca che compaiono come fantasmi (“Hate Us And See If We Mind”), in cui il suo martial-folk incarna la voce del fanatismo rhodesiano (“One Fire” e “Hate Us and See If We Mind”) mentre la sua anima più cantautorale funziona come la voce della coscienza di un popolo che ammette la sconfitta di un’impresa disperata. “The Ballad Of The Red Flame Lily” è emblematica da questo punto di vista: si tratta di una bellissima e malinconica ballata il cui il musicista, come sua abitudine, dona voce ai reduci della guerra, agli sconfitti della Storia. Si cammina tra i fallimenti degli uomini, in una giungla ormai in fiamme, mentre ci si continua a ripetere “And it will shame us now (It was wrong)”. Il tutto avviene, come sempre, nel segno di un mood marcatamente intimista; anche se - novello Salgari - l'artista lussemburghese canta di territori che non ha mai vissuto.
Se in “One Fire”, uno dei brani più travolgenti dell’opera, si afferma la dura corsa verso la battaglia – “one fire fights one fire” - in “The River Eternal” assistiamo, invece, a un delicato spoken-word su cupi archi che ci mostra la dura realtà di una guerra da incubo, un conflitto che ha distrutto e diviso il paese e che sembra non finire mai: “Into the glowing darkness/ We travel the shining black serpent/ That plugs us straight into the heart of this nightmare/ At the end of this river is the end of this war”. In questo brano Reuter sembra richiamare direttamente alcune pagine di "Heart of Darkness" (Cuore di Tenebra) di Joseph Conrad.
Al pari di Flowers From Exile, A Passage To Rhodesia rimane uno dei migliori e più significativi lavori di Rome.

Il mini-album Coriolan, uscito il 26 aprile 2016, è dedicato alla storia del generale Gaius Marcius Coriolanus, con tutti i riferimenti letterari e musicali del caso, che vanno dalla tragedia di William Shakespeare, scritta tra il 1605 e il 1608, sino alla celebre composizione di Ludwig van Beethoven composta nel 1807 per la tragedia di Collin del 1804. Qui Reuter recupera la figura controversa di Coriolanus soprattutto tramite Léo Ferré, cantautore, poeta e scrittore anarchico la cui influenza era stata importante anche in Flowers From Exile.
Caio Marzio, soprannominato Coriolano dopo la sua coraggiosa vittoria contro i Volsci, è il tipico personaggio che ci aspetteremmo di trovare in un disco di Reuter: eroe e uomo politico non incline al compromesso, additato ingiustamente come traditore e nemico di Roma, cui muoverà guerra prima di rinunciare ai suoi propositi di vendetta per salvare la città.
Il lavoro si apre con l’epica marziale di “Investiture”, seguita dal cupo spoken-word sullo sfondo sonoro post-industriale di “Make You A Sword Of Me”, per poi concludersi con la plumbea “Funeratio”, che celebra la sconfitta delle ambizioni sulla pira del sacrificio per il bene comune. Sempre sul tema bellico, troviamo la bellissima “Der Krieg”, prima canzone di Rome a essere cantata completamente in tedesco, il cui testo sembra parlare di realtà non troppo distanti dal nostro presente: “Zaun und mauer und letztlich nach krieg – der völker grausamstes spiel” ("Recinto e muro e infine verso la guerra – dei popoli il gioco più feroce").
Musicalmente il lavoro non presenta particolari novità nello stile e nelle composizioni, con ottimi brani evocativi e a fuoco come “Broken” e l’atmosferica “This Light Shall Undress All”, mentre un episodio come “Fragments” fa emergere sonorità più inclini al post-punk che al neofolk.

Uscito il 26 agosto 2016 per Trisol, The Hyperion Machine mostra un Reuter sempre più abile nello spaziare tra storia e letteratura, in questo caso citando Louis-Ferdinand Céline e il Paul Celan di "Todesfuge".
Il disco prosegue la fase più cantautorale di Rome (con Jacques Brel e Leo Ferrè come numi tutelari) iniziata nel 2009 con Flowers From Exile, ma non mancano in quest’ultimo lavoro epici momenti marziali, memori dei suoi primi brillanti album. Non a caso, nel settembre 2016 viene ristampato in vinile, sempre da Trisol, il suo Ep d’esordio del 2006, come a chiudere un cerchio su di un lavoro che ha avuto nel corso degli anni uno sviluppo e una coerenza invidiabili.
L’album risucchia al suo interno l’Hyperion di Friedrich Hölderlin: una “morbida macchina” che si nutre di romantiche visioni fantasmatiche. Ascoltando la ballata alla Leonard Cohen “Celine In Jerusalem”, come in un’allucinazione per eccesso di morfina, immaginiamo lo scrittore francese, reduce di guerra, passeggiare tristemente per le rovine di Gerusalemme. Paul Celan in fuga che scrive in tedesco, la sua lingua madre, è l’oggetto del brano più coinvolgente del disco, “The Secret Germany (For Paul Celan)”, un perfetto brano neofolk post-industrial che ci trasporta, musicalmente, ai tempi di “Masse Mensch Material”, così come avviene nel cupo finale del brano "Adamas".
I perseguitati di ogni dove, i reduci e gli sconfitti della storia sono da sempre fulcro dell’interesse di Reuter; non a caso, dopo il tributo a Celan, arriva “Die Mörder Mühsams”, stupendo quanto terrificante brano in tedesco dedicato alla morte dell’anarchico Erich Mühsam.
Il lavoro presenta anche una collaborazione con l’artista svedese Joakim Thåström (Imperiet, Peace, Love and Pitbulls) la cui voce profonda fa da contraltare a quella di Reuter in “Stillwell”. Inoltre, è presente anche una cover di una delle canzoni più famose di Thåström, “FanFanFan”, realizzata qui come bonus track.
The Hyperion Machine si conferma un’altra importante tappa nell’evoluzione artistica del musicista lussemburghese, sempre più capace di fondere stili e suggestioni molto varie.

Hall Of Thatch, album pubblicato a gennaio del 2018, è un lavoro ispirato a un viaggio di Reuter in Vietnam. Interessato alla storia e alla cultura del paese, Rome si dedica allo studio delle tradizioni e dei rituali del buddhismo, dei suoi canti e preghiere, così come della sua particolare visione dell'“apocalisse”, vista come un ciclo continuo di creazione e distruzione, un po’ al pari di ciò che viene narrato nella mitologia norrena, così distante dall’escatologia abramitica.
“Hall Of Thatch” è un disco che mette in primo piano voce e chitarra acustica, deviando in parte dal precedente che, complice anche un’ispirata collaborazione con il musicista svedese Joakim Thåström, suonava molto più rock e post-wave dei suoi lavori precedenti.
Qui Reuter guarda, semmai, al cantautorato dark-folk, ma con un approccio ancora più oscuro e metafisico, come se stesse descrivendo il tempo della decadenza e del disordine che precede l’arrivo del Buddha Maitreya. I riferimenti alla spiritualità orientale sono comunque permeati di un approccio tipicamente mitteleuropeo, compatibile con l’origine e la sensibilità culturale di Rome. Si pensi in particolare alla prosa di Hermann Hesse, che sembra aver influenzato molto la visione “orientale” di Reuter.
In realtà il valido singolo apripista “Blighter” non chiarisce fino in fondo la nuova direzione intrapresa da Rome. Il brano vuole essere il trait d'union con il disco precedente. Episodi come “Hunter” e “Martyr”, invece, sono delle vere sorprese, anche per i fan di lunga data: il primo è debitore di una sorta di doom-folk alla Steve Von Till, mentre il secondo echeggia cacofonie alla Swans, attraverso un cantato violento piuttosto insolito per il neofolker lussemburghese. Un uso peculiare della voce si rinviene anche in “Keeper”, con un cantato aspro e rauco che deborda verso una sorta di pianto disperato prima della redenzione finale in “Clemency”. Quest’ultima ricorda un po’ Michael Gira quando imbraccia una chitarra acustica. In brani come “Hawker” e “Prayer” emergono in sottofondo diverse registrazioni sul campo del viaggio di Reuter in Vietnam, come mantra che ci guidano verso oscuri e misteriosi territori dello spirito.

Il fuoco cova ancora sotto le ceneri d’Europa

rometheaderLe Ceneri di Heliodoro (2019) è una poetica meditazione sulla crisi che attanaglia il continente europeo e, per debita estensione, l'intero l’Occidente. Il disco è una sorta di ritorno alle origini verso lo stile martial-neofolk della trilogia realizzata nei primi anni Duemila per la svedese Cold Meat Industry. Al tempo stesso, l’artista lussumburghese ha introiettato le sperimentazioni dei suoi precedenti lavori in una visione lirica sorretta da un robustissimo impianto concettuale.
S’inizia subito con “Sacra Entrata”, un pomposo ingresso trionfale alla Blood Axis dedicato ai fratelli legionari con un lungo testo declamato da Erin Powell (Awen) su sottofondo marziale di tamburi. Il brano si conclude con un recitato femminile, in perfetto italiano, che ci racconta di un poeta, soldato e aviatore, destinato a guidare l’uomo nuovo di novecentesca memoria. Il riferimento a Gabriele D’Annunzio sembra abbastanza esplicito. La successiva “A New Unfolding”, ci invita a entrare in una dimensione propriamente neofolk e non si può non provare un brivido mentre Reuter esclama in un ottimo tedesco “Immer wieder widerstand!”.
Con “Who Only Europe Know” e “The West Knows Best” siamo proiettati nel cuore pulsante dell’album. Il primo brano è una riflessione su come il suolo europeo sia parte del nostro sangue, del nostro retaggio. Al contempo, mai come oggi, il continente rischia di diventare un ghetto. La seconda è una riflessione sull’Occidente, e in particolare su quell’America che “amavamo” e sapeva sempre cos’era meglio per tutti. Ovviamente, traspaiono ironia e melanconico disprezzo per come some andate le cose. Del resto, come potrebbe essere altrimenti? Entrambi i brani erano stati ampiamente rodati e proposti in sede live nelle varie esibizioni nel corso del 2018.
Nell’ispirata “Feindberührung”, Rome invita, con un’attitudine fondamentalmente darkfolk, a insegnare la gioia nella disperazione, riuscendo a rinfocolare oggi lo spirito di band storiche come Sol Invictus e Sonne Hagal. “Fliegen Wie Voegel” chiude la prima parte dell’album (chiamata in italiano “Apertura”) con una canzone in inglese e tedesco dedicata al volo e al coraggio di ardire. Qui Reuter sembra riprendere, in parte, i riferimenti dannunziani presenti in “Sacra Entrata” ma con una visione più romantica che marziale.
La seconda parte del disco (chiamata in italiano “Clausura”) si apre con il singolo “One Lion’s Roar”, che si candida a essere una delle più belle canzoni mai scritte da Rome, sicuramente una delle più coinvolgenti, al pari di “One Fire”, presente in A Passage To Rhodesia. Il ruggito di un leone che riesce a disperdere milioni di pecore è un’immagine certamente forte ed efficace. In sottofondo, sentiamo il campionamento in italiano già presente in “Sacra Entrata”, come a chiudere il cerchio, una sorta di uroboro che si morde la coda sotto le sette stelle dell'Orsa.
Altro punto forte del lavoro è “The Legion Of Rome”, che si apre con “La Fin D’Un Monde”, breve interludio che cita le parole di Bertolt Brecht: "Was dieses Land braucht, ist 20 Jahre Ideologie-Zertrümmerung". Sicuramente, Reuter ha tratto ispirazioni dalle sue visite in Italia per realizzare un’acuta e assolutamente non banale riflessione sul nazionalismo e sui cicli della storia. “Uropia O Morte” è una struggente ballata sul tema delle guerre che hanno insanguinato il suolo europeo. Reuter gioca sul termine Europa e Utopia, ma anche su quell’“Ur” che rimanda a qualcosa di originario e persistente.
Chiude il tutto, lo struggimento marziale di “Desinvolture” che richiama alla memoria le derive di “Take Care And Control”, seminale collaborazione tra Douglas P. e Albin Julius sotto il marchio Death In June.
Siamo di fronte a uno dei migliori lavori di Rome, capace di interpretare alla perfezione certi sentimenti che attraversano il nostro tempo alla luce di una grande e profonda passione per la storia europea.

A distanza di nemmeno un anno il Nostro torna con un altro album. Questa volta Reuter si trasferisce in Irlanda per registrare i nove brani che compongono The Dublin Session, esperimento particolare della sua discografia, che lo vede per la prima volta alle prese con la musica folk irlandese. Tra l’eco di ballate tradizionali e l’uso di strumenti come il bouzouki, l’uilleann pipes e il banjo, Rome ci trasporta in un viaggio affascinante nei paesaggi verdi dell’isola di smeraldo, la terra di Fionn Mac Cumhaill e dei leprechauns. Ascoltando brani come “Antenora”, “Holy Ennui” e “Rakes And Rovers”, immaginiamo pub fumosi di un mondo ormai andato, dove s’intonano ancora antichi canti corali mentre si sorseggiarono pinte di birra scura.

Reuter non si lascia scappare l’anniversario della caduta del muro di Berlino e realizza il 7” commemorativo Hinter Den Mauern Der Stadt. Qui il Nostro, realizza una cover di un famoso brano degli Die Skeptiker, importante punk-band dei tempi della Ddr, coadiuvato da Eugen Balanskat, voce del gruppo berlinese. Il brano è un’acuta riflessione sulla vita dietro il Muro e, in generale, sotto la dittatura comunista.

Il 2019 vede un instancabile Reuter realizzare anche un esperimento molto particolare come Käferzeit. Si tratta di un lavoro strumentale di puro e tradizionale martial industrial, realizzato attraverso un cut-up di registrazioni mixate ad arte. In pratica, si torna ai primissimi e indimenticabil Der Blutharsch, facendo la felicità degli appassionati di certe sonorità elitarie. Il disco, uscito solo in edizione limitata in vinile, è accompagnato da una cartolina autografata e da una frase (in tedesco) del filosofo francese Jean-François Lyotard: "Nur die aesthetische Kategorie des Erhabenen kann das Totalitäre aus der Kunst entfernen" ("Solo la categoria estetica del sublime può rimuovere il totalitario dall'arte"). Sembra che Reuter ci abbia (ri)preso gusto e non sarà l’unica pubblicazione del genere. È prevista una nuova uscita targata M.A.S. (Martial Ambient Series), questa volta sullo sfondo della Parigi sotto l'occupazione tedesca. Il lavoro s’intitolerà Gärten und Straßen citando il titolo del diario di Ernst Jünger pubblicato nel 1942.

Nel frattempo, un inarrestabile Reuter pubblica un singolo con la partecipazione di Alan Averill della band black-metal Primordial. Il 7" è intitolato Ächtung, Baby!, titolo che rievoca il celebre disco degli U2, e anticipa, assieme al secondo singolo Kali Yuga Über Alles, il nuovo album The Lone Furrow. Stilisticamente è un disco in puro stile Rome ma con interessanti derive dovute alle molte voci che qui arricchiscono il suo sound senza mai snaturarlo. La voce dello scrittore, musicista e regista finlandese Aki Cederberg apre il disco con “Masters Of The Earth”, feroce invettiva contro una modernità che si nasconde dietro falsi miti di progresso per strangolare il mondo.
Dopo la bella “Tyriat Sig Tyrias”, presentata nelle note che accompagnano l'album con le parole del poeta Ezra Pound (“Out of all this beauty somenthing must come”), è la volta di “Ächtung, Baby”. Le parole del ritornello da sole valgono un’intera discografia neofolk:

We preserve the fire
We protect the flame
Our Gods eternal
Go by different names

Segue il breve recitato (ma non per questo meno acuto) di “Making Enemies In The New Age”, che si avvale della collaborazione di Joseph Rowland della band doom metal statunitense Pallbearer. Tra citazioni di Orwell e visioni distopiche tristemente realistiche e attuali si crea così il perfetto preludio alla successiva “The Angry Cup”, brano che vede come ospite Adam Darski, meglio conosciuto come Nergal, musicista polacco frontman del gruppo black/death metal Behemoth. Di recente Nergal ha anche solcato inediti lidi folk/country con il suo progetto Me And That Man e qui respiriamo un po’ quell’aria polverosa, cupa e arrabbiata che ci ricorda non poco Nick Cave & The Bad Seeds, quelli dei tempi selvaggi di “The Firstborn Is Dead” sia chiaro. Segue “The Twain”, traccia ispirata agli scritti di Rudyard Kipling, che guarda al Rome più cantautorale e solenne.
La prima parte del disco si conclude con “Kali Yuga Über Alles” secondo splendido singolo tratto dall’album. Tornano la voce e le parole di Aki Cederberg qui supportate da quelle di Reuter e da pesanti ed implacabili tamburi marziali. Il titolo è un riferimento ironico al celebre brano dei Dead Kennedys, “California Über Alles”, mentre il testo è ispirato in parte agli scritti di Ovidio. Assieme a “Ächtung, Baby” è uno dei vertici del lavoro. Due brani che sicuramente rimarranno impressi a fuoco nella discografia di Rome.
La seconda parte del disco si apre con “The Weight of Light”, un recitato ispirato dalle riflessioni di Friedrich Nietzsche. Una traccia densa di visioni mistiche che si agitano su un tappeto ambient prima di sfumare sulle delicate note di piano di “The Lay of Ira”, traccia le cui parole emergono dalle suggestioni dello scrittore islandese Snorri Sturluson. Quest’ultima vede la partecipazione di J.J. (V. Wahntraum) cantante degli Harakiri for the Sky qui a dar man forte al lussemburghese.
“On Albion’s Plan” s’immerge di nuovo nelle suggestioni irlandesi alla base delle melodie folk dell’album “The Dublin Session” mentre “Palmyra” è, assieme ai due singoli, un altro pilastro del lavoro. La canzone che vede la partecipazione di Laure le Prunenec (Igorrr/Rïcïnn) è dedicata al sito archeologico violato dai miliziani jihadisti nel vano tentativo di cancellare le tracce di un mondo antico e fieramente pagano/euroasiatico che aveva proprio in quelle zone una delle sue culle millenarie. La canzone è recitata in perfetto francese e riesce a creare un’atmosfera al tempo stesso triste ma solenne come l’epitaffio di un mondo antico che risorge sempre dalle proprie ceneri.
Chiude il tutto “Obsidian”, un bell’omaggio a Ernst Jünger cantato in tedesco. Segue “A Peak of One’s Own”, sorta di outro che riprende il tema del Kali Yuga, dell’età oscura in cui viviamo. È un tempo ciclico in cui contrappore al mare d’ignoranza, confusione e isteria un sorriso dall’alto, in piedi sulle rovine di questa modernità al tramonto.

Reduce da due dei migliori album della sua carriera, Reuter torna nel 2021 con un nuovo lavoro. Parlez-Vous Hate? soddisfa appieno le alte aspettative con un disco diretto, di puro e combattivo folk-rock. Anche qui Rome si scaglia contro i paradossi e la degenerazione dei tempi moderni. Il nuovo album può essere considerato parte di una trilogia su una modernità in pieno disfacimento, ripiegata su sé stessa.
Ad essere presa di mira qui è la censura generata dall’ossessione per il politicamente corretto. A partire dall’omonima traccia (che segue il breve intro di “Shangri-Fa”) Rome si scaglia contro quell’approccio culturicida e fondamentalista che dai paesi anglosassoni si è imposto in quasi tutto il mondo Occidentale. La successiva “Born In The E.U.” è un omaggio alle proprie radici europee e una sorta di tributo al Bruce Springsteen di "Born In The Usa", che nasconde una certa ironia. Rome da “patriota critico” qui canta dell’Europa facendone emergere tra le righe le contraddizioni del progetto burocratico/finanziario dell’Unione europea. La vera sorpresa del disco è “Panzerschokolade”, una decisa virata verso un martial industrial pregno di spirito iconoclasta non conforme. Il video del brano sembra rimandare a un incubo chimico, a tratti psichedelico, un bad trip con inquietanti colpi di tosse finali. 
In sintesi, “Parlez-Vous Hate?” è una raccolta di brani brevi e molto diretti, espliciti nelle critiche verso il nostro presente, senza mai cadere nel nichilismo o nella rassegnazione. Musicalmente il disco risente un po’ dell’esperienza irlandese di Reuter, immortalata nelle session dublinesi.

Sempre nel 2021 Reuter pubblica un nuovo album intitolato Hansa Studios Session II. Si tratta di una nuova registrazione dal vivo realizzata nel famoso edificio di Köthener Straße. A dar man forte al musicista lussemburghese troviamo Vlad Purice al basso, Eric Becker alla chitarra e Laurent Fuchs alla batteria e percussioni. L’intento questa volta è quello di presentare soprattutto nuovi brani tratti dai recenti album Le Ceneri di Heliodoro (2019) e The Lone Furrow (2020), due veri e propri capolavori che spiccano nella ricchissima discografia di Rome.
Come a creare un fil rouge con il passato, la seconda parte dell’album si apre con una delle primissime canzoni scritte da Reuter. “Like Lovers” era apparsa sul primo Ep di Rome, “Berlin”, pubblicato nel lontano 2006 per la Cold Meat Industry. Qui i piani di lettura s’intrecciano. C’è un omaggio a Berlino, la storia di due amanti sullo sfondo delle vicende europee del Novecento e soprattutto il verso che declama in piedi: “Compromise? – Compromise – is not possible!”. Che sia questa l’URropia cui tendere? In ogni caso, questa versione di “Like Lovers” si erge sulle rovine di chitarre distorte e vale da sola l’acquisto dell’album.
Hansa Studios Session II presenta ottime versioni di alcuni brani essenziali della discografia più recente dell’artista lussemburghese. A metà tra una compilation e una session live, l’album restituisce una visione viva e adrenalinica di un cantore dei nostri tempi. Reuter è un vero ribelle che non ha paura di sfidare l’ideologia dominante mantenendo sempre la schiena dritta. È “musica alternativa” si sarebbe detto una volta. Rome si conferma il cantore ideale di uno dei momenti più plumbei dell’Occidente e dell'Europa ma sotto le ceneri e le rovine sembra ardere ancora la voglia di riscatto.

Un paio di ariosi singoli usciti durante l’estate del 2022 preannunciano il ritorno di Reuter. Un nuovo disco, intitolato Hegemonikon, giunge puntuale a fine autunno, lasciando trasparire la voglia di spostare ulteriormente alcuni equilibri del progetto: il musicista lussemburghese si avvale di un collaboratore ai synth (Tom Gatti), mettendo momentaneamente da parte le recenti ballate elettriche di "Parlez-Vous Hate?", per fare spazio a passaggi più glaciali, in cui il tradizionale approccio neofolk di Rome incontra la new wave. Il risultato finale è un lavoro discreto ma comunque di transizione, dove qua e là si avverte una certa mancanza di coraggio nel tentare soluzioni più spregiudicate nonché originali, considerando l’entrata in gioco della componente elettronica.

La guerra in Ucraina

L'invasione russa dell'Ucraina del 2022 spinge Jérôme Reuter alla registrazione di un concept album spiccatamente filo-ucraino che rientra perfettamente nel solco delle sue precedenti riflessioni sul continente europeo. La lotta per la libertà e la difesa della democrazia contro la tirannide sono di certo i pensieri primari di Gates Of Europe, Lp nato con le intenzioni migliori, spinto da una sincera partecipazione verso le indicibili sofferenze del popolo ucraino. Le città che occupano da più di un anno i telegiornali di tutto il mondo (Mariupol, Kharkiv, Kherson, ecc) diventano le porte dell’Europa, simbolo di un’idea diversa di comunità e di tolleranza verso le minoranze.

La musica del progetto Rome mantiene le sue consuete coordinate neo-folk, a volte con un sound più semplice e immediato quasi a ricercare un inno strappa lacrime. La cosa riesce perfettamente col singolo “Yellow And Blue”, candidato a divenire la colonna sonora pop dei martiri ucraini. “Gates Of Europe” punta proprio sulle corde della commozione e a volte ci riesce aumentando questa sensazione ascolto dopo ascolto, creando un muro contro muro continuo tra bene e male (“How Came Beauty Against This Blackness”, “The Black Axis”) e ricordando i caduti (“Ballad Of Mariupol”) con ballate tradizionali e testi struggenti.

Se l’intento di Jérôme Reuter è certamente lodevole c’è da chiedersi se schierarsi in modo così netto sia funzionale al suo ruolo di artista. Come lui stesso ha più volte detto in varie interviste, l'artista non dovrebbe svelare tutto - ma lasciare un senso di mistero sulle proprie idee - magari mantenendosi su principi universali di libertà e uguaglianza senza catapultarsi così verso l'attualità. Senza nulla togliere a chi combatte giustamente ed eroicamente per la proprio terra, forse schierarsi così nettamente tra due imperialismi (quindi fondamentalmente tra due mali) non giova a rendere universale il messaggio di pace e fratellanza che certamente è quello che a Reuer sta più a cuore.

 

Contributi di Mauro Roma ("Confessions d'un Voleur d'Ames", "Masse Mensch Material" e "Flowers From Exile"), Lorenzo Pagani ("Die Aesthetik Der Herrschaftsfreiheit" e "A Passage To Rhodesia"), Matteo Meda ("Hell Money"), Paolo Chemnitz ("Hegemonikon"), Valerio D'Onofrio ("Gates Of Europe")