Jean Michel Jarre

Jean Michel Jarre

Un sogno lungo una tastiera

Dalle sofisticate armonie sintetiche degli esordi ai faraonici kitsch-show degli ultimi anni, Jean Michel Jarre è riuscito a imporre uno standard mondiale di elettronica melodica, decisivo per lo sviluppo del movimento, e capace di lasciare ai posteri almeno due capolavori, come "Oxygene" ed "Equinoxe"

di Alessandro Fantini

Il piccolo lionese che si affacciava sul balcone di casa al passaggio delle orchestre circensi; il bambino assorto nel devoto ascolto degli assoli del jazzista Chet Baker; l'imberbe pittore che si lambiccava con campiture stese su tele silenziose sognando i colori di onde musicali; l'acerbo chitarrista militante in un'improbabile rock band di liceali non lasciava certo presagire quel destino di nume tutelare del synth-pop, fenomeno musicale di massa che avrebbe segnato gli ultimi decenni del ventesimo secolo, al quale il suo nome continua ancora oggi a essere associato, tanto in senso dispregiativo che laudativo.

All'anagrafe, quella di Jean Michel Jarre sembrerebbe la tipica vita del figlio d'arte predestinato a calcare le orme paterne, se non fosse che Maurice Jarre l'avrebbe abbandonato all'età di cinque anni per seguire a Hollywood la sua carriera di compositore di colonne sonore e rifarsi una seconda famiglia. In qualche modo sarà l'assenza della figura paterna a evitare che Jarre ne assimili passivamente l'ascendente artistico, lasciandolo libero di avventurarsi in solitaria nei territori inesplorati delle avanguardie musicali così distanti dal sinfonismo classico delle più celebri partiture del genitore (su tutte quelle per "Lawrence d'Arabia" e "il Dottor Zivago"), e alimentando al contempo quella vena melanconica e mistericamente introspettiva che diventerà la chiave dominante della sua opera matura. Non a caso quella per la musica è in origine una fascinazione che nasce in funzione del rigetto della concezione classica della notazione accademica. Insofferente alle pedantesche lezioni di piano classico che gli venivano impartite in età scolare, dalle performance dei sassofonisti jazz Harchie Sheep e John Coltrane alle quali assisteva insieme alla madre nel club parigino "Le Chat-qui-Peche", Jarre apprenderà invece come la musica possa tradurre in maniera irriflessa stati emotivi e suggestioni visive senza il supporto di tecnicismi e testi cantati. Trova così un primo spazio di libertà creativa nella pittura esponendo quadri ispirati all'astrattismo di Pierre Soulages e al surrealismo di Joan Mirò e Yves Tanguy nella galleria di Lione "L'Oeil Ecoute" ("l'Occhio ascolta" una definizione che ben si attaglia al futuro stile "jarriano"), e nella musica rock che negli anni 60 si faceva veicolo di istanze anticonformiste, suonando la chitarra nei gruppi rock Mystère IV e The Dustbins. È la simultaneità di queste due pulsioni creative a stimolare la ricerca una metodologia espressiva volta a risolverne l'apparente inconciliabilità sotto il segno di una nuova forma di sinestesia ancora da inventare. Sulla scia di Eric Satie, John Cage e Terry Riley, dapprima Jarre sperimenta con nastri suonati al contrario o mescolando i suoni della chitarra con quelli di flauti, pianoforti preparati, percussioni, effetti da rumorista, per poi passare alle radio e a rudimentali dispositivi elettronici.

Nel 1969 questa ostinazione a sconfinare dalla "ridotta" della musica tradizionale gli apre infine le porte del "Groupe de Recherches Musicales (GRM)" di Parigi fondato da Pierre Schaeffer nel 1958, guru della della "musica concreta" che al cerebralismo della composizione scritta oppone l'iperrealistica potenza evocativa del suono puro. La figura di Schaeffer viene a colmare il vuoto artistico lasciato dal padre naturale, celebrando i natali della carriera di compositore di Jarre, che nello stesso anno darà alle stampe il suo primo 45 giri di musica "concreta": sulle facciate del vinile "La Cage" e "Eros Machine", con le loro micromelodie singhiozzanti e metalliche soffocate da gemiti orgasmici, aritmie percussive e ragli di ingranaggi (che anticipano nel codice sonoro le atmosfere biomeccanoidi dei quadri di H.R. Giger) si presentano come ideali manifesti di una nuova quanto estrema concezione estetica fondata sul "Nullpunkt" della musica convenzionale, risospinta in quell'oscuro utero cosmico in cui l'unica differenza tra il rumore e il suono risiede nell'intenzione con la quale viene prodotto. Il singolo vende una manciata di copie e, come avverrà anche per il successivo album Deserted Palace del 1972, circoscrive la sua importanza all'essere il proemio in sordina a quella che diverrà in seguito un'inclinazione sistematica a modellare involucri atmosferici mediante ingegnosi puzzle di effetti (precorrendo la scuola "noise music") nei quali poter incapsulare eterei ritornelli da easy listening.
Di lì a due anni, la nuova vena stilistica corroborata dall'uso esponenziale di primitivi sintetizzatori scoperti presso il Gruppo di Ricerca, come l'Ems Synthi Aks e il celeberrimo Moog modular, si esprimerà in quella che è la prima composizione per strumenti elettronici ad avere l'onore di accompagnare un balletto d'opera in sette movimenti, ispirata ai colori dell'arcobaleno e messo in scena al Palais Garnier di Parigi nel 1971.
Sebbene la versione completa di "AOR" non sia mai stata pubblicata, è ragionevole supporre che la struttura risentisse della lezione di Karlheinz Stockhausen (il cui studio di Colonia Jarre frequenta nel 1968), imperniata su sinuose dissonanze e cangiantismi timbrici e tonali di inviluppi, come si evince dal movimento "BLEU" eseguito per la prima volta 31 anni dopo durante una sessione estemporanea al festival di Bourges.

Neanche Deserted Palace, primo album solista pubblicato l'anno dopo, più che altro una sorta di "libreria" di motivetti da videogame ante litteram, samples di effetti e jingle traballanti e stucchevoli suonati su un Ems e un organo Farfisa, si sottrae dall'essere nulla più che un mosaico di esperimenti che incubano tracce di suite future come "Windswept Canyon" con il suo andante epicamente nostalgico e i suoi refoli di vento siderale profetici di Oxygene, o "Music Box concerto", ove s'intravedono i germi melodici di "Equinoxe 8" e "Magnetic Fields 2".
Nello stesso solco si collocano anche i temi composti quell'anno per la colonna sonora del film di Jean Chapot "Le Granges Brulees", dove ricorrono ancora una volta grezze ariette pseudo-romantiche caracollanti tra ronzii e friniti elettrici, e persino un estratto di "Windswept Canyon" ribattezzato "L'Helycopter" (a sancire un'attitudine al riuso che più tardi diverrà quasi una prassi per Jarre), sul quale si staglia soltanto la sconsolata marcia di "La Chanson des Granges Brulees", nella quale per la prima volta una voce femminile rintuzza la frase melodica con vocalizzi angelici.

Quasi a voler esorcizzare l'ostracismo commerciale al quale questi lavori esplorativi lo condannano, negli anni che lo separano dall'exploit internazionale di Oxygene, Jarre accetta di misurarsi con il formato della canzone scrivendo testi e musiche per Christophe, Françoise Hardy, Gerard Le Norman e Patrick Juvet. "Le Mots Bleus" (traduzione: "Le parole blu"), scritto per Christophe e apparentemente dedicato alla futura compagna di vita Charlotte Rampling, oltre a riaffermare la dimensione sinestetica entro la quale si articola la gestazione della sua imminente sintassi audiovisuale, rappresenta anche l'unico vertice creativo di questo breve detour da paroliere al quale Jarre farà ritorno (in maniera opaca e disincantata) solo nel 2000 con l'album Metamorphoses. Con la direzione dello spettacolo messo in scena per il concerto di Christophe all'Olympia gli viene però data l'occasione di collaudare la sua idea "circense" e "felliniana" delle esibizioni live che avrebbe messo in cantiere in maniera ben più magniloquente negli anni 80: in particolare il pianoforte che si libra in volo durante la performance del cantante richiama le scene oniriche concepite da Salvador Dalì nel 1945 per il film "Spellbound" di Alfred Hitchcock.

Ma nel 1976 il piccolo studio allestito tra le mura della propria cucina è ormai pronto per la creazione dell'opus magnum. È il maitre a penser dell'hardware, il tecnico del suono e musicista Michel Geiss, contattato dopo una sua conferenza sulla "sintesi analogica", a soccorrere l'ardito ventottenne che con la sua consulenza predispone il palinsesto sonoro della prima suite concepita ed eseguita per tastiere e interfacce analogiche.
Nel corso dei 41 minuti della suite, registrata su un multitraccia a otto piste, l'aeriforme paesaggio sonoro di Oxygene (che d'ora in poi racchiuderà la cifra dello stile jarriano) si disvela nella fluttuante stratificazione verticale dei suoni vaporosi del VCS3, dei sovrannaturali cori magnetici del Mellotron (strumento dal brevetto italiano) dell'A.R.P e del Ems Synthi Aks. L'avveniristica versatilità dell'Aks (una sottile tastiera che comparirà in quasi tutti i successivi album fino a Metamorphoses) gli permette di emulare lo gnaulio umanoide del Theremin nella prima e terza parte, uno dei primi gioielli della strumentistica elettronica inventato dal russo Leon Theremin nel 1927, che Jarre utilizzerà dal vivo a partire dall'"Oxygene tour" del 1997. Quello che in "Windswept Canyon" agiva come traduzione "concreta" di uno stato auditivo e visivo ottenuta per mezzo di un'ingenua riproduzione artificiale del sibilo dell'aria, a suggerire lo spasmodico refluire del vento attraverso le viscere della terra (presago della musica di commento-evocazione della "ambient" che sarebbe stata codificata l'anno dopo da Brian Eno), sin dal primo atto di Oxygene si dilata invece a una più raffinata e coerente allegoria di una condizione panteistica contenuta nel tema dell'ossigeno inteso nel suo valore di intermediario elementale tra le componenti "presocratiche" del pianeta: aria, terra, acqua, fuoco. Un panismo cosmico derivante dal Dna della sua formazione culturale di studente appassionato dello "Sturm und Drang", di quella filosofia idealistica e goethiana afferente al motivo della sensucht, del panismo nordico di Novalis e Brentano, interesse confermato tra l'altro dallo studio comparativo sul "Faust" di Berlioz e Goethe realizzato per la sua laurea in lettere.
I sei movimenti nei quali si articola l'opera, reminiscenti di quelli del balletto fantaecologico "Aor", scandiscono, sui passaggi che fungono da transition tracks (la più efficace quella presente tra la prima e la seconda parte con l'entrata in delay degli ululati siderali su un frinire pulsante di pulviscoli gassosi) l'evoluzione di un vitalismo ingenito in una fenomenologia mistico-organica, complice tanto di una "metafisica melodica" animata da essenziali motivi musicali che progrediscono nel traslato sonoro di forme viventi allo stato procariote, espresso a partire dall'attacco della prima parte, costruita su glaciali pulsazioni in crescendo al quale l'inserimento cosmico-nostalgico dell'Aks aggiunge un timbro di soprannaturalità e di poetica trascendenza; quanto di uno spirito di allusione visiva perseguita sulla scorta delle risorse pittoriche di effetti ambientali, potenziati dal riverbero dell'Ems e dell'eco del Revox, non più relegati al rango di accessori atmosferici (come l'ansito del vento in "One Of These Days" e "Shine On You Crazy Diamond" dei Pink Floyd), bensì di autentiche propaggini impressionistiche del lirismo in nuce nel leit motiv. Esemplari in questo senso il pullulare di fischi abissali che amplificano la sovratensione accumulata dal sordo martellio del basso e il fraseggio misterico che introduce all'esplosione del "main theme" della seconda parte; gli spiracoli sincronizzati in corrispondenza del termine della battuta chiave di cinque note nella quarta, misticheggiante variazione del più disimpegnato riff di "Pop Corn" di Gershon Kingsley; il geniale accostamento che apre e chiude la sesta parte, di ascendenza coloristica, tra il pigolio echeggiante dei gabbiani e lo stesso refolo ventoso che si tramuta nella risacca del mare contrappuntando la strofa come uno strumento autosufficiente, tanto che solo al termine del brano, isolando i due effetti, è possibile riconoscerne la natura di semplici "noises", tinte che si inverano al contatto dell'una con l'altra, proprio come accade nei quadri di Hartung e Soulages.
A un ascolto più attento, l'intero telaio armonico e tonale di Oxygene si configura infatti quale sorvegliata trasposizione degli accostamenti tra bande di colore e campiture di diversa tonalità, trattati come frequenze cromatiche capaci di suscitare l'idea del "mare", dell'"aria", della "terra", del "cielo". La copertina di Michel Granger, un globo terrestre scuoiato a rivelare un teschio umano, (quadro pre-esistente al disco e acquistato su suggerimento della Rampling), farà sia da contenitore grafico che da amplificazione plastica al portato visionario dell'album, fornendo una traccia di lettura simbolica dell'opera che ne incanala l'astrazione poetica nella macabra denuncia della questione ambientale che sarebbe diventata di stringente attualità solo nei decenni successivi. Le armonie disincarnate e volatili di "Oxygene part 4" e "Oxygene part 6" suonano come epitaffi a quell'armonia perduta tra umanità ed ecosistema che tornèrà a essere un soggetto ricorrente nella musica di artisti nordici come Björk e i Sigur Rós.

Ma il successo planetario di Oxygene, che con i suoi 15 milioni di copie resta ancora oggi l'album francese più venduto al mondo, non è che il primo capitolo di un'ideale trilogia "cyber-ecologica" che si esaurirà nell'arco di cinque anni con Equinoxe e Magnetic Fields.
Ispirato, a detta di Jarre, agli studi sull'eliocentrismo di Copernico, alle leggi dei movimenti dei pianeti dell'astronomo Keplero e all'alternanza del giorno e della notte, Equinoxe ripropone in una più meditata e solida architettura ritmico-armonica di 8 parti le tessiture melodiche e le progressioni impressionistiche di Oxygene. A un lato A più nebuloso e contemplativo in cui si avvicendano equorei quadri risonanti di tetri pittogrammi, come in "Equinoxe 2" dove tornano i garriti elettrici e la risacca del mare di "Oxygene part 6", fa da contraltare la declinazione ottimistica e liricamente panica del lato B, dominato dalla radiosità cosmica dell'anthem di "Equinoxe 5", deputato a diventare come "Oxygene 4" il singolo di traino dell'album. La sinfonia si apre su una prima aria rarefatta e maestosamente melanconica intessuta su un crescendo di sincopi crepuscolari, tale da sembrare un outtake della prima parte di Oxygene (la ritroveremo ammodernata e consolidata da timpani e rullanti orchestrali quindici anni dopo nella prima parte di Chronologie), delineando l'ouverture a duplice funzionamento simbolico della struttura alchemica entro cui Jarre raffina il quoziente ermetico-magistico dell'opera precedente, plasmandone l'estensione speculare.
"Equinoxe è concepito per riflettere il passaggio delle ventiquattro ore del giorno" rivela Jarre in un'intervista dell'epoca "poiché ogni parte dell'opera musicale rappresenta diversi momenti del giorno e della notte. Mi piacerebbe che l'ascoltatore usasse il mio album nelle varie fasi della sua giornata, o quando attraversi vari stati emotivi". La seconda parte di Equinoxe esala la stessa miasmatica oscurità della transustanziazione sonora dello stato alchemico della "nigredo", "la nerezza" dello spirito, anticamente ritenuta sintomatica della sovrabbondanza di atrabile nei fluidi corporei dell'uomo, manifestazione tipica dell'umore lunatico, melancolico, visionario, tappa antecedente ai successivi gradi della purificazione della materia (Durer la rappresenta nella famosa incisione della "Melanconia 1" sotto forma di un'eclissi e Duchamp nel "Grande Vetro" nella materia bruna della cioccolata).
Jarre dimostra di aver consumato la distanza che intercorre tra la mera sintonia con dei mood universali e la sua fattiva condivisione in termini di diegesi musicale. Musica e spirito narratologico si fondono nella purezza astratta di questo flusso sonoro originato dall'assunzione dei cangiantismi umorali quali forze motrici della prassi dell'introspezione artistica, connubio raramente rintracciabile in altri compositori che si limitano ad adagiarsi tecnocraticamente sui topoi (come nel caso della traslazione elettronica di Bach eseguita da Walter Carlos in "Switched-on Bach" senza alcuna personale indagine poetica).
Dal canto suo, Michel Geiss si ripropone nelle vesti di deus ex machina e soddisfa l'insaziabile lionese soppiantando il vocoder con le modifiche apportate a un Arp2600 in grado di riprodurre suoni "robotici" e di utilizzarli in base alle armonie desiderate. Nella seconda parte Jarre lo esibisce nell'emulazione di un gracidio corale che evoca cieli brumosi e nebbie ancestrali (un riferimento ai volatili di Durer?) che potrebbe essere quello di uno stormo in volo su un paesaggio spettrale, richiamandosi al "soundscape ectoplasmico" picchiettato dalle percussioni in slap-back echo già presenti in Oxygene, e nella quarta lo si ascolta gorgheggiare da tenore cibernetico sui riflussi del main theme che dissolve in una nebbia di coriandoli equorei (la presenza di conga elettronici poco prima del reprise finale aggiunge un tocco di arcana tribalità astrale alla versione eseguita per il video del 1979) per scendere infine alla rappresentazione di una lullaby di rane in chiusura di "Band In The Rain", introduzione all'ottava parte. A rinvigorire le tramature sonore interviene il rivoluzionario "Matrisequenzer 250", prodigio di praticità ed estro creativo che Geiss ricava dal potenziamento dell'Oberehim digital sequenzer, funzionale all'incremento e al controllo in tempo reale delle linee di basso che da "Equinoxe 3" fino alla ottava parte s'impennano nell'inquietudine di un andante favolistico, imperlato da soffusi gorgoglii d'alambicco alchemico, che tracima nell'esasperata e siderea vertigine della quarta parte, quasi a prefigurare i più turbolenti e ipnotici tempi della futura "trance music".
Scemata la nebulosa letargia panica della seconda parte, siglata dall'assolo dell'AKS sull'effetto risacca di "Oxygene 6" come chiave di volta con la successiva, e la vespertina piéce di attesa della terza campita da funerei rintocchi di campane oniriche, l'itinerario crono-emotivo dalla "nigredo" alla "rubedo" s'inarca improvvisamente nella plumbea fuga di sette note supportata da una coreografia ritmica di tamburelli sintetici firmata da cimbali riverberanti, impetuosa nell'innesco dello score centrale, quasi "cariocinetica" evoluzione del fraseggio di "Oxygene 2", introdotto dai lancinanti vortici del vocoder e dell'Arp 2600 sui quali la traccia si effonde in figurazioni esoterico-decadenti, prima di cedere il passo alla seconda tranche dell'album all'interno di un pluviale tableau vivant.
Il matrisequenzer tiene il gioco polifonico fino alla settima parte, celebrando musicalmente la bioritmica dell'esistenza diurna nella sua polimorfica animazione: la fase della "citrinitas"contrassegnata dal giallo, terz'ultimo momento del processo di ascesa dalla cupezza dell'informe al fulgore liberatore della luce e dell'idealità, si estrinseca a partire dal motivo epico-ancestrale di "Equinoxe 5", pseudo-liturgico inno in onore di un futuribile ecosistema high tech, maestosità della transizione dalla materia alla forma, condizione di totale interazione spirito-natura, articolato in duplice soluzione nella sesta e settima parte con l'apporto dell'immancabile Eko ComputeRhythm a costruire un intermezzo elettro-picaresco con la sesta (attesa briosa e disincantata con la sua esigua tornata di note Korg) e il ritorno dell'Aks come soprano ad accompagnamento del refrain trascinante e impavido della settima parte, riecheggiata sul recupero del clima d'inquietudine mistica della quarta. Difatti la propaggine del tema si esaurisce in un ultimo guazzo cromatico presago dell'acquisizione e superamento dell'estremo gradino verso il compimento dell'opus alchemico. Degna di rilievo la digressione cinematografica della "Band In The Rain" (una sorta di richiamo ipertestuale ad "Amarcord") in apertura di "Equinoxe 8", che attinge direttamente alle remote memorie "felliniane" delle orchestrine circensi dell'infanzia. Il respiro ritmico-sinfonico di Equinoxe viene premiato con la vendita di sette milioni di copie e la mise en scene del primo concerto tenuto il 14 luglio del 1979 a Parigi in Place de la Concorde, dove verrà eseguito insieme alle sei parti di Oxygene davanti a un milione di persone.

Per sua fortuna le onorificenze e i riconoscimenti che suggellano il trionfo commerciale, come il Grand Prix du Disque per Oxygene, la nomina a personaggio dell'anno per la rivista "People" e l'entrata nel Guinness dei Primati per il concerto con il più alto numero di spettatori, non lo distolgono dal proseguire la sua personale ricerca condotta in quell'enclave tra musica di massa e sperimentazione in cui artisti come i Kraftwerk e i Tangerine Dream si erano sterilmente arenati. Gli anni 80 si aprono all'insegna dei Fairlight, primo sintetizzatore-campionatore digitale di cui Jarre diviene privilegiato possessore insieme a Peter Gabriel e Kate Bush.
Magnetic Fields, portato a termine all'inizio del 1981, offre la terza incarnazione del concetto jarriano di un synth-pop pittorico ed esoterico che vive all'interno della dicotomia tra catchy tunes, composizioni orecchiabili a misura di radio, e avvolgenti suite polifoniche a tesi. Curiosamente simile alla suddivisione dei brani di "Medley" dei Pink Floyd, mentre sul lato A presenta una lunga cavalcata proto-techno di 17 minuti incalzata da arpeggi mesmerici e percussioni sferraglianti, dove voci psichedeliche e rombi di aerei rielaborati al Fairlight cospirano all'evocazione di misteriose vastità spazio-temporali, il lato B procede in maniera incerta e discontinua tra il giro di note sognante quanto infantile di "Magnetic Fields 2" sostenuta dal ritmo martellante di una macchina da scrivere campionata (rendendo omaggio alla lezione di Schaeffer), i rintocchi meccanici della terza parte, la melanconica ballata della quarta parte che, attraverso lo sfrecciare di un treno sulle rotaie, trascolora nella metatestuale incoerenza di una parodistica riproduzione di una "last rumba", avviata dal rumore della puntina di un juke-box che si adagia sul vinile.

Grazie alla mancanza di contenuti verbali forieri d'idee sovversive, in Asia la musica di Jarre viene preferita a quella sferzante dei gruppi rock anglofoni e trasmessa costantemente sulle radio locali, tanto da persuadere la Cina a invitarlo a tenere la prima tournée di un artista occidentale nella repubblica post-maoista. A fare da diario per immagini e suoni di questa avventura irripetibile vissuta nella primavera 1981 tra Shangai e Pechino sarà il video documentario di Andrew Piddington e il doppio album Concerts In China, pubblicato nel 1982.
In realtà per buona parte uno "studio album" (per via delle difficoltà tecniche incontrate durante le performance live), i due vinili ripercorrono alcuni dei momenti migliori dell'ancora esiguo repertorio jarriano trascurando Oxygene e indulgendo in riarrangiamenti pseudo-acustici e fughe jammistiche come quella in coda a "Magnetic Fields 2" e a "Equinoxe 7". Gemme a sé stanti al di fuori dei rimaneggiamenti di brani tradizionali cinesi come "Fishing Junks At Sunset" (erroneamente attribuito a Jarre sui credits del disco) sono le tracce composte ex novo con l'intrepido staccato di "Orient Express", il trascinante ricamo psichedelico di "Arpeggiator" (in seguito utilizzato da David Lean a commento di una focosa scena di "9 settimane e mezzo") e "Souvenir Of China", un'elegiaca istantanea concepita al ritorno dalla tournée introdotta dalle voci di bambini cinesi e cadenzata dagli scatti della polaroid (quelli stampati sulle sleeve covers del doppio album).

In un panorama musicale ormai in tumulto per la crescente emancipazione degli strumenti elettronici che contribuiscono a plasmare nuovi stili come quello obliquo tra art-rock, electro-dark e new wave di Depeche Mode, Dead Can Dance e dei Cocteau Twins, Jarre spinge lo sguardo ancora oltre, partorendo quello che resta forse l'ultimo suo lavoro significativo. Dalle ceneri di "Music For Supermakets", disco a tiratura unica il cui master verrà letteralmente bruciato al termine di una storica asta all'Hotel Drouot dove verrà acquistato da un certo signor Gerard (svegliatosi da un coma con la musica di "Souvenir Of China"), nasce infatti la fenice di Zoolook. Così come "Music For Supermarkets", composto da principio per fare da commento sonoro a una mostra di arte contemporanea, si pone implicitamente quale risposta alla filosofia ambient di Brian Eno, allo stesso modo Zoolook sfida apertamente "My Life In The Bush Of Ghosts" di Eno e Byrne, rimpolpando con una pleiade di voci registrate in giro per il mondo dall'etnologo Xavier Bellanger le scarne bozze del disco "opera d'arte" (la quinta parte si tramuterà in "Blah Blah Cafe" e la settima nella seconda parte di "Diva"), offerto in pasto ai pirati da Jarre in persona durante la sua unica messa in onda su una radio francese. Il disco segna anche la prima ampia collaborazione di Jarre con artisti provenienti dai più diversi ambiti della musica contemporanea: da Adrian Belew dei King Crimson che trapianta nelle distese di droni e pads di Jarre le potenti plettrate della sua chitarra elettrica, a Marcus Miller che scandisce le battute con il suo basso incombente, dalle batterie rutilanti di Yogi Horton ai fonemi alieni di Laurie Anderson che duettano con la parata allucinatoria dei campioni del Fairlight nel pezzo fanta-tribale di "Diva".
Se nell'opera di Eno e Byrne, come nei dischi coevi degli Art Of Noise e degli Yello, le voci umane vengono manipolate alla stregua di effetti "perturbanti" intorno ai quali edificare brani irrisolti tra canzone teatrale e divertissement dadaista, in Zoolook sono trattate come veri e propri strumenti riproducendo bassi, fiati, archi e arpeggi fino a evocare un'orchestra fonetico-multietnica nel capolavoro dal dinamismo post-wagneriano e cinematico di "Ethnicolor", una suite di circa dodici minuti suddivisa in tre movimenti che costituisce l'acme creativo del disco e di tutta la carriera di Jarre.

Con il monumentale concerto di Houston del 5 aprile 1986 celebrato per i 25 anni della Nasa e i 150 anni della città e del Texas, ha inizio una ventennale parabola di mega-live che porteranno Jarre a subordinare sempre più l'attività di certosino compositore da studio a quella di "Fitzcarraldo" di maestosi happening multimediali che si chiuderà con il concerto tra le dune di Merzouga del 2006.
A testimoniare questa nuova gerarchia di priorità nel modus operandi è la genesi stessa dell'album Rendez-Vous, che viene frettolosamente registrato in poco più di due mesi, riciclando e ampliando brani precedenti come la terza traccia di "Music for Supermarkets", uno spasmodico arpeggio in odore di cosmic music, reinserita quale terzo movimento di "Rendez Vous 5"; l'assillante accordo di due note della canzone "La Belle e la Bete" composto nel 1975 per Gerard Le Norman, rivalutato come fondamenta dell'imponente costruzione operistica di matrice "orffiana" di "Rendez Vous 2", intervallata dall'assolo minimale e struggente modulato dal freddo barrito dell'italiano Elka Synthex, strumento con il quale viene eseguito anche il tema di "Rendez Vous 3" riesumato da "La Mort du Cygne", altra canzone scritta per Le Norman; la frase melodica del famoso "Rendez Vous 4", evidente rivisitazione di quella scandita dalla voce sintetizzata di "Zoolookologie".
Incerto tra barocchismi futuristici, ibridazioni elettro-orchestrali e pseudo-jazzistiche, il disco risulta stilisticamente incompiuto e vive più delle sue parti che come lavoro unitario, fondandosi sul concept effimero del sontuoso concerto commemorativo tenuto tra i grattacieli in costruzione del Downtown di Houston in onore degli astronauti morti a bordo del Challenger pochi mesi prima (resta isolata la toccante parentesi ambient-jazz di "Ron's Piece", dedicata all'astronauta e sassofonista scomparso Ron McNair). La seconda entrata nel Guinness dei primati con un milione mezzo di spettatori sparsi ovunque intorno all'immenso drive-in sovrastato da bufere pirotecniche, gli vale un secondo allestimento per il concerto dedicato al papa in occasione della visita nella sua città natale di Lione nell'ottobre dello stesso anno.

Anche i successivi Revolutions, Waiting For Cousteau e Chronologie rispettano questa nuova agenda creativa, adeguandosi con esiti alterni al costume consolidato di affiancare lunghe suite elettro-acustiche dal respiro epico a brani in formato radio-edit oscillanti tra formule pop-rock e world-music. All'ennesima suite neo-sinfonica ripartita sul lato A in una "Ouverture" e tre parti di "Industrial Revolution" articolata sui clangori e le sonorità ferrose del Roland D-50 a evocazione dei ritmi serrati e implacabili dell'era industriale, fa da appendice "London Kid", una dolciastra ballata vintage-rock sostenuta dalla chitarra elettrica di Hank Marvin, leader dei britannici Shadow, ammirati da Jarre ai tempi dei suoi Mystere IV, mentre sul lato B, lanciato da un lungo assolo di flauto turco, "Revolutions" scalpita dietro un'alienata voce vocoderizzata in un ringhiante techno-rock che ben si adatta alle coreografie di danzatori dervisci e gigantografie pop ideate per il visionario concerto nei Docklands di Londra nelle piovose notti dell'ottobre 1988.
Indossati i panni del regista cinematografico più che del compositore, il live londinese segna il coronamento dell'ambizione a raggiungere il punto di fusione tra arti scenografiche e musicali, con la cura maniacale del design del palco galleggiante equipaggiato di tastiere e strumentazioni ispirate all'estetica del futuro decadente di "Blade Runner" e quello organico-barocco di "Dune", nonostante per Jarre l'intera produzione dell'evento avversata da intemperie e beghe burocratiche equivalga in realtà a "girare 'Apocalypse Now' in una notte".

Nel Bastille Day del 1990, "Paris La Defense - Une ville en concert", oltre a marcare la terza entrata nel guinness dei primati con i suoi due milioni e mezzo di pubblico, rappresenta anche l'ultimo riuscito concerto concepito a misura di città. L'approccio da "land-artist" votato a unire passato e futuro già applicato a Houston, Lione e Londra, si esplica nella simbolica integrazione del nuovo quartiere della Defense nel vecchio contesto urbano messo in comunicazione a distanza con l'Arch de Triomphe grazie alla collocazione intermedia del palco piramidale dal quale Jarre diffonde i cavalli di battaglia della sua discografia, tra un tripudio di fuochi d'artificio, grattacieli convertiti in organismi multicolori e pupazzi caraibici danzanti.
I tre nuovi brani del disco Waiting For Cousteau dedicati alla barca "Calypso" dell'oceanografo Jaques-Yves Cousteau coprono solo un quarto dell'intera performance, trascinando inesorabilmente il live tra il crescendo di furiosa ebbrezza percussiva degli steel drum suonati dagli Amoco Renegade di Trinidad verso la sua caleidoscopica apoteosi finale. Audace surrogato della classica suite è invece la traccia eponima dell'album, criptica quanto oceanica "audiosfera" ambient di 46 minuti in cui lugubri echi di piano ondulano sopra incommensurabili estensioni di effetti e droni ribollenti (memore di questa enigmatica perla jarriana sarà "Somnium" di Robert Rich).

"Equinoxe 2.0" potrebbe invece chiamarsi Chronologie, concept album nato del 1993 sulla scorta del libro di Stephen Hawking "Breve storia del Tempo" (anche se in realtà "Chronologie 4" e "Chronologie 5" erano stati commissionati dalla compagnia svizzera di orologi Swatch). Le otto parti di questa suite stilisticamente eterogenea dalle altalenanti mire narrative, che si snoda tra intermezzi audio-scenici di orologi scricchiolanti, aggiorna il capolavoro del 1978 alle nuove tendenze musicali degli anni 90, intersecando la grandiosa apertura dagli accenti da "space opera" della prima parte con la "dance" incalzante della seconda, dove Jarre sembra parodiare se stesso con esagitati staccati di organo epigoni di quello di "Equinoxe 4", e con quella più mesta e rigorosa della sesta, che a suo modo deriva dal motivo mesmerico di "Magnetic Fields 4".
Ad eccezione della chitarra elettrica di Patrick Rondat, l'album è governato interamente dal suono analogico di vecchie e nuove tastiere, inversione di rotta confermata quattro anni dopo con il manieristico sequel di Oxygene. Nel mezzo si situa "Europe in concert", il primo tentativo di Jarre di abbandonare la formula ormai stanca del "City in concert" imbarcandosi in un vero e proprio tour senza rinunciare al gigantismo e ai mirabilia ormai diventati il logo della sua "azienda" multimediale.
Nel 1995 Jarre si concede il suo terzo Bastille Day, stavolta ai piedi della Tour Eiffel, limitandosi a riarrangiare il vecchio repertorio insieme ai più recenti brani di Chronologie.

Ben poco dell'innocente minimalismo e delle ammalianti intuizioni sui generis che avevano contribuito alla fortuna atemporale di Oxygene sopravvive nelle successive sette parti di Oxygene 7-13, pubblicato nel 1997 e dedicato alla memoria di Pierre Schaeffer, morto due anni prima, prosieguo revisionista della suite del 1976 che indugia tra commoventi autocitazioni e reprise palmari dei vecchi temi, come la melodia piangente dell'Aks di "Oxygene 1", incastonato nella nona parte, l'onirico formato radiofonico di "Oxygene 4", replicata in chiave trance in "Oxygene 8" (4+4) e il ritmo traballante del rythmin' computer della malinconica "Oxygene 6", sul quale si chiude la tredicesima (rasentando tuttavia il plagio con le 4 note di "Oxygene 7" tremendamente reminiscenti di "Blade Runner End Titles" di Vangelis). Michel Geiss fa qui la sua ultima comparsa nei credits, aprendo con il suo congedo dal team jarriano una lunga sequela di defezioni, a partire dalla moglie Charlotte, fino ad allora musa e fotografa ufficiale di tutti i suoi concerti, a molti dei suoi collaboratori storici, compreso Francis Dreyfus, il produttore discografico di musica jazz che aveva pensato di vendere non più di 50.000 copie di quel disco senza canzoni battezzato col nome di un gas.
La quarta entrata nel guinness dei primati con i tre milioni e mezzo di pubblico presente alla data moscovita dell'"Oxygene tour" pone il sigillo alla fine di un'era.

In questo senso il ritorno alla dimensione canora di Metamorphoses vorrebbe fungere da emblematica tabula rasa da cui principiare la seconda fase di una carriera già quasi trentennale. Ma il faraonico showcase del disco nel fantasmagorico concerto tenuto davanti alle piramidi di Giza nella notte del 1° gennaio 2000 ha quasi il valore di una profezia: una fitta nebbia manda letteralmente in fumo mesi di lavoro condotti sulle proiezioni destinate alle piramidi retrostanti il palco. E' la bruma che cala sulla vita artistica e privata di Jarre. Le molteplici partecipazioni di artisti femminili al disco, da Natacha Atlas, che gorgheggia nella lunga single track "C'est la vie", tra archi arabeggianti svolazzanti su arpeggi in salsa dance, a Laurie Anderson che ricompare in "Je me souviens", stavolta per prodursi in una notturna enumeratio di pittogrammi fonetici in uno dei pochi momenti originali del disco, al violino di Sharon Corr nella kraftwerkiana "Rendez Vous a Paris" non bastano a risollevare le sorti di un album in cui i testi difettano di una vera coesione poetica e la musica fatica a tratteggiare con la stessa intensità le atmosfere trascendenti di un tempo. Fa capitolo a sé "Miss Moon", curiosamente un brano dark-chill out privo di parole che è anche un'ultima degna prova di musica concreta con il suono dell'innaffiatore che regge come un metronomo tutta la sezione ritmica sotto i virtuosismi incorporei della voce di Dierdre Dubois.

Passeranno sette anni prima che Jarre pubblichi un nuovo album in studio, smarrendosi tra scialbi side project, come l'abortito album di "Rendez Vous In Space", concepito insieme al giapponese Tetsuya Komuro e nato e defunto nel capodanno del 2001 nel concerto di Okinawa; Geometry Of Love, del 2003, una raccolta di stentati pezzi lounge registrata al computer con soft synth per il "Vip room", club parigino di Jean Roch; "Interior Music", tedioso assemblaggio di effetti per la catena Bang&Olufsen; i vetero-avanguardismi del live di "Printemps de Bourges" del 2002, e le algide improvvisazioni electro-jazz di "Session 2000", pubblicati per risolvere il contratto con Dreyfus.
Nell'epoca degli Air, dei Daft Punk, di Moby e dei Röyksöpp, ai quali Jarre ha idealmente passato il testimone, nessuna di queste opere è più in grado di tenere alto il vessillo dell'"alfiere della musica elettronica". Dopo il lancio dell'olofonia con il suono in 5.1 di "AERO", antologia di brani ripescati tra Oxygene e Chronologie, con l'aggiunta della rielaborazione alla Robert Miles di "Je me Souviens" nella title track (la tournée prevista per la promozione si perderà per strada, riducendosi a due date tra le mura della Città Proibita di Pechino nel 2004 e il porto di Danzica nel 2005), Teo & Tea, basato nelle intenzioni sull'evoluzione di un rapporto amoroso, è l'atto conclusivo di un processo di auto-negazione dettato dall'insostenibile peso della propria leggenda. L'infantile minimalismo della datata e stucchevole eurodance del singolo non è che la conseguenza di una sindrome di "Dorian Gray" che a tratti riporta Jarre sulla strada di "Deserted Palace", tanto sgraziati ed esigui suonano brani come "Gossip", "Chatterbox" e "In The Mood For You" da ricordare i primi cimenti con l'Ems e il Farfisa, priva però della ludica purezza del giovane musicista in avanscoperta (e infatti quasi tutti i suoni e i groove sono preset del nuovo Roland MC808 programmato dal dj Tim Hufken).

Destato di soprassalto dalla catastrofe commerciale, Jarre corre ai ripari rifugiandosi per la seconda volta nel passato. La versione rimasterizzata di Oxygene, rieseguita per la prima volta in maniera filologica in tutte le sue parti con le "vecchie signore" analogiche nel settembre dello stesso anno insieme ai fidati Francis Rimbert, Dominique Perrier e Claude Samard, ha l'agrodolce sapore di un'improrogabile auto-commemorazione. I concerti che seguiranno dal Teatro Marigny fino al vecchio/nuovo tour "Indoors" 2009-2010 nelle arene delle città europee dilatano all'inverosimile il tempo di una liturgia lapalissiana. Esauriti i contenuti e la spinta propulsiva dell'epoca pionieristica, la rivoluzione musicale di Jarre, come tutti i grandi sommovimenti dell'arte, si è fossilizzata negli strati della storia culturale, lasciando in superficie solo il performer, libero di continuare a trastullarsi con i propri giocattoli. Un po' come quel piccolo lionese che dal balcone di casa sognava le meraviglie del circo inseguendone i suoni perduti nell'aria.

Il passato non scompare mai del tutto e si accumula di continuo nel presente, asseriva il filosofo francese Henri Bergson in una conferenza del 1913. Intimo convincimento che Jarre ribadisce a suo modo nel 2015, trasponendone in note e soprattutto suoni le implicazioni bio-artistiche nel nuovo album Electronica: The Time Machine, primo tempo di quel lungometraggio audiografico con il quale il compositore, dopo sei anni di tour “indoor” e due “outdoor” in vecchio stile pirotecnico tenuti a Santiago de Compostela nel 2010 e nel Porto di Monaco nel 2011, accetta di venire a patti con leitmotiv non solo musicali che ne hanno puntellato vita e pensiero lungo l’arco di 67 anni.
Forte di una ritrovata disciplina produttiva e verve sperimentale che sembravano essersi mummificate dentro quelle piramidi di Giza di fronte alle quali aveva allestito l’ultimo "faraonico" concerto per accogliere il terzo millennio, con questo variopinto corteo di 30 inediti messo in scena in collaborazione psico-fisica con altrettanti musicisti, Jarre cerca adesso di redimersi da un quindicennio di erratica anomia artistica.
Non è un caso infatti che nel cast di questo film previsuale narrato attraverso gli audiogrammi di una colonna sonora del tempo vissuto, faccia ritorno la stessa Laurie Anderson che (dopo la prima collaborazione in Zoolook) in Je me souviens apriva allora la tracklist sillabando proustianamente le pittografie della memoria mentre qui, sul caricaturale groove da suoneria di “Rely On Me”, presta la sua algida quanto sardonica fonetica a uno smartphone che si è fatto ormai depositario della memoria e dell’identità del suo possessore. Così come, evocati a più riprese nell’album del 2000 in quanto a loro volta evocatori del “french touch elettroacustico” inoculato in patria da Jarre nella loro opera cardine “Moon Safari”, gli Air vengono scritturati come co-registi di un brano programmatico che è al contempo sognante apologia dello “zeitgeist synth-etico” e microdocumentario esemplificativo dell’evoluzione storica della musica elettronica. Dal loop artigianale realizzato con lamette e adesivo alla maniera dei decani della “musique concrete” incollando i nastri di campioni originali in un’unica bobina che scorre intorno all’asta di un microfono in sincrono con il ritmo del Korg Minipops, progenitore delle moderne drum machine, all’ululare fantasmatico dell’EMS Synthi AKS di “oxygeniana” memoria, passando per i nuovi eterei soft-synth come il Monark fino a chiudere con l’Animoog per iPad, il “medium” che amalgama le cangianti cromie e le voci di “Close Your Eyes”, sia quelle vocoderizzate degli Air che degli strumenti reali e virtuali, resta la volontà di tracciare fughe prospettiche all’interno di un paesaggio familiarmente alieno, più volte esplorato da latitudini e altitudini diverse nei quarant’anni passati.
Jarre può dirigere e accostare in infinite soluzioni mitopoietiche scenografie, storie e personaggi liberi di esprimersi ciascuno con la propria specificità identitaria sotto una comune troposfera analogico-digitale, dove risulta naturale che un rocker britannico d’annata come Pete Townshend degli Who coesista con Lang Lang, virtuoso interprete cinese di Bach e Chopin, i giovani dj e produttori musicali Boys Noize e Gesaffelstein figurino al fianco del veterano Vince Clarke, cofondatore dei Depeche Mode e mente di Erasure e Yazoo, il celeberrimo regista John Carpenter divida la scena con il duo techno-psichedelico dei Fuck Buttons e il gruppo synth-pop degli M83.
Gli arpeggi e i sequencer tramano e avviluppano l’intera sequenza di brani, a volte in funzione di contrappunto, a volte sotto forma di struttura portante della composizione stessa, come avviene in “Zero Gravity”, emblematica traccia testamentale tessuta insieme al compianto Edgar Froese dei Tangerine Dream, al quale l’album stesso viene dedicato. Se da una parte l’assenza di gravità e di un definito baricentro melodico isolano questo brano da quelli che lo anticipano e lo precedono, dall’altra lo rendono anche un parametro di stridente contrasto con le collaborazioni a vocazione pop-radiofonica, quali la fanciullesca “If..!”, confezionata su misura per i melliflui vocalizzi del folletto Little Boots, cantautrice del Lancashire apparsa sulla scena della dance-pop passando per Youtube; l’inno melanconicamente pomposo dal retrogusto alternative-rock alla Coldplay di “Glory”, che coniuga la voce elettrificata del leader degli M83 Anthony Gonzalez all’avvolgente arpeggio cristallino di “Chronologie 1” e “Globe trotter”; l’irruente e pleonastica escapologia dance-rock di “Travelator Part 2” interpretata sopra le righe da un Townshend che parodia se stesso; il morbido cantico imbevuto di rammarico elegiaco di Moby nel crescente ordito geometrico di loop ed esangui tappeti di “Suns Have Gone”.
Di odissee iperspaziali e traversate fuoribordo sono intrise soprattutto le due mini-suite di “Automatic”, serioso divertissement condotto nella prima parte da un Vince Clarke che si gingilla con rigorose interpunzioni robotiche e riff da carillon steampunk, lasciando poi spazio nella seconda al gioco delle varianti che Jarre ripropone con la fusione del tema di “Chronologie 4” con quello di “Je me souviens” e “Aero”, facendo decollare il brano sopra le articolazioni da affilata electro-song degli Erasure; e “The Train & The River”, vero e proprio “denouement” cinematico del disco su cui aleggiano gli spettri di Pierre Schaeffer, John Cage ed Erik Satie, con i pluviali cromatismi impressionisti tamburellati del piano di Lang Lang che si ritrovano a rincorrere come una pura entità sonica alla pari dei tuoni, del vento e dei borborigmi del fiume, il sequencer alla guida del quale Jarre accelera e decelera come un nevrotico capotreno. Tutto questo in linea con quella tonalità latamente cinematografica posseduta dal progetto consolidata dalla precedente “Question Of Blood” composta con il Carpenter più gothic-rock di “Escape from New York”, traccia che avrebbe senz’altro beneficiato di un’evoluzione più graduale ed estesa dell’idea melodica attorno al quale la voce da soprano e gli arpeggi concitati di Jarre vorticano in un crescendo angoscioso prima di spezzarsi precocemente.
La filogenesi musicale del genoma jarriano trova la sua più limpida manifestazione combinandosi con la sontuosa psichedelia cerimoniale dei Fuck Buttons, che nella cupa frenesia metallica della techno travasano le derive interestellari dei primi Pink Floyd di “A Saucerful Of Secrets” e “Echoes”. Ancor più della “The Time Machine” d’apertura, eretta come una guglia cyber-gotica sopra la cattedrale di “cori mellotronici” con l’amburghese Boys Noyze, della martellante marcia post-industrial che trapassa tenebre evanescenti in compagnia di Gesaffelstein in “Conquistador”, dell’arrembante rivisitazione della trance infiorettata con consumato mestiere in “Stardust”, in coppia con il “fratello minore” Armin Van Buuren, o della sofferta gestazione del languido e incerto trip-hop operistico di “Watching You” (partorito col cesareo in due anni con lo schivo 3D dei Massive Attack), è la maestosa messa per organo lisergico di “Immortals” a offrire la prova di come il logos dell’epica sinfonico-elettronica coniata in solitaria da Jarre sia ancora vivo protoplasma in divenire capace di vivificare e reinverarsi a distanza di quattro decenni.
In ogni caso, fino alla prossima primavera, a terminare per il momento è solo la prima colonna di questo pronao edificato davanti al tempio atemporale e sempre più affollato di un’ossessione trascendente e carnale chiamata “Elettronica”.

In The Heart Of Noise pubblicato sette mesi dopo The Time Machine, Jarre tende a concedersi licenze poetiche tanto ardite e surettizie da giustificare abbinamenti di audace dissonanza tra stili e artisti, finendo con il trasmettere una sorta di straniante vertigine “acusmatica” nel corso dell’ascolto sequenziale di tutte le 18 tracce,  quasi a dare l’impressione che l’intero album sia l’ipertrofica appendice di Metamorphoses.
A suggerire una labile omogeneità atmosferica è solo la title track che, nata sulla base di un inquieto “ritournelle” scortato da cupe percussioni tremolanti, s’inarca ad abbracciare idealmente il quadruplo album costruendo al contempo un “ponte tibetano” verso i turbamenti interplanetari delle suite degli anni 70 e 80. L’apporto della matricola della “minimal techno” francese Erwan Castex in arte Rone, traluce infatti nella prima parte del brano in funzione reverenziale, contribuendo a saldare tra loro i sintagmi cardio-sinfonici di quella che si presenta come una classica overture imbevuta di mesta “grandeur bladerunneriana” e fibrillazioni elettriche captate tra Aphex Twin e Royksopp, salvo arretrare nella seconda dove Jarre prende il comando per far detonare la melodia dentro una frenetica spirale dance che s’inabissa infine in un gorgo di rumore bianco. Spiazzante ma efficace nella sua solidità di singolo synth-pop da primi anni 90 sopraggiunge “Brick England”, brano in cui l’emulazione stilistica dei collaboratori di turno sfiora il virtuosismo mimetico, lasciando campo libero alla voce iconica di Neil Tennant che salmodia con rassegnato distacco di una tetra Inghilterra neo-dickensiana dove muri e città vengono abbattuti e ricostruiti senza posa, mentre Jarre si ritaglia un breve assolo di “keytar” per riprendere il refrain e calare la canzone nella sua personale dimensione techno-britannica affrescata nel 1988 con “Revolutions” e sopratutto i concerti di “Destination Docklands”.
Quantomai esoterica e irrisolta nelle sue istanze espressive, "These Creatures" frena il ritmo fin qui implacabile della tracklist adagiando i gorgheggi simil-campionati dell'americana Julia Holter su un'aria edenica tratteggiata in punta di sequencer e tappeti celestialmente solenni che cerca in ogni modo di evocare gli stati di grazia delle prime Kate Bush, Elizabeth Fraser ed Enya. Come a riafferrare l'ultimo verso lasciato a fluttuare nel silenzio dalla Holter subentra "As One", un remix anthemico dell'interminabile brano afro-rock "Come Together" pubblicato nel 1992 dagli scozzezi Primal Scream, che s'insinua a dorso di un lungo gemito giubilatorio in omaggio a quello che apriva "Ethnicolor" per poi tramutarsi, a differenza di quest'ultimo, in un ben più generico inno europop da evento sportivo decorato da brevi sezioni cantate da una voce vocoderizzata alla "Eiffel 65". Segna invece il ritorno sul tracciato di un esile sottottesto socioantropologico "Here For You", canzone eseguita dall'aristrocratica voce atonale dell'inglese Gary Numan, esponente della new wave elettronica 70 e 80, sull'ennesima e sorvegliata filatura di grevi palpitazioni poptroniche nel proposito di descrivere le "non-relazioni" a distanza così frequenti tra gli utenti dei social network. Ma il timido accenno di critica culturale che con Numan avrebbe potuto assumere inflessioni molto più psicotiche, viene interrotto dalla dietrologia sinfonico-cinematografica di “Electrees” che con il suo maestoso crescendo sidereo descritto lungo una parabola di arpeggi modulari, esplosioni di gong e cori infantili si squaderna come il prologo di una soundtrack che il teutonico Hans Zimmer e Jarre preferiscono tuttavia tratteggiare “in nuce” nell’ipotesi di un mash-up tra quella di “Interstellar” e di “Tron Legacy” a firma Daft Punk.
Col passare degli anni e il consolidarsi prima del suo ruolo di portavoce dell’UNESCO e in seguito di presidente del Cisac (Confederazione internazionale degli autori e compositori), Jarre fa sempre meno mistero delle sue posizioni ideologiche e non si perita in più occasioni di sostenere in pubblico figure politicamente “liminari” come Julian Assange ed Edward Snowden, ricercati internazionali per lo scandalo “Watileaks” il primo, e la fuga di dati dall’agenzia della Sicurezza Nazionale Americana (Nsa) il secondo. Sotto il profilo prettamente musicale “Exit”, una nevrastenica fuga techno-dance ribollente di sample ed effetti da sound-design si autoassolve dal non trovare appunto una sua “uscita”, ossia una risoluzione estetica, qualificandosi solo in quanto cornice del monologo centrale di Snowden che Jarre incontra di persona nel suo rifugio segreto di Mosca, per registarne voce e volto a mò di monito contro il controllo e la manipolazione indiscriminata dei dati privati ad opera degli enti governativi. Ulteriore deroga al “politically correct” è anche il pruriginoso rap di “What You Want” imbastito sul loop della base percussiva di “Magnetic Fields 2” con la canadese Peaches, la cui pittoresca carriera è da sempre fondata sulla sistematica irrisione del sessimo, così come la sarcastica e spigolosa filastrocca dreampop che l’irsuto Sebastian Tellier, lunare cabarettista-chansonnier della new wave francese autodichiaratosi “figlio di Jarre”, dedica alla bambola erotica “Gisele” dalla fredda pelle di plastica, tutta “corpo e niente anima”, rappresentazione satirica di una contemporaneità divorata dal materialismo edonista e dall’abuso amorale della tecnologia.
In “Swipe To The Right” il tema delle idiosincrasie alienanti connesse alla bulimia tecnologica ricorre per un’ultima volta grazie all’interpretazione della newyokese Cyndi Lauper, ipostasi vivente della cultura pop anni 80, che con enfasi adolescenziale “de-canta” la superficiale precarietà dei rapporti amorosi all’epoca di “Tinder”, applicazione che liquida l’interazione tra sconosciuti, illusi di poter flirtare in un esibizionistico anonimato, nel tempo di una “strisciata a destra”. Divisa in due parti, la lunga “outro” della canzone riporta in primo piano la tastiera di Jarre che intesse una sinuosa variazione della melodia in chiave dissintonica sulla ritmica di “Oxygene 6”, citato fino all’aggiunta della risacca marina in segno di autotributo dettato dalla natura “audio-autoreferenziale” che costituisce per molti versi il sostrato di “Electronica”.
Questo a riprova di come la vocazione strumentale e avanguardista di Jarre fatichi comunque a piegarsi del tutto alle esigenze enunciative dei testi cantati. Ecco allora che a titolo di ritrovata sintonia, a 19 anni dal controverso “Toxygene” (escluso da Jarre dalla compilation di remix dedicata a “Oxygene 7-13”), la complicità elettiva con i londinesi The Orb viene riabilitata e sancita da “Switch On Leon”. Pur non vantando alcun legame con “Switch On Bach” di Wendy Carlos, il pezzo offre una convincente digressione didattico-dadaista attraverso la storia degli strumenti elettronici che rimodella e incastona tra loro in un vorticoso carosello protoplasmico le voci del russo Leon Theremin, della virtuosa Clara Rockmore,  strumentista che per prima gli diede dignità musicale eseguendovi arie di Saint-Saens e Bach, e del leggendario Robert Moog. Nell’occhio di questo tornado ipersonico pulsa minaccioso un basso cosmicheggiante intorno al quale si adunano e caracollano balbettii oltremondani e l’ululio dell’irrinunciabile Theremin che accenna uno spettrale motivo melodico, prima che il sinistro “Hellzapoppin’” agonizzi e si sfilacci tra frequenze disturbate e fruscii radiofonici. Dalla collaborazione con gli “Yello”, sagaci picari elvetici del sampling d’autore, ci si sarebbe aspettati una altrettanto sfrenata carambola di trovate rumoristiche, senonché il brano “Why This, Why That, And Why” risulta essere la versione recitata in stile teatro-canzone di un testo già arrangiato prima dell’incontro con Jarre come una più canonica ballata con accompagnamento di chitarra acustica. In questa seconda incarnazione Dieter Meier borbotta pensoso con la sua potente raucedine da detective “hard-boiled” sugli interrogativi esistenziali della condizione umana, arcionato a un andante sconsolato che Jarre allenta tra una strofa e l’altra con il ritorno del coro infantile di “Glory” ed “Electrees” a drammatizzare lo staccato della melodia portante.
Più lievi e autocompiaciuti i duetti con il mago-dj di Detroit Jeff Mills, che insieme a Jarre in “The Architect” diventa archistar dei suoni per progettare ed edificare un fantasioso quanto diafano compound abitativo fatto di brulicanti sequencer e vetrate policrome di drum-machine lastricate da sferzate di archi, e il tedesco Siriusmo col quale in “Circus” il lionese si cimenta nell’evocazione del clima folclorico-favolistico del mondo circense nel motivetto sofisticamente naif che si  avvita su se stesso sopra un clapping sincopato.
Terz'ultimo nella tracklist si riaffaccia il dandy “revenant” Christophe, cantore dei “mots blues”, le “parole blu pronunciate con gli occhi” in quel lontano 1974 che decretò il primo successo del Jarre paroliere. Stavolta l’italofrancese Daniel Bevilacqua pone al servizio di una claudicante marcia acid-blues un falsetto anglofonetico che potrebbe essere la voce frustrata di quello stesso amante, ora invecchiato, in attesa di dichiararsi all’amata al rintocco delle campane serali; quell’amata che adesso lo “avvolge e si fa avvolgere nel dolore” nel corso del suo funereo procedere lungo il miglio dei condannati a morte. “Doppelganger” canoro di un Jarre  mai così dichiaratamente disincantato e decadente, con la sua armonica allucinata che garrisce nella coda del brano tra percussioni singhiozzanti, Christophe celebra infine una cerimonia sciamanica con cui invocare e rievocare “tranche de vie”, passioni, sofferenze e “paradisi perduti” all’ombra di quel “finis vitae” che Jarre ha sperimentato in prima persona con la scomparsa nel giro di pochi mesi dei genitori e del suo storico produttore Francis Dreyfus. Di scongiurare il nichilismo implicito al “memento mori” di “Walking The Mile” si propone il successivo “Falling Down”, artificiosa regressione alla giovinezza in cui Jarre immagina di collaborare con il se stesso ventenne in una pseudo-sigla televisiva di un anime manga degli anni 70 esitante tra il clima cartoonesco dei Daft Punk di “Interstella 5555” e un disimpegnato jingle da videogame a 16 bit.
Al capolinea di questa omerica traversata a bordo del suo Tardis autobiografico, Jarre si scopre perso nell’afonia assoluta e liberatrice dello spazio profondo. Come un astronauta alla deriva del film “Gravity”, si chiede se nello spazio sia davvero possibile distinguere tra un sopra e un sotto, ripetendosi, con solipsistico smarrimento, di star precipitando verso il basso mentre naufraga nelle altitudini sconosciute alla gravità terrestre, magari alla ricerca del battito autentico del proprio cuore, suggellato e a volte dissimulato in oltre due ore da tanti pacemaker e bypass musicali confusi nell’infinita varietà dei suoni-rumori: “The Noise Of Heart”, appunto.

Al netto delle pastoie commerciali a cui ogni artista di fama internazionale deve in diversa misura soggiacere, specie dopo aver venduto 15 milioni del primo album e aver stabilito il record (tuttora imbattuto) del disco più venduto della storia musicale francese, l’eterno ritorno di “Oxygene” viene accettato da Jarre con uno stoico abbandono che lo rende in qualche modo più naturale e ineluttabile della tautologica genealogia dei tanti “Tubular Bells” forgiati tra il 1973 e il 2003 dal suo omologo britannico Mike Oldfield.
Forse in alternativa a Oxygene 3 (2016) per questa terza prospettiva tutta strumentale di circa 40 minuti, sarebbe stato più calzante il titolo di “Oxygene 2016”, in sintonia con quello scelto per un altro inaspettato e altrettanto auspicato/temuto sequel, il “Blade Runner 2049” le cui riprese da poco terminate ambiscono a visualizzare la Los Angeles di Rick Deckard in un’epoca tarda di quello stesso mondo immaginario.
Jarre si ritrova investito dell’ingrata missione di auto-omaggiarsi evitando l’auto-clonazione o l’involontaria contraffazione nell’ipotesi che il Jarre ventottenne che compose il primo “Oxygene” nella cucina del suo angusto appartamento parigino di Rue de La Trémoille si ritrovasse catapultato in questo 2016, nel bel mezzo della deflagrazione trasversale della musica elettronica e dei tanti revival generazionali dove la disco anni 70 e il pop anni 80 vengono compostati e rimantecati sugli stessi piani cottura della dance, della techno, della trance, della house, del trip-hop e di tutto quello sterminato e a tratti inintelligibile calderone Edm.
Già dall’apertura della prima parte, tre note di basso crescenti modulati due volte su un Moog prima della detonazione “in medias res” di un aspro e tagliente sequencer, viene marcata una cesura profonda rispetto alle più ondulate e dense spire atmosferiche in cui flocculava l’aria bachiana dell’overture del 1976. Solo un pensoso e scarno ritornello su un inatteso piano elettrico che si alterna a una fibrillante e spaziale escursione di ottave offre una prima rassicurazione riguardo alla presenza di un rarefatto “trait d’union” melodico che tuttavia, da qui alla ventesima parte, si limita a barlumare a distanza dietro stratocumuli di svolazzanti tappeti Eminent e rumore bianco virato a colpi di VCS-3 e Swarmatron in crepitii, ansiti, sgocciolii, sbuffi e refoli. La traccia evolve in un fluido crescendo in cui il flebile motivo si avvita su se stesso, domando le mutazioni di tempo del sequencer in combutta con arpeggi cristallini e fosche stoccate di Elka Syntex, colore anch’esso inedito nella tavolozza oxygeniana. La pudica irruzione della classica base percussiva del Korg Minipops nella quindicesima parte sembra reinstradare il flusso in un’esitante palpitazione psytrance incisa in un silenzio siderale limitrofo a quello in cui nuotano i sognanti incubi dei Tangerine Dream di “Phaedra”, concepito al solo fine di trascinare, dopo un’incongrua pausa gassosa, in un più consapevole e strutturato “score” da schermata d’apertura di un videogioco anni 80. Gli archi che volteggiano e orbitano intorpiditi sullo sfondo della sedicesima parte sembrano rincorrere il tema del “Turrican 2” di Chris Huelsbeck.
A loro volta dall’angosciosa cupola troposferica creata per il film “Gravity” da Steven Price provengono in larga parte le tortuose sequenze rumoristiche che tranciano questo brano (e la parte 19) allorquando sembra essere sul punto d’involarsi in una sontuosa ensemble intergalattica, irrobustita magari da cori di Mellotron o dai latrati da tregenda del Theremin. Barbagli del mistico “esprit de finesse” che informava il primo Oxygene balenano in queste lunghe transizioni modellate con il piglio di un sobrio John Zorn della “musique concrete” che si delizia a dilatare quanto più possibile l’attesa dell’ascoltatore, inabissandolo in tetre conche audiosferiche trapassate da inquisitorie note sparse.
Alquanto esogena e surrettizia dopo questi primi spiazzanti 19 minuti, sopraggiunge la parte 17, astrale cotillon electro-lounge svelato nell’encore offerto durante il concerto al Motor Point di Cardiff del 4 ottobre, con tanto di animazione tridimensionale del teschio terracqueo di Michel Granger a roteare sul palco come un planetario. Unico perno astutamente melodico dell’opera, collocato com’è ad apertura del lato B del vinile alla stregua di precedenti hit jarriani, non fa alcun mistero di voler essere la terza e ultima reincarnazione del classico del '76, del quale recupera la morfologia dance-pop ed estrapola il riff di Eminent eseguito per il ponte per aggiogarlo qui a un più articolato ritornello a due voci, condotto dal suono gorgheggiante del MicroKorg già impiegato tredici anni prima per il lungo solo di “Geometry Of Love” e le ultime note possenti del giubilante “Rendez Vous 4” dell’'86. Corrispettivo abbreviato del movimento ambient di “Oxygene 5”, nella parte 18 rispuntano diamantine le tre note di piano Rhodes gemmate dalla prima traccia, adesso centellinate su uno struggente stuolo aeriforme che potrebbe persistere virtualmente per altri dieci minuti, candidandosi a divenire la protrusione del suo diretto consanguineo emotivo, “An Ending (An Ascent)” di Brian Eno.
Dal prototipico “Windswept Canyon” contenuto in “Deserted Palace” del 1972 discende la levitante marcia trance della parte 19 inizialmente proposta e poi abbandonata per la collaborazione di “Stardust” con Armin Van Buuren.
Siamo ormai in pieno clima para-cinematografico: in lontananza la rumba malinconica di “Oxygene 6” (chiusura del primo capolavoro) veleggia e svanisce tra tuoni e umide minacce di tempesta come la “Band in the rain” a introduzione di “Equinoxe 8”, indicando con arguzia metanarrativa il ritorno su quella stessa spiaggia ora svuotata della risacca del mare e del pigolio dei gabbiani, in attesa dell’ecatombe finale che spazzi via le ultime tracce di vita terrestre. La scalinata purgatoriale di archi e di organi ripresa da quelli protesi da Hans Zimmer verso il buco nero di “Interstellar”, s’innalza con mesta imponenza operistica nei 5 minuti finali, e tra trillanti lamenti trascina e consuma con sé tutte le 20 parti nel piccolo falò crepitante dove vengono bruciate le ultime molecole di ossigeno.
C’è tutto il fardello del quarantennio intercorso tra quel 5 dicembre del ’76 e questo 2 dicembre del 2016 nel desiderio di trovare un rifugio dall’ansia dell’esser condannati a ripetere se stessi. Ecco perché tra le tante pause e vuoti dentro cui vengono lasciati a vibrare e svaporare temi e suoni irrisolti, Jarre sussurra il sortilegio funebre di un’epopea che nella sua natura fondativa ha definito uno stile e un’attitudine artistica, un “élan vital” che ha trasceso le intenzioni dell’autore superando il fenomeno musicale e le tendenze transitorie dei decenni.

Al duplice traguardo dei settant’anni di vita e dei cinquant’anni di attività musicale, Jarre torna a elaborare con zelo psicoanalitico il persistere della memoria di quella che rimane l’opera artisticamente più compiuta della sua discografia, quella suite in otto parti di Equinoxe che alla sua uscita nel dicembre 1978, sull’onda lunga del successo di Oxygene contava già un milione e mezzo di prenotazioni.
Di “disintegrazione in effige” si dovrebbe nondimeno parlare nel caso di questo Equinoxe Infinity (2018). Allo scoccare della terza ricorrenza commemorativa scandita dall’agenda contrattuale dopo Oxygene 3 del dicembre 2016 e l’agiografica compilation di Planet Jarre del settembre 2018, il lionese ricorre in effetti a un pindarico escamotage per eludere i vincoli rituali della messa celebrata “in memoriam” del bestseller, de-costruendo e risignificando quest’ultimo attraverso il recupero di quello che era l’involucro di significanti confezionato intorno alla materia musicale.
I dieci movimenti di Equinoxe Infinity, ora accompagnati da titoli come i capitoli di un libro o di un Dvd, si affacciano e si smaterializzano l’uno nell’altro, cadenzando i tempi scenici della colonna sonora di un ipotetico film in CGI sulle avventure degli algidi ominidi binoculari assimilabili a ieratici “moai” di civiltà aliene, oppure a replicanti, robot, droni antropomorfi, whistleblowers o spy bot.
Tema già declinato in varie tracce del doppio album collaborativo di Electronica, quello del futuro dominato dall’evoluzione esponenziale dell’Intelligenza Artificiale e dall’onnipervasività orwelliana della tecnologia assume qui i contorni di un “roman à clef” iper-testuale, romanzo per suoni e immagini che in chiave manichea intende evocare (più che narrare) la condizione umana pericolante sul ciglio di un futuro sempre più prossimo, modellato tanto sull’epos ottimistico della fantascienza di Asimov, Clarke e Spielberg, quanto su quello distopico di Philip K. Dick, James Cameron, i Wachowski e di quello più plausibilmente sinistro della serie “Black Mirror”.
Ancora più irrituale per Jarre è la preminenza semiotica assegnata al packaging e a tutta la sovrastruttura visiva che (più che negli album precedenti) sembra voler prevaricare e giustificare la fruizione della musica in sé. La decisione di creare una doppia versione della veste grafica poggia sul criterio aleatorio per cui gli acquirenti online vengono tenuti all’oscuro di quale delle due copertine riceveranno, proprio come non rientra nelle facoltà dell’uomo stabilire se il futuro sarà quello edenico simboleggiato dagli osservatori eretti in uno scenario agreste sottoforma di moai dell’Isola di Pasqua, o quello post-apocalittico rappresentato dalla corrusca bruma radioattiva della Las Vegas in cui trova rifugio il Deckard di “Blade Runner 2049”, dove un burocrate magrittiano, la testa dissolta in un pennacchio di fumo, fronteggia le vestigia archeologiche degli osservatori.
Che quella con la temperie psicologica del mondo di K. Dick portato sul grande schermo prima da Ridley Scott e poi da Denis Villeneuve non sia solo una contiguità casuale, lo dimostrano i primi due brani che fanno da antinomica introduzione a “Equinoxe Infinity”. Con le sue cinque note librate a più riprese in un ancestrale audio-dromo flagellato da implosioni oceaniche e trilli digitali, l’overture restituisce l’imponente atavismo idrogeologico di un pianeta in fase di terraformazione nel segno della mesta magniloquenza del Vangelis di “Blade Runner” e “Soil Festivites”. L’inquieto riemergere dei cromatismi beethoveniani della prima parte di “Equinoxe” s’insinua sotto la variazione drammaticamente dissintonica della frase melodica e le barocche sferzate di cimbali che esauriscono il movimento dando l’abbrivio a “Flying Totems”. Nelle prime note il motivo riprende quello epico-trionfale di “Industrial Revolution part 2”, dispiegandolo nella forma di un più misurato e giubilatorio inno che sull’arpeggio serrato dei bassi e di contrappunti metallici eleva un logaritmico peana nel nome del CS-80 svezzato dal maestro di Volos.
A partire da “Robots Don’t Cry” l’album intraprende quasi “ex abrupto” una deviazione lungo la “Route 66” del Pianeta Jarre. I 6/8 della Korg Minipops drum-machine di “Oxygene 2” irrompe sulla scena a scortare il meditabondo jamming di un Mellotron investito del compito di riempire la crisalide del brano, variato nell’intermezzo da emaciate note di piano stillate sulla prateria di Eminent che riprende la dolente aria incantata di “Chronologie 6”.
Ridotti a timidi cenni cosmetici i legami con l’opera del ‘78, nel successivo “All That You Leave Behind”, riflessione sull’eredità che ciascuno lascia al termine della propria vicenda terrena, il tessuto melodico si atomizza in un cinematico motivo di tre note scagliate in una “bouillabaisse” di latrati mortuari, scampanii ed effetti pluviali arcionati a un defilato andante ritmico, presto inghiottito da fosche avvisaglie temporalesche.
Arduo non associare l’angelica discrezione del capitolo transizionale di “If The Wind Could Speak” con la “Band In The Rain” che apriva l’ottava parte di “Equinoxe”. Con il suo indecifrabile balbettio infantilmente androgino che trasvola dal canale sinistro a quello destro per tuffarsi infine in un brioso tripudio di schizzi marini, assume la funzione di ludico interludio tra il primo e il secondo tempo dell’album con l’altrettanto giocoso “Infinity”. L’innesto chirurgico dell’europop sulla verve melodica di Harold Faltermeyer, Ace of Base, Skrillex e Avicii, ammantato dai perlescenti glissandi e dal radioso staccato degli archi di “Equinoxe 5” sferzati in stile “Orient Express”, funge da efficiente parentesi depressurizzante, tale da rendere perdonabile persino la grossolana riproposta di sample vocali in pre-delay riconducibili a una demo satirica del Fairlight di “Zoolook”.
A dorso di digisenquer, dal sapiente retro-kitsch da videogioco in VR di “Infinity”, si scivola di nuovo nel fosco cyberpunk di “Machines Are Learning”, in cui la palpitante sequenza che innervava orizzontalmente la quinta, sesta e settima parte di “Equinoxe” si trasmuta in una schiumante coltura di cromosomi bionici da cui gemmano a turno i vagiti robotici delle prime forme di coscienza artificiale. Scorrendo lungo il personale “endless river” di Jarre, il corso del denso fiume sonoro incontra già il suo estuario nel settimo movimento, ossia la studio version dell’omonima “overture” suonata con un approccio più acustico ad apertura del live tenuto al Coachella festival nell’aprile 2018. Calato nel flusso trascinante dell’album, il brano giunge alfine a maturazione, facendo in modo che l’aggressiva sventagliata di cinque note risponda a quelle più luminose di “Infinity” in grembo all’imperiosa superfetazione techno-electro dei Depeche Mode di “Sounds Of The Universe”. Il portale sul mutamento epocale si spalanca e si richiude, lasciando l’ascoltatore ad attardarsi su una piattaforma orbitale alimentata da un riflessivo pizzicato d’archi che, imperlandosi di gocciolii e vocalizzi aeriformi, tratteggia l’angosciante fase di attesa che verrà ampliata “ad infinitum” nella calcolata infinità della traccia di chiusura.

"Equinoxe Infinity" va a inverare il nucleo del concept che vede gli umani ormai vicini a misurarsi con A.I. creativi in grado di esprimersi con la scrittura di libri, la regia di film e la composizione di musiche originali. Se l’esistenza di programmi capaci di rimontare video e di creare quadri astratti in completa autonomia è ormai un dato acquisito, la recente presentazione di un anchorman virtuale quasi indistinguibile dagli omologhi umani conferisce al “modus creandi” dell’ultimo movimento un peso filosofico meno autoreferenziale e gratuito di quanto possa suonare. L’algoritmo che gestisce il missaggio dei vari “stems”, le cellule sonore costitutive dell’album, rimescolando loop, arpeggi, effetti e brevi motivi melodici secondo parametri inseriti nel software (destinato a essere pubblicata come un’app gratuita) genera solo una delle infinite, potenziali versioni di un’audiografia amniotica inserita tra il “glurp” di Robert Rich e la ambient psichedelica di Brian Eno, The Orb e The Future Sound of London, fino ad affondare le radici nella “Speak To Me” di “The Dark Side Of The Moon”.
Sul finire del crescendo cosmogonico che disintegra e reintegra il viluppo staminale di questi 40 minuti, subentra l’impressione che l’infinità potenziale tesa alla conquista della “singolarità”, ossia l’armoniosa integrazione della psiche umana con il computer, sia ciò che abbia ispirato la ricerca di Jarre sin dagli esordi al GRM di Schaeffer, e che questo album sia l’estremo attestato fisiologico di mezzo secolo di training autogeno.
Ben al di là di un sequel o un reboot, il “requel” di Equinoxe giunge come l’inaspettato colpo di remi vibrato nel fiume del Tempo da un consumato argonauta del suono, mentre altri coevi decani si sono già seduti da tempo sulla riva, ignari o indifferenti ai gorghi che covano la spirale di un Futuro Transumano. Un “coup de theatre” che un Samuel Beckett replicante potrebbe forse ribattezzare con il titolo di “Waiting for A.I.nfinity”.

Tre anni dopo esce Amazonia (2021), sorta di “telaio Jaquard” ordito da Jarre per fungere da colonna sonora della mostra itinerante organizzata dalla Philarmonie di Parigi che raccoglierà le foto scattate da Sebastiao Salgado nella foresta pluviale più grande del mondo, può essere esperita (più che ascoltata) al di fuori della sua contingente funzione di soprabito para-musicale di una collezione di immagini statiche.
Jarre sembra adoperarsi affinché l’algoritmo codificato per l’app “Eon” (rilasciata nel 2019 per IOS&Mac), preposta alla ricombinazione virtualmente infinita e per ogni utente irripetibile di groove, pattern percussivi, effetti e temi melodici sincronizzati con omologhi spettrogrammi artistici sia sottoposto a una sorta di mirato “hackeraggio”. Un sabotaggio volto a riprogrammarne il pilota automatico per dirottarne le dinamiche sulle onde geolocalizzanti di quella distillazione foto-plasmica coagulata nel bianco e nero dell’Amazzonia “spettrografica” di Salgado.
In parte esoterico “calembour” metagrammatico di un compositore mancato, in parte ludico enigma poetico di un pre-surrealista insofferente alle convenzioni di genere, nel libro del francese Roussel “le vingt cinque juin”, il “venticinque giugno” ambientato in un fittizio paese africano raggiunto da una spedizione salpata da Marsiglia, è la data-suono intorno a cui si dispiegano i rituali bizzarri inscenati in onore dell’imperatore Talù durante l’arrivo di un temporale. Tuoni, scrosci di pioggia, fruscii, ribollii, crepitii, pigolii, ronzii, refoli di vento, da sempre tonalità di fondo del suo ecosistema sonoro, vengono adesso diluiti da Jarre insieme ai nastri degli archivi del Museo Etnografico di Ginevra nella capsula di Petri della sua personale visione “fantasmatica” di un’Amazzonia mai visitata fisicamente, ma sentita ed evocata per interposta emozione fotografica intorno a un eterno “vingt cinq juin”, un luogo del tempo che è prima di tutto suono, respiro, allucinazione, sogno, palpito, forza vitale. Un “locus solus” della memoria auditiva che ha percorso sottotraccia la sua produzione musicale a partire dal secondo movimento di “Magnetic Fields 1” ed “Ethnicolor” nella meditata sublimazione pop degli sperimentalismi da “musique concrete”, e che qui torna sul proscenio con rinnovata (sub)coscienza del proprio “perturbante” timbrico.
Sottratto alla sua sudditanza verso l’obiettivo del fotografo brasiliano, all’audiofilo più attento l’ascolto ripetuto dell’album (in particolare nella sua versione binaurale), riserva infatti la sorpresa di un viaggio “centripeta” compiuto a bordo di una funicolare invisibile, sospesa a pochi metri dall’equoreo bisbiglio di un Rio delle Amazzoni che è arteria ancestrale da cui promanano canti, balli, risa e voci autoctone sotto un cielo raschiato dal rombo degli aerei, intrusi mercuriali di quella civiltà tecnologica votata a profanare e cannibalizzare l’atavica sacralità della foresta e dei suoi abitanti.Più che naturale, quindi, che in questa audio-riproduzione “psicogena” di un vasto habitat primordiale, sinonimo e “analogon” vivente dell’inconscio dell’umanità, lo stesso Jarre si abbandoni a una sorta di autopsicoanalisi dagli esiti formali prossimi a quelli della lettura dei disegni di Rorschach, alla scrittura automatica e alla trance ipnotica. Dai rintocchi simil-tribali dell’“oxygeniano” Korg Minipops, che balzella rincorrendo i borbottii e i ronzii persi nella vegetazione, alle due note grevi d’inquietudine di “Oxygene 7” che incarnano il senso di precarietà del biosistema latinoamericano; dalle strida ferine ripescate da “Volcanic Dance” composto per gli show multimediali in Sudafrica, agli arpeggi vocali di matrice ethno-dance più affini, in alcuni momenti, al “Mea Culpa” di “My Life In The Bush Of Ghosts” di Eno e Byrne che a “Diva” o “Woolloomoloo” della sua aborigena controparte “Zoolook”. Il gioco metasonico va così a strutturarsi in un esotico atlante dell’immaginario dove sentieri, anfratti, radure, villaggi, corsi d’acqua non hanno relazione tra loro se non in termini di engrammi.
Dietro l’ingannevole format del classico album ambient da relegare a musica da tappezzeria, si cela insomma l’acquaforte impressionista di un’Amazzonia rinvenuta, con la studiata casualità di un collage di Max Ernst, dall’autorigenerante reiterazione combinatoria dell’impeto ciclico di “Eon”.

Il successivo progetto Oxymore (2022) è un ambizioso omaggio al compositore francese Pierre Henry, scomparso qualche anno prima. Per Jean-Michel Jarre scegliere come titolo di un “gemellaggio postumo” una figura retorica basata sulla forza poetica della contraddizione di due termini rappresenta tanto l’occasione per ribadire la natura ancipite del suo stile musicale, da sempre anfibio tra avanguardia e classicismo, quanto l’ideale soluzione polisemica per conferire una sorta di finalismo circolare alla sua personale avventura creativa nell’allusione fonetica a quel caposaldo della musica elettronica dal quale, per addetti ai lavori e opinione pubblica, il suo nome rimane inscindibile alla stregua di un cognome. Tra Oxygene e Oxymore la trasmutazione delle due sillabe finali non racchiude infatti solo la durata “storica” dei 46 anni scanditi da 22 album e da centinaia di concerti presenziati da un numero ancor più vertiginoso di spettatori, ma anche e sopratutto quella immensurabile di un tempo psichico che Henry e Jarre hanno catturato e preservato nell’ambra intangibile di una dimensione metafonetica dove il neuma, la nota grafica, giunge a dissolversi e rinascere nell’astrazione concreta del noumeno sonoro, il suono in sé, puramente pensato.
Ossimorica dunque è la materia stessa della suite: una fibrillante mantecatura digitale eseguita dall’archichef Jarre nello Studio Innovation di Radio France con i campioni attinti da un archivio analogico di voci, ansiti, pigolii, spifferi, clicchettii, clangori, microrumori e spigolosi rintocchi metallici che Henry aveva collezionato in vista di quella che (al pari del duetto mancato con David Lynch) doveva costituire una delle collaborazioni incluse nel mastodontico progetto corale “Electronica”. Ossimorica l’ambizione di svincolare del tutto la valenza estetica dell'esperienza sonora dal suo corollario visivo, pur essendo più che mai fondamenta e scrigno atmosferico di un “sandbox” estetico-scenografico incarnato dalla optical art “escheriana” della copertina e dalla città in VR di “Oxyville”, modellata nel grisaille fumettistico di un crossover 3D tra “Sin City” e quel “Futurama” la cui sigla di Christopher Tyng non a caso è una variazione della “Psyché rock” composta da Henry nel ‘67. Ossimorica la composizione nell’essere fisicamente abitabile e pertanto artisticamente compiuta fintanto che venga fruita dai ventinove speaker di un impianto Dolby Atmos che tuttavia la maggioranza degli ascoltatori dotati solo di cuffie si troverà a delibare nell’approssimazione emulativa dell’audio binaurale.
Proiezionista del proprio film assemblato con effetti sonori, musiche e rumori proprio come caldeggiato da Henry, sin dall’opening di “Agora”, dove la voce del decano si affaccia dal brulichio elementale di un metaverso oltremondano a guisa di maestro delle cerimonie (trovata introdotta in “Rendez-vous in space” del 2001 usando quella di Arthur C. Clarke e ripreso dai Daft Punk in “My Name Is Giorgio”), Jarre mette subito in chiaro che i successivi 47 minuti aggireranno e più spesso travalicheranno i confini conosciuti della musica “musicata”. A rimbalzare, piroettare e svolazzare su palpitazioni tenebrose e discontinue campiture di tonalità sferrate con la mistica frenesia di un Pollock posseduto dal “daimon” ludico degli Art Of Noise e dei Matmos, le tracce sciabordano e rifluiscono una dopo (e dentro) l’altra, solidificandosi, liquefacendosi e compostandosi tra cremagliere rugginose e viscosi dedali di ritmi e climi dance, orchestral rock, drum and bass, industrial techno e trip-hop, in cui sgocciolature sub-melodiche s’infiltrano ed evaporano non appena si ha l’impressione che l’orecchio li abbia agguantati e addomesticati.
Insieme all’aspro “Brutalism”, scelto come singolo di lancio e oggetto di una prima serie di remix a firma Martin Gore e Deathpact, sono l’inquieta traccia eponima, il grintoso “Zeitgest” e il tempestoso “Epica” a stagliarsi con maggior nitore sopra lo sfrigolio incessante del maelstrom biomeccanico, grazie a una più sorvegliata disposizione di groove, linee di basso, arpeggi corpuscolari, progressioni e granulazioni armoniche che, guarniti dagli immancabili fonemi “zoolookiani”, consentono loro di rivendicare una più meditata autosufficienza musicale. Ed è forse in quell’angosciante espirazione da asfissia che rincalza la ritmica spasmodica di “Zeitgeist” a nascondersi “lo spirito dei tempi”, la chiave con cui interpretare un’epoca soffocata da pandemie, crisi climatiche, guerre d’informazione, operazioni speciali, sociopatia e avvisaglie di apocalissi nucleari. Ancor prima che nella virtualità di realtà artificiali, trovare riparo nel metaverso edenico della musica, in definitiva, può essere già di per sé un modo per affrancarsi dalla dispnea della contemporaneità e scampare all’embolia dell’anima. Un modo per trovare quella boccata d’aria in più custodita dentro le bombole segrete di un immaginario “foto-fonetico”. Il gene mancante di un Dna “metaversale” che l’ascoltatore potrà e dovrà scoprire, chiudendo gli occhi una volta indossate le cuffie per silenziare il frastuono ossimorico del mondo e respirare “More Oxy(gene)”.

Col riconfezionare un anno dopo nel format di “studio album” quella che de facto è una raccolta di remix o, per citare il titolo, “reworks”, ossia rilavorazioni collaborative di brani selezionati da Oxymore, Jarre sembra voler documentare la propria influente persistenza nel panorama musicale contemporaneo, celebrando la valenza “collettivista” di quell’antilogia estetica contenuta nel termine “ossimoro” che sostanziava l’ambiguo quanto divisivo progetto dedicato/ispirato ai dettami della “musique concrete”. Gli artisti convocati dall’“algoritmo Jarre” a rivisitare, anzi, “rilavorare” fianco a fianco in Oxymoreworks (2023) le tracce del suo album precedente hanno dovuto giustificare la loro compresenza all’interno di questo terzo capitolo apocrifo di Electronica, con il cercare di ricavare ciascuno un motivo melodico, un agglutinante ritmico o un personale gradiente sonoro dalla “machina machinalis” di un album disfonico, assemblato nell’assenza di frasi orecchiabili e di un’uniforme tema musicale.
Sotto le mani di Martin Gore, che in questa nuova silloge jarriana raccoglie idealmente il testimone dell’ex-Depeche Mode Vince Clarke coautore di “Automatic”, la ruvidità berlinese di “Brutalism” si converte in una imperiosa e densa divagazione techno-dark, mentre per il demiurgo della ambient Brian Eno l’impetuosità metaversale di “Epica” si sublima in una placida e ariosa trafilatura di voci sequenziale, servita sul sincopato trotto psichedelico della jungle. Da par suo l’elusivo Deathpact restituisce il favore a Jarre che nel 2021 lo aveva onorato del  primo remix della sua carriera  per “Split Personality”, filtrando “Brutalism” in un cavernoso e monotono diorama dance-trance. La seconda declinazione di “Epica” porta la firma mestamente sognante di French 79, che incastella una sfavillante schiera di arpeggi rotanti intorno a un paio di note raminghe carpite dall’ultimo breakdown del brano originale. Con Adiescar Chase la giocosa levità di “Synthy Sisters” si rassoda in una neoclassica variazione dal cotè cinematico che spicca tra tutti i reworks per il meditato scrupolo compositivo con cui riarrangia i vocalizzi sintetici sopra la misurata melanconia di un piano e di un ambrato tappeto d’archi.
Più cursoria e svagata risulta invece la rilettura techno-ambient che la dj siberiana Nina Kraviz propone di “Sex In The Machine”, condita da un sommesso parlottio robotico che nelle intenzioni vorrebbe enfatizzare la cibernetica sensualità già evocata da Jarre. Ed è sempre dalla frenetica scena techno europea che provengono le torpide pulsazioni con le quali la francese Irene Dresel fodera “Zeitgeist”, diluendola in una lunga e fosca marcetta che poco o nulla aggiunge al tenebroso incalzare del brano sorgente.
Ma sarà forse per la qualità intraspecifica delle rispettive dimensioni sonore, acclarata d’altronde con il giubilatorio “Stardust” del primo volume di “Electronica” che l’“Epica Maxima” edificata da Armin Van Buuren sulle ribollenti spoglie della traccia eponima di Jarre riesce a guadagnarsi il proscenio della tracklist, controbilanciando con la sua diamantina carenatura trance la ridondante astrazione rumoristica propalata da NSDOS nel secondo remix di “Zeitgeist”. Riesumando così dalla stratigrafia acusmatica del pezzo un’elegiaca intuizione melodica non distante da quella che animava “Vintage”, uno dei pochi momenti ispirati di quel Teo&Tea prodotto da Jarre nell’epoca di crisi creativa prolusiva al ritorno di fiamma nel 2015, il dj olandese omaggia il maestro senza scadere nella piaggeria emulativa e, insieme a quasi tutte le altre guest star, fa in modo che l’intero progetto non finisca con l’essere soltanto l’ennesima compilation transpromozionale imposta da vincoli e scadenze contrattuali.

Oxymoreworks costituisce a suo modo un'ulteriore  prova di come i binari sui quali Jarre ha ripreso a viaggiare a pieno regime abbiano, a dispetto delle migliaia di chilometri figurati e letterali già consumati, ancora altre e (si spera) più memorabili stazioni musicali da raggiungere.

Jean Michel Jarre

Discografia

La Cage/Eros Machine (Les Industries Musicales et Electriques Pathé Marconi, 1971)

Deserted Palace (Sam Fox Productions, 1972)

Les Granges Brûlées (colonna sonora, Eden Roc, 1973)

Oxygène (Dreyfus/Les Disques Motors, 1976)

Equinoxe (Disques Dreyfus, 1978)

Magnetic Fields/Les Chants Magnétiques (Dreyfus, 1981)

Synthesis (antologia, Polydor, 1982)

The Concerts In China/Les Concerts En Chine (Dreyfus, 1982)

Musique Pour Supermarché (Disques Dreyfus, 1983)

Zoolook (Disques Dreyfus, 1984)

Rendez-Vous (Dreyfus, 1986)

In Concert - Houston & Lyon (Dreyfus, 1987)

Revolutions (Dreyfus, 1988)

Jarre - Live! (Dreyfus, 1989)

En Attendant Cousteau (Dreyfus, 1990)

Images: The Best Of Jean-Michel Jarre (antologia, Dreyfus, 1991)

Chronologie (Dreyfus, 1993)

The Concerts In China, Vol. 2 (Dreyfus, 1994)

Hong Kong (Dreyfus, 1994)

Oxygene 7-13 (Epic/Dreyfus, 1997)

Odyssey Through O₂ (Dreyfus, 1998)

Metamorphoses (Dreyfus, 2000)

Sessions 2000 (Dreyfus, 2002)

Geometry Of Love (East West, 2003)
Aero (antologia, Warner, 2004)
Téo and Téa (Wea, 2007)
Oxygene (New Master Recording) (Cd/Dvd, Capitol, 2007)
Essentials & Rarities (doppio cd, antologia, Dreyfus, 2011)

Electronica: The Time Machine (Sony Music, 2015)
Electronica 2: The Heart Of Noise (Sony Music, 2016)
Oxygene 3 (Sony Music, 2016)

Equinoxe Infinity (Columbia, 2018)
Amazonia (Sony, 2021)

Oxymore (Columbia, 2022)
Oxymoreworks (Columbia, 2023)
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