The Field

The Field

Looping state of mind

Axel Willner alias The Field è tra producer più intriganti provenienti dal Nord Europa. Svedese, in continuo spostamento tra la sua Stoccolma e l'amata Lisbona, negli ultimi dieci anni ha saputo formulare un modello techno teso al raggiungimento di un'estasi perenne, in pace con se stesso e con il mondo. Un intrattenimento elusivo e paradisiaco al tempo stesso, che raccoglie i cocci della benemerita Idm e dell'ambient più dinamica

di Giuliano Delli Paoli

Per comprendere appieno la singolare parabola artistica di un producer del calibro di Axel Willner, occorre in primis rivolgere lo sguardo alle sue dichiarate maggiori influenze: shoegaze, punk, Idm. Un frullato pazzesco da cui il manipolatore svedese ha attinto alla propria maniera e per tutta la sua carriera, trasfigurando quella cosa chiamata techno music in una mescola estremamente evocativa, riconoscibile ad ogni singolo battito. Gli esordi del buon Willner - nato nel sud della Svezia, di stanza a Stoccolma, da sempre amante della tenebrosa e calda Lisbona tanto da trasferirvisi per diversi anni prima di rientrare definitivamente nell'amata capitale svedese - risalgono al 2005, quando, dopo aver tentato di salire alla ribalta con progetti acerbi in scia ambient-drone - tra l'altro caduti in fretta nel dimenticatoio, come il duo Speedwax del lontanissimo 1996 assieme a Ola Keijer, o il primo trascurabilissimo esperimento pseudo-krauto a nome Cardouan del 2003 mediante l'unico Lp intitolato "Love" - lascia il segno con alcuni suoi demo nel quartier generale della benemerita etichetta tedesca Kompakt, a tal punto da ricevere immediatamente un piccolo contratto, cui seguirà la pubblicazione di un suo remix di "Heartbeat" della songwriter norvegese Annie. Nei suoi tre celeri minuti è già contenuto il battito caldo e sognante che caratterizzerà in futuro il marchio di fabbrica The Field. Un'incessante reiterazione la cui frequenza si mantiene ben salda, senza mai scivolare in bpm eccessivi, e restando a galla in un'ascesi che sembra non terminare mai.

A tale intrigante attitudine, si aggiunge una particolare vocazione per sfumature calibrate immaginando il raggiungimento di una qualche volta celeste. Un tessuto a tratti "angelico" e in netta contrapposizione con gli stilemi più aggressivi e peccaminosi proposti dai suoi stessi colleghi. Quella di Willner è una techno a suo modo sognante, che volge lo sguardo al cielo e alle nuvole, piuttosto che alla pista e agli ormoni. Tuttavia, sarà il concetto di loop, la ripetizione intrinseca di certa elettronica da intrattenimento, a incuriosire più di ogni altra cosa il giovane Axel, al punto da dedicarci in futuro un intero progetto, Loops Of Your Heart, da cui nascerà nel 2012 l'unico disco sotto tale moniker: "And Never Ending Nights". Una notte che non conosce fine, quindi. Così come sembrano non conoscere fine i suoi infiniti excursus paralleli antecedenti e postumi la creatura The Field. Oltre al sopracitato Loops Of Your Heart, se ne contano ben cinque: Lars Blek, Cordouan, HANDS, James Larsson e Porte. Cinque piccole maschere con cui Willner giochicchia, tra Ep, remix e produzioni domestiche poco interessanti, per la maggior parte stampate sulla label di casa, la personalissima Garmonbozia. Eppure, ad accecare costantemente la platea e lo stesso Willner sarà la luce emessa a regolare intermittenza sotto le ancestrali spoglie a marchio The Field.

Dopo aver dato alle stampe ulteriori remix di lusso, tra cui spiccano quelli per James Figurines, 120 Days e Battles, l'indomito Axel lancia il suo primo vero Lp: From Here We Go Sublime.
È un richiamo netto al sublime, in cui predomina una vocazione atta a formulare una continua sospensione sensoriale. Willner è un musicista che applica al pop ricombinante - sorta di trasfigurazione di brevi estratti pop attraverso sample irriconoscibili - una tecnica ulteriore, altamente tecnologica, la tecnica del cosiddetto loop o ripetizione. La ripetizione è caratteristica della musica dance, in quanto necessaria al ballerino per tenere il ritmo, ma, a un esame meno superficiale, è molto più che un divertissement per discotecari impasticcati. La ripetizione ha un effetto ipnotizzante sull'ascoltatore, lo costringe a concentrarsi sui dettagli, a percepire anche i cambiamenti più piccoli ("breaks"), a focalizzarsi sull'essenza del brano tramite una sovraesposizione di questi dettagli: "La musica diventa una scultura, più che un percorso", come dichiarava il grandissimo Robert Henke, meglio noto come Monolake, in un'intervista concessa ad Andrew Cooke nel novembre 2005.
From Here We Go Sublime è semplicemente un disco incredibile: il buon Axel prende un insignificante secondo di un'insignificante canzone di Lionel Richie (!) e crea una musica del tutto nuova, dilatata, astrale, eppure così urbana, piena e minimale insieme, dance e ambient insieme, pop e sperimentale insieme. Perché il pop ricombinante è così, può essere qualsiasi altro genere, e non è neanche questa la parte migliore: la cosa più sorprendente è che non c'è neanche bisogno di sapere cosa esattamente viene samplato e ripetuto in milioni di loop.
Mr. Willner è ben consapevole di questo: gioca a celare i suoi plasmidi originali per poi rivelarli improvvisamente, con un effetto-sorpresa degno di un illusionista (non indovinerete mai cosa c'è dietro la title track prima dei 2'15''), ed è impossibile accorgersi che "Over The Ice" non è che la trasfiguratissima visione space-techno (roba che non si sentiva dall'ondata dream-house degli anni 90, da quell'indimenticabile, miliare "Beachball" di Nalin & Kane) di "Under Ice" di Kate Bush.

From Here We Go Sublime pone subito Willner al centro dell'attenzione, al punto che nei mesi successivi usciranno remix di discreto successo per nomi altrettanto osannati, come Sasha, Thom Yorke e The Cinematic Orchestra. Il marchio The Field ha dunque spiccato il suo personale volo nei circuiti underground del Vecchio Continente, ma non solo. Axel gira in lungo e in largo, mettendo in bella mostra la sua particolare creatura, attraverso esibizioni tanto ammalianti, quanto accattivanti, che lasciano il segno e che lo proiettano di scatto tra i producer più richiesti e intriganti della seconda metà degli anni Duemila. La Kompakt giustamente se lo coccola, e nel 2009 viene prodotto il secondo disco: Yesterday And Today.
Fin dai primi sussulti, è un album assolutamente diverso dal precedente e, per svariati motivi, anche decisamente più efficace. Oltre a essere il secondo atteso lavoro di un producer sulla cresta dell’onda, è un'autentica manna dal cielo in ambito techno: suoni continuamente diversi, che si evolvono con intelligenza e con calore, su una ritmica semplice, un 4/4 di quelli che si sentono ovunque. Eppure, ascoltando Yesterday And Today viene da chiedersi come mai nessuno ci abbia mai pensato prima, perché nessuno fosse riuscito a partorire un simile viaggio cosmico nel mondo del beat pettinato.
Le risposte stanno in poche canzoni: sei per la precisione. "Everybody's Got To Learn Sometime" è un pezzo synth-pop aggiornato al nuovo millennio, con melodie che tessono un tappeto sonoro variopinto e incantevole, dando all'ascoltatore l'idea di fluttuare in spazi immensi, in un mondo onirico e splendido. A riportare sulla terra, quella del sudore da dancefloor, ci pensa "The More That I Do", primo singolo e pezzo enorme; qui la dinamica dei suoni e la concretezza del beat diventano una cosa sola, distruggendo ogni dubbio sulle capacità di Willner nel fare un po' di sana legna.
Nel disco predomina la politica della mutazione calibrata. La massa sonora è modellata costantemente da una danza circolare di pulsazioni robotiche, avvolta nel suo orgiastico fluire da sinuose rotazioni magnetiche e da una cassa dritta in techno appeal. In tal senso, "I Have The Moon, You Have The Internet" parte silenziosa, accelera gradualmente, fino a stabilizzare la sua quota, atterrando in coda su un morbido letto di cristalli che ondeggiano in festa. Willner ha senz'altro l'innata capacità di "fotografare" il groove, immortalandolo in un'istantanea di coloratissime proiezioni cerebrali. Ed è proprio nel cuore di questo "scatto", precisamente al terzo minuto di "Leave It", che avviene il vero miracolo: un'onda oceanica di purissima house music, tesa a condurre anima e corpo verso inesplorati paradisi esotici, mostra la sua cresta resta in lontananza, accarezzata da xilofoni sintetici e bizzarrie analogiche.
Sulla medesima scia, un'estasi di battiti stellari e angeliche sequenze, diramati in un'alternanza di improvvise esplosioni funk e squarci di boombassiana memoria, destabilizza l'impalcatura elettronica della title track, prima che "Sequenced" abbandoni definitivamente il globo terrestre, nello stupore più totale.

I mesi successivi all'uscita di Yesterday And Today trascorrono tra una rassegna elettronica e l'altra, ma soprattutto Willner continua a sganciare remix dannatamente singolari per musicisti diversissimi tra loro come Bear in Heaven, Delorean, Errors, Harmonia & Eno '76, Tocotronic, Walls, Wildbirds & Peacedrums, Junior Boys.

Trascorrono ancora una volta due anni, e il producer svedese sforna il suo terzo impasto dal titolo emblematico: Looping State Of Mind. Willner torna alla ribalta sfornando il classico giro di boa. Già, perché se con le prime due prove erano soprattutto l'assiduità del beat e una roboante cassa dritta a regalarci emozioni a iosa, in Looping State Of Mind le cose appaiono decisamente cambiate fin dalle prime, dimesse contorsioni voltaiche di "Is This Power". Stavolta, il manipolatore svedese mette da parte qualsiasi velleità danzante, rincarando la dose attraverso un nuovo percorso emotivo, in cui è un'imprecisata compostezza elettronica irta di ricami glitch a prendere il sopravvento, svelando un po' inaspettatamente uno dei lati più nascosti, regressi e forse meno attesi della sua anima produttiva.

Looping State Of Mind spiazza così gran parte della platea. Willner riduce all'osso qualsiasi ripartenza technoide. Ora il suo intento è appagare i sensi anestetizzandoli attraverso loop continui e dimessi, avvalendosi in diverse occasioni di pachidermiche piroette elettroniche. La ripetizione dei suoi costrutti giace in uno stagno di reflussi armonici, mentre i bpm diminuiscono e risultano dosati a gocce, controllati dall'alto di una nuova armonia interiore. A rimarcare gli aspetti di questa improvvisa mutazione sono l'ipnosi hebdeniana di "Burned Out", il trotto estatico di "Arpeggiated Love" e la struggente malinconia di "Then It's White".
In netta contrapposizione all'umore pacatissimo del disco, è possibile intuire in coda le frattaglie elettriche roteanti di "Sweet Slow Baby", fatte vibrare su un morbido tappeto ritmico che non ne vuole sapere di cambiar direzione, o la riuscitissima "It's Up There", unico vero momento in cui Willner torna a mordere i sensi con calore quasi discotecaro.
Con Looping State Of Mind, Mr. The Field ha quindi semplicemente ridotto la randa con lo scopo di assestare la propria direzione. Del resto, quando si ha il vento in poppa non è affatto semplice gestire la faccenda. Occorrono self-control, una certa pienezza compositiva e una buona dose di coraggio. E per questa sua terza, delicata uscita, al buon Willner non è mancato nessuno di questi tre elementi.

È una prova confortante, che mostra ancora una volta lo stato di grazia del produttore svedese, e a cui segue, tra un remix per i Battles e un altro per gli S.C.U.M, il primo disco a nome Loops Of Your Heart: And Never Ending Nights. È un album che si discosta non poco da quelli generati a nome The Field. Un lavoro in cui è la pacatezza armonica posta sullo sfondo a sollecitare in qualche maniera la fantasia, mentre l'assenza quasi forzata di ritmiche proprie del marchio originario conferisce un'aurea inaspettata, da film muto.
Prende "quota" l'amore per le frattaglie intelligenti degli amatissimi Boards Of Canada e per tutto il movimento Idm dei Novanta, così come l'ovvia strizzatina d'occhio ai sempreverdi corrieri cosmici dei Settanta. Un excursus, una fuga dal progetto primario che non lascia alcun segno, se non quello di un Willner alle prese con un'anestetica pausa di riflessione.

Per nostra fortuna, Axel torna a vestire i suoi panni abitudinali, dando vita al quarto disco a nome The Field nel 2013, dal titolo ancora una volta esplicativo: Cupid's Head. Il produttore svedese riprende dunque il discorso accantonato nel 2011 con il pregevole Looping State Of Mind, mettendo da parte i buoni propositi ambient palesati nei suoi innumerevoli travestimenti-satellite nel corso degli ultimi dieci anni. È quindi nuovamente il concetto di loop a carburare nella mente di Willner. Battito costante e via, a sollevarsi lentamente da terra, senza mai rinunciare ad atmosfere che segnalano una certa spiritualità e al contempo la necessità di evadere dal quotidiano e dal tangibile, confermando per molti versi l'assetto puramente dance di certi suoi andazzi ritmici.

L'idea maturata all'esordio e sviluppata energicamente in Yesterday And Today riacquista valore mediante una dilatazione progressiva del beat. A decollare nell'introduttiva "They Won't See Me" è un groove circolare, sorretto da un lieve tambureggiare in scia house, con tanto di apertura alare al synth a impreziosirne le sfumature. Segue l'ipnotica propulsione dei primi istanti di "Black Sea" e improvviso stop&go al settimo minuto a inscenare impalpabili micro-variazioni minimali.
L'ossessione per la ripetizione intesa come culla percettiva di schemi di fondo ben più articolati caldeggia imperterrita nei sei momenti dell'album. Tale sinapsi produttiva insegue la propria cerebralità nella frastagliante "No. No...", in una corsa affannosa e a suo modo psicotica, fino a rivolgere definitivamente lo sguardo al cielo, quasi a voler raggiungere lo spazio infinito in una roboante celestialità che non concede sosta alcuna (la conclusiva "20 Seconds Of Affection").
Cupid's Head ci riconsegna un Willner rivitalizzato e ancora una volta abile nel camuffare un'elettronica interiormente straniante, puntualmente travestita da purissima dance music. Un piccolo grande miracolo che si ripete a luci basse e in punta di piedi, a conferma di un talento ai controlli che non sembra cedere ai segni del tempo e ai richiami ultra-tecnologici del circuito elettronico nord-europeo.

La pausa più lunga nella carriera di Axel Willner arriva nel triennio 2013-2016. Tre anni di assoluto silenzio, eccezion fatta per l'anonimo The Soul Is Quick, primo lavoro sotto il moniker HEADS, in cui Willner prova a fornire al proprio pubblico, attraverso quattro lunghi movimenti, la propria visione di certo dark-ambient, riuscendoci purtroppo malissimo e dando vita solo a un'effimera e soporifera mescola esoterica priva di mordente. Una caduta nel buio prima di giungere al quinto Lp dopo aver mutato per l'ennesima volta la propria fenomenologia produttiva.

Willner torna dunque a ben tre anni di distanza dall'ottimo Cupid's Head con un progetto per certi versi lontano dal primo passato e dal titolo estremamente legato alle mutazioni comportamentali di massa legate al recente avvento dei social network: The Follower.
Domina ancora una volta la scena una techno sognante, angelica, "spinta" tenendo ben fermo l'acceleratore. Una miscela che punta nell'introduttiva title track tanto a certi umori opachi e deviati in scia Sandwell District, tanto alla consueta (e)stasi altamente emozionale raggiunta veicolando il beat su partiture volutamente pedanti, ma non per questo opprimenti. L'ossessione è piuttosto da ricercare nella volontà del manipolatore svedese di puntare sempre e comunque al raggiungimento di una qualche volta celeste entro cui proiettare le proprie fantasie. Una sorta di dancefloor paradisiaca immaginata tra il cielo e le stelle ("Pink Sun"). Nel disco spuntano anche diversi momenti insoliti per il marchio The Field, come il battito circolare di "Soft Dreams": dieci minuti di luci e ombre emanate attraverso una cassa che proprio non ne vuole sapere di cambiare direzione.
Nuove e morbide rarefazioni ambient dominano la scena nell'"infinita" e ammaliante "Raise The Dead", attraverso la quale, purtroppo, comincia a palesarsi qua e là un vago effetto soporifero. È il rischio di chi insegue la propria estatica fuga dal mondo mediante un suono calibrato al valium, le cui variazioni assecondano fin troppo una certa spiritualità, piuttosto che l'intrattenimento duro e puro del modello di partenza.
La conclusiva "Reflectings Lights" è un palleggio di pulsazioni plastiche atte a tracciare orbite circolari, in un crescendo epico e incessante di tastiere cosmiche che si disperdono nel vuoto, tra bonghi sintetizzati e altre trovate sceniche dalle solite sfumature dreamy.

The Follower ci consegna dunque un Axel Willner ancora una volta intento a inseguire alla sua particolare (e talvolta "cocciuta") maniera una techno tanto favolistica, quanto persuasiva. Stavolta, il delicato e introverso producer di Stoccolma rischia di anestetizzare eccessivamente l'ascoltatore, dirottandolo in alcuni momenti verso il sonno, mentre l'agognato sogno assume via via i connotati del miraggio. Un pericolo che ha invaso solo parzialmente i controlli e i propositi del "vecchio" Axel, ma da tenere ben in mente per eventuali valutazioni future.

A due anni di distanza dal sopracitato The Follower, Willner sistema ulteriormente i propri cassetti, disponendo beat, partiture e armonie sempre alla stessa maniera, persuadendosi (e persuadendoci) fino ad auto-convincersi nuovamente che la propria alchimia dream-techno possa entusiasmare. Una ricetta decisamente collaudata e alla quale il musicista svedese proprio non riesce a rinunciare. Eppure, al netto di una più che scontata ripartizione ritmica e sintetica, il buon Alex si dimostra per l’ennesima volta quel Cicerone alla console in grado di mostrarci senza troppi fronzoli la persuasiva efficacia di certi andazzi. La concezione ciclica del tempo diventa quindi il mezzo ideale con il quale rivestire concettualmente Infinite Moment, sesto disco in carriera. 


L’inclinazione verso movenze ipnotiche (l’introduttiva “Made Of Steel. Made Of Stone”) regna suprema, mentre le rotaie di quello che potremmo definire come una sorta di vagone lento orientato verso il cielo non mutano la propria direzione, e puntano al solito in verticale, in un’ascesa dal passo costante (“Divide Now”). Provate dunque a immaginare un ipotetico party elettronico in cui quella cosa chiamata techno viene ripulita da ogni forma di acidità, e avrete una vaghissima idea del sound targato The Field. Willner si sposta per l’occasione anche su piani obliqui; certo, accade raramente, ma la spirale in cui cade la title track, posta in coda, mostra la capacità del producer scandinavo di saper ancora magnetizzare al meglio.
Non sarà il suo disco migliore, ma Infinite Moment indica la ritrovata quadratura del cerchio di un manipolatore tra i più morbidi ed eternamente sognanti del nostro tempo.  





Contributi essenziali di Veronica Rosi ("From Here We Go Sublime") e Mattia Braida ("Yestarday And Today")

The Field

Discografia

THE FIELD

From Here We Go Sublime(Kompakt, 2007)
Yesterday And Today(Kompakt, 2009)
Looping State Of Mind(Kompakt, 2011)
Cupid's Head(Kompakt, 2013)
The Follower (Kompakt, 2016)
Infinite Moment (Kompakt, 2018)
CORDOUAN
Love (MechanizedMind, 2003)
LOOPS OF YOUR HEART
And Never Ending Nights(Magazine, 2012)
HANDS
The Soul Is Quick(Ecstatic, 2014)

Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

 

Over The Ice
(da Frome Here We Go Sublime, 2007)

  Sweet Slow Baby 
(da Looping State Of Mind, 2011) 
Cupid's Head
(da Cupid's Head, 2013)

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