Gas

Gas

Lampi nel vuoto

Wolfang Voigt è il paladino dell'underground tedesco a cavallo tra anni Novanta e Duemila. Il 2008 segna la pubblicazione di "Nah Und Fern", mastodontica raccolta dei quattro dischi firmati Gas. Cogliamo l'occasione per tracciare la storia di questo manipolatore che ha saputo aggiornare l'ambient e l'elettronica al tempo della techno. Un'opera omnia di oltre quattro ore per ridefinire in musica un concetto: il vuoto

di Alberto Asquini

Dice Voigt della sua produzione: "Questa è musica senza inizio né fine".
Wolfgang Voigt, a vederlo girare per strada, potrebbe apparire come una normalissima persona di mezz'età. Come si suol dire, però, "l'abito non fa il monaco". Non è infatti uno come tanti altri: paladino dell'elettronica tedesca anni Novanta, è l'artefice della seminale Kompakt, nonché autore raffinato ed eclettico. Difficilmente si troverà mai sotto i riflettori della critica per un disco mostruoso oppure per un insuccesso senza appelli. Pare uno di quegli uomini destinati perennemente alla penombra, uno di quelli le cui opere passano inosservate, eppure risultano fondamentali.

In effetti, a ben guardare il suo curriculum, si viene a scoprire come Voigt, dall'aspetto vagamente new romantic, nella sua carriera artistica si sia dato da fare come pochi tra numerosi progetti principali e secondari. Un'attività che ha avuto inizio nei primissimi anni Novanta. L'elettronica, al tempo, pulsava viva come non mai, innumerevoli erano gli scambi e le collaborazioni tra anime musicali diverse, incontri che favorivano l'emergere di nuove sonorità, di nuove commistioni tra generi apparentemente agli antipodi e che finivano poi col fondersi in un unico magma.
Ed è proprio da qui che Voigt parte. Districandosi dalle migliaia di produzioni dell'epoca, e da quello che rappresentavano Berlino e la Germania per quanto riguarda i suoni sintetici, il quarantenne tedesco seppe far emergere un'anima nuova alla musica elettronica. Un'anima fatta di dolci pulsazioni techno, droni che scorrono impercettibili, fasci sonori cesellati in un moto lento ma costante. Ambient, techno, avanguardia e sperimentalismo rappresentano le colonne sulle quali si basa la musica di Voigt nel suo progetto più affascinante e misterioso: Gas.

Nel 1996, dopo una lunga gestazione, esce per la Mille Plateaux, la sua opera prima, intitolata semplicemente Gas. In oltre un'ora nella quale si susseguono sei tracce senza titolo, Voigt mostra subito di che pasta è fatto. Composizioni lunghe (la più breve supera i sei minuti), che tratteggiano suoni cosmici. Quello che traspare sin dalle prime note è l'effetto plastico assunto dalle note, accentuato dallo scorrere, perenne e a tratti impercettibile, di beat che paiono rincorrersi in tutta l'opera. Se la prima traccia - un drone velato da una fitta cortina di nebbia - svela il lato ambientale di Gas, nei quattordici minuti della seconda viene palesata l'essenza dell'opera: stratificazioni sonore, riverberi di aurore boreali, battito dolce eppure ossessivo senza soluzione di continuità.
Dopo questo vero e proprio capolavoro di ipnotismo sonico, riappare il lato meno vibrante nelle note della terza traccia: distensioni che si moltiplicano in un moto infinito, intervallate da qualche arpeggio di chitarra, quasi alla maniera di Eluvium. La sensazione è comunque che Voigt, risultando comunque magistrale anche nei brani meno spinti, dia il meglio di sé quando c'è da premere l'acceleratore. Ecco allora che negli undici minuti di "Gas #4" si tornano a udire ammalianti beat sostenere una melodia melliflua, che scorre lenta, sorretta da inafferrabili glitch che fendono l'aria. Le melodie astrali, come nei migliori Port-Royal, illuminano a giorno la quinta traccia in un gioco lungo quasi un quarto d'ora di tira e molla che ondeggiano vibranti, note che progressivamente vanno ovattandosi, proiettate verso suoni colmi e inebrianti stratificazioni.
Voigt pare un incantatore di serpenti, seducenti melodie si rincorrono nella sesta traccia che chiude l'album: un caleidoscopico ritratto del giorno che avanza illuminando la strada per quello che, a conti fatti, non si può non definire un album sublime.

Passa meno di un anno, siamo nel 1997, ed è già pronta la nuova fatica del manipolatore tedesco. Le sette tracce che compongono la nuova opera, per una durata totale pressoché uguale all'album di debutto, segnano un'inversione di tendenza rispetto al self titled. Se infatti una delle peculiarità dell'opera prima era quella di alternare piéce ambientali a brani che facevano dell'amalgama di beat e melodie cosmiche la loro spina dorsale, ecco che in Zauberberg, se escludiamo l'ultima traccia - gioiellino di drone music di trasparente bellezza nel suo incedere mattutino - l'impostazione complessiva è piuttosto diversa. Non c'è infatti brano che non sia sorretto da un pulsare notturno incessante e claustrofobico. A differenza del debutto, infatti, dove si respiravano melodie ariose, qui Voigt ci immerge in un vuoto urbano, le note si fanno pesanti e il senso di asfissia stringe il cuore.
La seconda traccia, nei suoi quattordici minuti, si stende a macchia d'olio, avanzando sorretta da beat martellanti, senza lasciar minimamente intravedere traccia di luce. E se "Zauberberg #3" si svolge proponendo un sound decisamente meno cupo, puntellata da riverberi spettrali, il brano successivo, immerso in un mare di pioggia, mostra il lato dark di Gas. Un austero minimalismo sonico rincorre un battito ossessivo e tremante che si riverbera su qualche nota di chitarra. Negli otto minuti di "Zauberberg #5" si delineano i contorni di un paesaggio industriale, di macchine al potere, di nuvole nere che non accennano a diradarsi. Ma la musica di Voigt pare giungere in questo album alla sublimazione del lato oscuro dell'esistenza. La penultima traccia è un'immersione in un mare catramoso, nero e denso, dal quale pare impossibile la fuga. Ma è ora che Gas stupisce l'ascoltatore piazzando un traccia finale le cui note sembrano inseguire i raggi di sole in lontananza. Dopo aver teorizzato il profilo oscuro della realtà, si torna a galla.

Il 1999 è l'anno di Königsforst. Nel terzo lavoro di Voigt scompaiono i deliri ambient-claustrofobici del precedente lavoro per concedere spazio a piéce decisamente meno opprimenti, che aprono la melodia a spazi cosmici infinti, dei quali mai si potranno cogliere coordinate od orizzonti. È il caso della meravigliosa altalena sonora del secondo brano: qualche arpeggio di chitarra si insinua tra stratificazioni sonore cesellate con cura e sorrette da un morbido pulsare. I droni si spiegano circolarmente nei favolosi quindici minuti di "Königsforst #5", l'armonia si apre all'orizzonte svelando note dal gusto classico, in un moto senza tempo. E se nei dieci minuti finali, letteralmente da brividi, si respirano i profumi e i colori delle terre nordiche, il fluire sinistro della terza traccia riporta la memoria alle visioni di Zauberberg.
Voigt sa districarsi con grande maestria nel comporre brani che hanno sempre qualcosa da dire. Non c'è un suono già ascoltato, né una nota fuori posto. Teorizza un suono che non conosce limite, che si lascia trasportare dalle onde con fredda razionalità. Quella di Gas è una musica cosmopolita, che parla e interagisce con ciò che gli sta attorno, è ghiaccio e sole, giorno e notte. Scandagliando il remoto subconscio dell'esistenza, l'autore teutonico riesce nell'impresa di dipingere un quadro difficilissimo eppure di una nitidezza così maestosa da rasentare la perfezione. Il battito animale della quarta traccia ne è esempio fulminante: note di chitarre solamente accennate, solennità cupa, droni che si piegano gli uni sugli altri. Ancora una volta: la bellezza al servizio della musica.

La parabola di Gas si esaurisce con Pop. L'ultimo album del poker piazzato da Voigt esce nel 2000, oltre un'ora di melodie in sette brani. A ben sentire, pare che la scelta di intitolare Pop la nuova opera non sia del tutto casuale. L'album presenta melodie decisamente più accessibili, velate da un chiarore primaverile. Lo spazio dedicato ai beat viene praticamente azzerato in favore di melodie liquide, field recording e droni che non procedono mai in maniera cupa, ma sempre in un moto placido e tranquillo. Vera e propria summa dei tre dischi precedenti, Pop si insinua nell'animo come una visione d'un alba primaverile: il sole che sorge lentamente, una fresca brezza alle spalle, qualche fronda che ondeggia e voli d'uccelli. "Pop #2" tratteggia lo splendore del mare al mattino, continui sciabordii invadono l'ascoltatore a ondate continue, volgendo la direzione a più riprese. "Pop #3" pare una radiografia, cerebrale e solenne, che nel suo evolversi si apre al cosmo. Un battito dai tratti non così distanti da quelli dub caratterizza invece l'andamento della quarta traccia, che vive di lenti saliscendi.
Le visioni astrali, immerse nel liquido amniotico, di "Pop #5" fanno da preludio alla splendida penultima traccia. Nove minuti di ossigeno allo stato puro, nei quali si rincorrono onde gigantesche, che si rovesciano al rallentatore sul bagnasciuga. L'albumsi chiude con i quindici minuti di "Pop #7": ideale compendio delle opere pubblicate, l'ultima traccia si insinua nell'ascoltatore in modo irresistibile. Vero e proprio gioiello di ambient e soft-techno, questo squarcio solare dirada le nebbie della penultima traccia rendendo l'aria limpida e tersa.

Così, nel breve arco di quattro anni, si conclude una folgorante parabola in oltre quattro ore di musica, pubblicata dalla Kompakt nel 2008 nella raccolta Nah Und Fern. Gioielli di sfolgorante bellezza, le quattro opere pubblicate tra il 1996 e il 2000 hanno segnato, seppur sotterraneamente, un'epoca.

Poi, 17 anni dopo, arriva la sorpresa. Un nuovo disco, Narkopop (2017), per un loop infinito, uguale a vent'anni fa. Le sfumature, certo. Però 80 minuti che passano in un baleno, non un filo di sbadigli, nulla di tutto ciò. Il solito viaggio, vuoi in territori più astratti e ambientali, vuoi in altri dove la colonna portante del beat è (quasi) incessante. Pare andare col pilota automatico, sia che si tratti di aprire il battito a scorribande senza fine, sia che si tratti di modellare droni all'ombra delle fronde.
È il Gas di sempre, che mantiene una fortissima impronta naturalista. È "Pop" e "Zauberberg" (così come l'omonimo e "Königsforst") messi insieme, gli spazi per l'ambient più dark e malata è limitato ma forse più sottile, i layer si sfiorano gli uni con gli altri, senti l'odore del muschio, della natura che si riconnette con se stessa.
I maestosi e commoventi sette minuti di "Narkopop 5", tra clangori, trombe quasi strozzate e incedere tonante, inscenano mondi vergini e valli incontaminate. Non meno celestiale "Narkopop 10", infinita cavalcata (l'ideale contrappunto di "Pop 7") che levita negli ultimi minuti in direzione cielo. E, nel mezzo, le brume sinistre rinforzate da un 4/4 vellutato della seconda traccia, la dream-ambient di "Narkopop 3", il batter d'ali, i microbeat a pioggia e synth ora sinistri ora celesti delle altre.

Il perenne sentirsi in uno stato di abbandono, di fase rem dell'ascolto, di narcolessia. Questo Gas fa da oltre vent'anni, lo hiatus di 17 anni non si sente. Che, a volte, si rimanga assolutamente immobili non è poi così un male. D'altronde, come parlano i suoi loop, il tempo è pura fantasia.

Rausch (2018) è ancora una volta un invalicabile percorso sonoro, artificialmente diviso in sette parti. Un’esperienza di ascolto da vivere senza soluzione di continuità come un sentiero oscuro e ripetitivo tra ipnosi e magia, tra techno e viaggio nella Foresta nera, tra “intossicazione” (traduzione dalla parola tedesca raush) - intesa più che altro come estasi febbrile nel perdersi in una natura magica - e instancabili ritmi marziali.
E’ un Wolfgang Voigt che si autocita continuamente, che si crogiola nella sua grandezza, diventando quasi un compiaciuto epigono di se stesso; il ripetersi della sua ricetta non nasconde però quanto ampia sia la sua capacità - in alcuni tratti dell’album - di imbastire stratificazioni sonore imponenti con battiti ossessivi e inquieti che confermano quanto Gas sia in grado di dare il meglio di sé nei momenti di maggiore maestosità. Questa si raggiunge, ad esempio, nella marcia forzata di “Rausch 2” con lievi percussioni di piatti o nei ritmi tribali di “Rausch 5” con accenni di trombe che si perdono nel nulla. Il muro sonoro è persino opprimente in “Rausch 4”, la traccia più breve ma paradossalmente più potente e inquieta. Quel senso di requiem, spesso presente nella musica di Voigt, qui è più che mai percepibile; quasi un’urgenza esistenziale ben udibile nei sette minuti di “Rausch 6” o negli archi del finale “Rausch 7”.
Probabilmente il ripetersi potrebbe essere il limite di Rausch, che in fin dei conti appare quasi come un’appendice ben fatta del precedente Narkopop. Certamente meticoloso come pochi nei dettagli sonori - caratteristica che ne consiglia l’ascolto in cuffia - e coerente con l'idea di musica "senza inizio né fine", Voigt sembra aver penalizzato le sue buone idee con un’eccessiva lunghezza (60 minuti); probabilmente una maggiore sintesi avrebbe giovato al progetto.

Contributo di Valerio D'Onofrio ("Rausch")

Gas

Discografia

Gas (Mille Plateaux, 1996)

8

Zauberberg (Mille Plateaux, 1997)

8,5

Königsforst (Mille Plateaux, 1999)

7.5

Pop (Mille Plateaux, 2000)

8

Narkopop (Kompakt, 2017)

8

Rausch (Kompakt, 2018)

6,5

Pietra miliare
Consigliato da OR

Gas su OndaRock

Gas sul web

Myspace
Foto