Toro Y Moi

Toro Y Moi

Il sarto della chill-wave

Che sapore ha la nostalgia d'estate? Come si catturano su nastro le immagini di merende sull'erba, l'eco delle onde in lontananza che s'infrangono sul bagnasciuga, i primi amori sbocciati al tepore del sole? Chazwick Bradley Bundick sta dedicando una carriera intera alla rincorsa dell'adolescenza perduta, uno dei più abili tessitori sonori di sogni giovanili del nostro tempo

di Damiano Pandolfini e Giuliano Delli Paoli

Mentre la critica è intenta a stabilire cosa sia l'hypnagogic pop a colpi di dizionario neurologico, un tipo - probabilmente barbuto e coi jeans a sigaretta! - di Hipster Runoff raggruppa sul suo blog qualche band "dai tratti simili" e ci schiaffa sopra il generico nome di chill-wave (conosciuta anche come glo-fi). C'è chi non approva, chi critica e chi se ne tira fuori, ma la definizione attacca ugualmente. La matrice del suono che si tenta di delineare viene fatta risalire - forzatamente - all'attitudine al collage in bassa frequenza di Ariel Pink, alle fumose atmosfere elettroniche dei Boards Of Canada e alla psichedelia a ruota libera degli Animal Collective e del fuoriuscito Panda Bear, ma in realtà il tutto sfugge alle definizioni di sorta, in quanto non si tratta di un genere propriamente detto, non vi sono stilemi chiave e manca pure una località geografica stabilita (se non, appunto, il web).
Certo però una vaga mescola comune la si può trovare; l'impiego di vecchi synth slabbrati sintonizzati in modalità eighties, l'uso di chitarre sgangherate, ritmiche vaporose che vacillano tra power-pop e funk-r&b, e voci ai limiti della sampledelica registrate attraverso il citofono a ricamare melodie evanescenti. Non solo; volendo, a completare idealmente il quadretto, il neonato non-movimento trova riscontro in un immaginario grafico quasi comune, più precisamente nella mania di musicisti e appassionati di tappezzare il web di colori pastello sbiaditi dal sole come vecchie fotografie dai pixel sgranati, uno stile che - guarda tu il caso - va di pari passo con la creazione di un app per lo smartphone che crea all'istante finte polaroid con patina vintage incorporata perfette per la generazione Instagram. Insomma, c'è veramente tutto il criticabile possibile del confusionario nuovo millennio, tra riciclaggio retromania(co) in terza persona e hipsterate a go-go, ma il fascino evocativo è pur sempre innegabile.

Sta di fatto che i vari componenti involontariamente radunati sotto l'ombrellone chill-wave seguono il proprio istinto personale, ma alcuni se ne chiamano totalmente fuori. Il che è ovviamente comprensibile; non ci vuole poi molto per capire che gli squarci di gioventù dipinti da Washed Out non sono proprio sulla stessa lunghezza d'onda dell'intimità darkwave di Nite Jewel e Chet Faker, mentre un vero e propio soundscaper come Tycho prende le distanze dalle esplorazioni eighties di Neon Indian e le patinature disco di Com Truise, o ancora l'impianto vagamente indie-rock di Yppah suona diverso dalle punteggiature r&b della losangelina TOKiMONSTA e i lisergici assemblaggi di Memory Tapes, e via discorrendo.

Di tutta la combriccola, Toro Y Moi è sicuramente quello dai risvolti jangle e dalle esplorazioni che guardano al dancefloor, ma allo stesso tempo pure quello più power-pop e desideroso di avventurarsi al di fuori dei confini. Come per gran parte del resto degli adepti, il suo stile presenta da subito alcuni limiti - più notoriamente l'esilissima costruzione delle canzoni e una vocetta un po' inespressiva - al punto che, in mancanza di tensione emotiva, il rischio di scivolare nel sottofondo della musica da ascensore è sempre in agguato. Tuttavia, quando l'equilibrio funziona, l'arte del Toro irretisce l'ascoltatore verso il proprio mondo sonoro in un sollucchero ovattato dove tutto sembra possibile, figo e tanto bello. Proprio come il leitmotiv del movimento al quale viene associato, il lavoro del Toro si presenta alle nostre orecchie come una ghiera frantumata in centinaia di colori lanciati nell'etere alla ricerca della perenne estasi della giovinezza. Il formato è totalmente indifferente, che si tratti di album, Ep, mixtape, 7", remix o dj-set (tuttavia questa monografia si concentra sugli album ed Ep).
Ma il percorso di Chaz è anche il più atipico di tutto il giro; partito appena ventenne componendo ridenti bozzetti power-pop con strumenti "veri" come chitarra e batteria, il Toro ha progressivamente inzuppato il proprio suono di elettronica per giungere alla chill-wave propriamente detta dei primi album ufficiali pubblicati sotto l'etichetta Carpark, ma si è poi curiosamente trovato, a cavallo tra il 2014 e il 2015, a riscorporare la componente electro dal suo suono mediante l'alias Les Sins, per poter proseguire nuovamente su sentieri pop/rock in qualità di Toro Y Moi e lo spiazzante album What For?. Un occhio allo stile, uno alla tastiera e uno alle chitarre: il ragazzo ci sa fare.

Chill with me

toro5220Columbia, South Carolina; Chaz Bradley Bundick, classe 1986, è il tipico ragazzo di cittadina di medie dimensioni dei gentili bordi d'America, studia graphic design e suona in una band studentesca con i compagni di classe. Tra i suoi amici si conta soprattutto Ernest Greene - in arte Washed Out - col quale stringe un rapporto fortemente basato sullo scambio musicale, formando uno dei pochi nuclei effettivi ai quali poter far risalire questo non-movimento chiamato chill-wave. Ma in quegli anni Chaz ha un approccio autistico totalmente fai-da-te, e si avvale della tipica strumentazione chitarra/batteria/basso per dar corpo agli stralci di pensieri e parole che formano le sue disarticolate - quanto incantevolmente innocenti - composizioni. Il ripescaggio del passato viene dunque assimilato attraverso ascolti casuali di vecchi vinili anni 70 e 80, e poi rielaborato in un'ottica indie che trasforma il dimesso in estetica vera e propria. La scelta stessa di un nome d'arte disarticolatamente poliglotta franco/spagnolo come Toro Y Moi sembra quasi voler giocare col senso di non-appartenenza, o al massimo sottolineare con ironia post-moderna il sangue misto del suo Dna, dal momento che Chaz è figlio di madre filippina e padre afro-americano, ma allo stesso tempo nessuna delle due culture appare preponderante nella sua arte.
Anzi, il suo primo vagito in assoluto Woodlands (2007) è un demo album composto da bozzetti acustici scanzonatamente giovanili e totalmente americani nel midollo, un prodotto casereccio votato al cazzeggio in camera tra un compito di matematica e il messaggiarsi via Facebook con la tipa carina della quarta C. L'ascolto si muove tra il folk della stessa "Woodlands" e il gentile arpeggio di "New Loved Ones", momenti gioiosamente lo-fi ("Ektelon"), divertenti virate power-pop ("Carolinas", "Girl Problems"), e una "Can't Hold This Stance" che, tra piano picchiettato e coretti alticci, sembra quasi un pezzo britpop di marca Supergrass.
Woodlands non è mai stato stampato ufficialmente e lo si può trovare solo in formato digitale, ma si ascolta con piacere perché, nella sua istintiva semplicità e schiettezza melodica, ha già esposta tutta la poetica del personaggio Toro Y Moi: spensieratezza e vento d'estate a far da contorno a un barbecue arrangiato sul tetto di un palazzo in pieno centro urbano.

Le cose prendono forma con la seconda raccolta My Touch (2009), altro demo album mai stampato e apparentemente destinato a nessuno, che invece col tempo è diventato uno dei punti fermi per i suoi fan (e probabilmente per la chill-wave tutta). Le cose in effetti si fanno ben più interessanti; lasciati da parte gli strumenti tradizionali, Chaz scopre ufficialmente il sintetizzatore e la miriade di possibilità che questo gli consente. Così i vecchi bozzetti indie-guitar del passato si trasformano in giostrine elettroniche e girotondi psichedelici ("Deep Routes", le ottime "Such Bad Handlings" e "Bend Your Body"), momenti quasi da dancefloor come le bordate dell'intermezzo "Existance Music", il synth-pop con organetto in sottofondo di "Master Of None" (cover velocizzata del celebre pezzo dei Beach House), e il fighettume di "Lesson 223", ma anche le curiose particelle elettroniche in salsa videogioco di "Take This". Il Toro inizia a divertirsi, insomma, spippola sui tasti bianco/neri e gira le manopole sfumando a piacere il suono in echi e riverberi. Sembra un controsenso, ma sbiadendo la formula paradossalmente My Touch assume un significato più marcato. Sarà ancora una forma embrionale, ma il "tocco" si sente già tutto.

L'ingresso nell'olimpo del web avviene, ovviamente, nel modo più vergognosamente hipster possibile: la pubblicazione - attraverso la Mirror Universe Tapes - di una cassetta in edizione limitata a 100 copie, Body Angles (2009). Il Toro è fuori di melone. Gli oltre 9 minuti dello strumentale "Night Body" - tra intarsi di chitarre indiane, torpori psichedelici e continue scivolate armoniche verso l'astrattismo più totale - segnano l'ingresso ufficiale nel mondo dei sogni: lasciate da parte la ragione, o voi che entrate, e fatevi irretire dalle trame sonore di questo scombinato viaggio extra-sensoriale ai confini dell'effettivo significato della parola "chill". Ovunque si posi l'orecchio, si trovano chitarre in bassissima fedeltà, come nel ritrovato rock'n'roll velvettiano di "Do The Stuff" con la voce appena udibile sotto lo sferragliare, o l'inconcludente intermezzo di "Can I Know" che sembra poco più di rumore rappreso. E invece, dal nulla, ecco apparire lo stratosferico beat ovattato dell'unica "canzone" presente sul lavoro, "Time Pleasure", che è da subito un piccolo classico della produzione del Toro.
Nulla ha senso, insomma - what the fuck? dicono gli americani - Body Angles è senza ombra di dubbio il biglietto da visita più fuorviante della storia, una vera hipsterata che però mantiene mirabilmente fascino attraverso il polverone. Poteva anche finire qui in effetti, ma fortunatamente per Chaz la Mirror Universe Tapes ha il suo bel giro di pubblico, e la particolarità del formato cassetta attrae le attenzioni dei più attenti alle "novità" (!) che iniziano così a far rimbalzare il suo nome da una piattaforma digitale all'altra. L'invito a entrare nella scuderia della Carpark - etichetta indipendente nativa di New York - è ormai imminente. Body Angles vale comunque la pena di essere ascoltata, magari in digitale visto che le cassettine originali passano di mano in mano per cifre non indifferenti (senza contare oltretutto lo sbattimento di dover salire in soffitta a riprendere l'apparecchiatura per poter ascoltarne una).

Curiosamente, però, prima dell'arrivo del debutto ufficiale, Chaz ha il tempo di immettere un'ultima fatica autoprodotta in rete, un Ep di 7 tracce rilasciato sotto l'alias Sides Of Chaz e venduto in formato promo durante gli show di Caribou per il quale sta facendo da supporto in quei mesi. Le due righe di accompagnamento stampate sul retro della copertina recitano testualmente: "Queste canzoni sono state i miei primi tentativi di registrare canzoni come esperimento senza pianificare né scrivere niente in anticipo. Alcune sono strane, altre suonano bene. Queste canzoni hanno cambiato il mio modo di scrivere musica per sempre. Divertitevi - Chaz".

Sides Of Chaz (2010) si presenta dunque come una raccolta di bozzettini altamente scoordinati e in forma libera che lasciano totalmenente spazio all'atmosfera in una sorta di sogno lisergico senza alcun punto di riferimento. La verità però è che, feticcio o meno, Sides Of Chaz lascia davvero troppo al caso per poter essere preso sul serio, non tanto per la mancanza di forma, quanto per l'assenza di quel briciolo di grinta che aveva reso la straniante cassettina Body Angles un episodio tutto sommato affascinante. Tuttavia, chi possiede una rarissima copia di Sides Of Chaz la conservi gelosamente.

Carparked

toro3220Nulla toglie il fatto che l'era internettiana sia naturalmente zeppa di hype, sottogeneri e next big thing, al punto che sono in molti a nutrire perplessità circa la longevità e l'effettiva consistenza del fenomeno in questione. In un clima del genere, ovviamente, il debutto su etichetta del già chiacchierato Toro Y Moi si presenta nel marasma con vero e proprio un tuffo di testa. Ma Chaz sa come giocare i suoi undici assi con la sicurezza del compositore ormai tutto casa e synth. Causers Of This (2010) ripesca, allunga, ed espande il pur recente trascorso verso nuovi lidi coniandone definitivamente l'estetica; è hypnagogic pop, glo-fi, chill-wave, nostalgia canaglia e chi ne ha più ne metta.
Pensate a un castello di gommalacca con i piani collegati tra loro da scale pop-troniche, consolidate (si fa per dire) da un groove morbido e fluttuante. Un juke-box moderno, dominato da partiture elettroniche trasognate e fluorescenza ritmica al Valium (il bel singolo "Blessa"), nel quale è la rarefazione sintetica a fare da padrona ("Minors").
Il gioco funziona davvero, Causers Of This appare curato e capace di proiettare, con attitudine odierna, la memoria sonora verso tutto ciò che abbondava nei meravigliosi Ottanta, privilegiando l'aspetto per certi versi più allucinato e adolescenziale ("Thanks Vision"). Toro Y Moi fonde così ritmo, bassa fedeltà, ricerca retrò ed evasione ipnagogica in un'esperienza armoniosa da condividere senza indugi, meritandosi tutto il rispetto e una considerevole attenzione che difatti giunge puntuale. Il giro di ruota è innescato, il debutto prende quota, non tanto in classifica (ovviamente) quanto sulla bocca degli esperti di settore e degli ascoltatori più avanzati. Tra gli esponenti della cosiddetta chill-wave il nome Toro Y Moi diventa pane quotidiano.

Passa un anno appena e Chaz torna ad affacciarsi sul mercato indipendente, mostrandosi già sotto altri colori e pronto a seguire nuove tendenze. Per Underneath The Pine (2011) Chaz rianima il suo Toro dal sonno attraverso un'iniezione di suoni rigorosamente eighties, fatti vibrare con garbo in un andamento decisamente più funky. E così in Underneath The Pine le fluorescenze chilly al Valium dell'ottimo debutto diventano solo comodo pretesto per arricchire di sfumature e sezioni. Stavolta, Bundick punta ad addolcire l'impasto con inserti soulful suonati in grande stile e pacatezze strumentali ai limiti del kitsch da telenovela ("Divina"). Ogni singola traccia di questo secondo disco evidenzia una patina sonora impalpabile solo all'apparenza, ma che rende ulteriormente trasognata la faccenda. D'altronde, basta adagiare i timpani verso ballad acustiche del calibro di "Before I'm Done" per annusare una nuova direzione. In sostanza, il nuovo talentino della Carpark va avanti abbandonando ulteriormente la propria epoca e proiettandosi a testa bassa in un immaginario mai vissuto in prima persona (considerata l'anagrafe), con l'intento di renderlo stabile dimora delle proprie percezioni musicali.
Il risultato entusiasma in diversi momenti, ma pone dei limiti al potenziale espresso in precedenza. Perché con Underneath The Pine il Toro sguazza con una certa scioltezza nella disco music in salsa soul più gaia ("New Beat), gioca con i colori dei suoi tasti, insegue arcobaleni, ma incoccia anche in futili andazzi sdolcinati ("How I Know"), francamente superflui, in un'alternanza fragile e birichina di assi ben giocati e evitabili azzardi. Ma nelle retrovie, la spensieratezza di "Still Sound" serve solo a ricordarci che tutto sommato Chaz è ancora un ragazzino, e in fondo va anche bene così.

Invece, a conferma dei suoi raggianti venticinque anni, il ragazzo del South Carolina si ripresenta prontamente lo stesso anno in gran forma senza davvero conoscere tregua. Instancabile manipolatore e campionatore sempre più meticoloso di suoni e umori eighties, l'Ep Freaking Out (2011) perfeziona ulteriormente il suo caliente microcosmo costellato da morbide collisioni chilly e briosi vezzeggiamenti synth-pop, a descrivere un immaginario fantasioso quanto pur sempre dirottato verso spiagge assolate e malinconiche risacche. Basso funky rafforzato, synth irresistibile ed ecco partire "All Alone" in un susseguirsi di giravolte elettriche e hula-hoop sintetici. "Freaking Out" raccoglie il testimone e accende nuovi colori dando l'impressione di girare su una giostrina posta ai bordi della spiaggia; "Sweet", poi, accelera e mostra scenari del tutto inaspettati, con Chaz che remixa se stesso in un incredibile tambureggiare retro-futurista.
I toni si fanno pure decisamente più morbidi ma non per questo meno accattivanti, delineando anzi un crescendo estatico come quello di "Saturday Love" (rifacimento di un vecchio pezzo soul di Cherelle). Ma la vera apoteosi risiede tutta in "I Can Get Love": cassa dritta, pulsazioni liquide, stop&go di gran classe, e via alle danze. Bundick ingrana la sesta e supera tutti.
Purtroppo, al momento Freaking Out rimane solo uno splendido caso isolato, ma che sintetizza ed espande il concetto di chill-wave verso nuove vette senza dimenticare l'importanza della fruibilità del sogno, che non dovrebbe mai esser troppo lungo. Un Ep conciso e perfetto, da gustarsi ad occhi chiusi come ideale scappatoia dal gelido inverno e dalla grigia quotidianità.

Il nome di Toro Y Moi ormai è nell'etere e sulla bocca di tutti in qualità di nuova stella di casa Carpark, al punto che prontamente arriva la prima compilation June 2009 (2012). Ovviamente non si tratta di un best of, bensì di una serie di vecchi pezzi (ri)registrati nel giugno 2009 in un periodo particolarmente prolifico e di grande importanza personale per lo sviluppo musicale dell'autore - un vero e proprio "momento nel tempo" catturato su disco se vogliamo, come del resto la chill-wave si prepone di fare da sempre. Appaiono quindi vecchie conoscenze dell'era Woodlands quali "Ektelon", "Girls Problems" e "Dead Pontoon", ma anche la prima stesura di "Talamak" (da Causers Of This). In generale, l'album è una raccolta di pezzi lo-fi con minimi intarsi elettronici e nostalgici languori di sorta ("Warm Frames"). Chissà, forse June 2009 sarebbe potuto essere un album vero e proprio, magari proprio il debutto stesso della creatura Toro Y Moi, ma tutto sommato forse è meglio che le cose siano andate come sappiamo. Stilisticamente "indietro" rispetto sia a My Touch che a Causers Of This, la semi-raccolta June 2009 è in realtà più una curiosità per aficionados, o magari per quelli che vogliono esplorare il sound del primo Toro Y Moi in versione chitarristica senza doversi andare a cercare e scaricare i vecchi demo mai pubblicati ufficialmente. Di certo, però, nel 2012 June 2009 suona già anacronistico rispetto a quanto sta accadendo sia nella carriera di Chaz che nel resto del microcosmo chill-wave.

Verso nuove frontiere: il pop, il dancefloor, il futuro e un ritorno al passato

tymm220x270Per quanto frammentario sia il suo stile, e totalmente confusionario il modo in cui butta in rete qualunque cosa registrata creando una giungla infinita di materiale (impossibile da catalogare in un articolo come questo), Chaz Bundick ha sempre le idee chiare quando si tratta di fare un album vero e proprio. Col terzo disco in soli due anni, Anything In Return (2013) punta definitivamente al pop e a una mescola sonora i cui ingredienti sembrano non esaurirsi mai. Se con il precedente Underneath The Pine la svolta era solo abbozzata, e i sentieri calcati decisamente più funky, stavolta il buon Chaz sistema a dovere tutti i cassetti del proprio tavolino da caffé, migliorando la produzione e conferendo alla struttura dei brani maggiore incisività melodica e minore dispersione ipnagogica. Nonostante la strumentazione resti praticamente immutata, tra tastierine eighties e quant’altro, il Toro sembra aver trovato un nuovo equilibrio, coadiuvando con discreta nonchalance le evasioni sintetiche dell’esordio e i vezzeggiamenti synth-pop dell’ottimo Ep Freaking Out, senza tuttavia rinunciare a una morbidezza di fondo che contraddistingue fin dal principio il suo stile (“Touch”).

Anything In Return si presenta dunque come un lavoro timidamente ambizioso e ben curato in ogni sua singola sfumatura. E’ il classico disco della maturità, conferma di un talento sbocciato in tutto il suo splendore. In esso prendono quota diversi momenti, dagli svolazzi orientaleggianti di “Studies” al groove soffice e vagamente sognante di “Harm In Change” con tanto di stacchetto lounge sullo sfondo, passando per le pulsazioni liquide e stranianti di “Grown Up Calls” fino a giungere all’incedere tenero e fascinoso di “Day One”. Ciò che oggi contraddistingue la musica di Toro Y Moi è la formidabile capacità di creare un mondo a sé stante, fatto di reminiscenze soul, arpeggi funky, bordate chill-wave e lontane fughe esotiche. Un ritorno in grande stile e tanta, tantissima classe da vendere.

Ma che al buon Chaz Bundick piacesse tanto giochicchiare anche con la console è cosa ampiamente risaputa da tempo. Il progetto Les Sins rappresenta dunque l’evasione elettronica definitiva di questo timido ragazzone della South Carolina. Un’attitudine parallela evidenziata nel precedente 12” "Lina" (2010), entro cui calare nuove diramazioni ritmiche dall'umore certamente più fruibile di quelli mediamente segnalati nel trasognato modello di riferimento. In questo primo Lp sotto tale pseudonimo, intitolato semplicemente Michael (2014), prendono il sopravvento inaspettate e talvolta stucchevoli trame lounge (“Bellow”), incastri melodici dal sapore neo-soul (“Why” in compagnia di Nate Salman), arditi svolazzi sintetici (“Toy”) e qua e là tastieroni giocattolo (purtroppo) clamorosamente evanescenti nel loro vagheggiare pseudo-esotico.
La resa non è certamente delle migliori e al caro Chaz sembra mancare a più riprese quel mordente richiesto da tali lidi. Parimenti, l’evasione ipnagogica degli esordi, tanto straniante quanto cullante, è definitivamente accantonata in favore di una ricetta elettronica priva di identità.
E’ come se Les Sins avesse smarrito improvvisamente la propria strada, svoltando per puro caso nella prima traversa illuminata, e finendo per scambiare una fioca luce per esilarante scorciatoia musicale attraverso la quale sondare nuove smanie produttive. Insomma, in questa prima prova nelle vesti di Les Sins, Chaz è finito senza troppi fronzoli nel più impervio dei vicoli ciechi, rovinando così in parte le più lecite aspettative nei suoi riguardi. Michael è un leggero incidente di percorso che gli perdoniamo ad occhi chiusi vista la bontà del suo cammino principale.

Ma Chaz non si ferma; nonostante gli esiti non proprio esaltanti a nome Les Sins in pochi mesi ha già pronto l'ennesimo album a nome Toro Y Moi - What For? (2015) - iniziando onestamente a far vacillare quell'idea di genuinità che aveva reso la chill-wave un fenomeno tanto colorato quanto passeggero. E invece Chaz a questo giro imprime una svolta che davvero nessuno si aspettava: mette da parte il computer e si dà all'indie-rock, creando un album suonato da cima a fondo, con batteria, riff e feedback di chitarra elettrica, persino un filo di piano. Certo la forma-canzone rimane sfilacciata come da copione, così come quella vocetta che non cambia davvero mai di tono e che rende il tutto eternamente solare e scanzonato, ma col passare degli ascolti pezzi come "The Flight" e "Empty Nesters" tornano a prendere quota, rivelando una ricchezza di suoni tutt'altro che banale (chi suona la chitarra, Frusciante?).
Stesso dicasi dell’introduttiva “What You Want?”, tra echi beatlesiani, giretti dreamy e un’improvvisa distorsione elettrica a segnalare nuove possibili commistioni stilistiche. La successiva “Buffalo” torna a manifestare con garbo suggestioni soulful degne del tardo catalogo Motown, gli umori pianistici in salsa lo-fi di “Ratacliff” immergono l’ascoltatore nel consueto climax svagante e trasognato, mentre i morbidi echi vocoderizzati di “Lilly” conducono a una spirale melodica a tratti atonale.
Da sotto la coltre il Toro si mostra un musicista certamente consapevole dei propri mezzi, che ama ancora giochicchiare con il passato (si prenda ad esempio supremo il giretto funky di “Spell It Out”), ma senza perdere mai di vista l’orizzonte, a tratti addirittura elettrificandosi al punto giusto, tra serenate ubriache di felicità (“Run Baby Run”) e vere e proprie ballad folkloristiche certamente più immediate, soprattutto se raffrontate ai passati costrutti armonici di natura prettamente chilly (la conclusiva “Yeah Right”).
 
E con questa specie di "ritorno a casa" per il momento ci fermiamo pure noi. La chill-wave ha fatto il suo tempo, giunti al 2015 What For? è in fin dei conti un album fuffoso e autocitazionista, volutamente sbadato nell’andazzo e a suo modo inafferrabile, ma è il Toro stesso - gran furbastro - a farsi la domanda prima di noi: what for? A nulla, appunto. Ma l'arte di Chaz continua a colorare l'etere di bozzetti pastello che indispensabili non lo sono di certo, ma piacevoli più che mai.

Samantha (2015) è l'ennesimo passo di traverso; un mixtape rilasciato a sorpresa e scaricabile gratuitamente attraverso Dropbox. Momenti electro-r&b, sentori di abstract-hip-hop, lievi droni in aria ambient e sampledelica della più selvaggia, danno vita a 50 minuti di personalissime divagazioni casalinghe, chiaramente cucinate da un onnivoro della Rete e destinate al popolo onnivoro della Rete. Un ascolto funzionale al sottofondo, per via del modo fin troppo frammentario col quale sono stati assemblati e tagliati i pezzi, anche se il progetto non è privo di un certo fascino (e su "Enough Of You" fa presenza l'acclamato collega Nosaj Thing).

Verso il futuro: deserti, impro-jazz, psichedelia & il ritorno del funk

Sulle prime, l'arrivo del Live From Trona (2016) sembra proprio una bella idea. La copertina è splendida perché la location prescelta è un suggestivo spaccato del deserto di Trona, California. Il Toro e la sua crew montano un palco nel bel mezzo di un paesaggio roccioso e alieno, e la line-up - arricchita dalla presenza dei due gemelli omozigoti jazzisti The Mattson 2 - sembra pronta a dar vita ad uno show ai limiti della percezione lisergica.

Ma presto arriva il lato B della faccenda. Il Live From Trona non è un concerto vero e proprio, dal momento che manca l'ingrediente principale: il pubblico. L'intero show infatti viene concepito da Chaz quasi come uno sfizio personale, una scampagnata fuori porta con la band con la quale sta girando gli Stati Uniti in supporto dell'ultimo album. Non ci sono biglietti da comprare, insomma, e la mancanza di pubblico si risolve purtroppo in un'assenza di energia che le canzoni da sole non riescono a risollevare. Con la registrazione fin troppo pulita (e il silenzio del deserto attorno), il risultato è una versione in presa diretta di alcune canzoni tra i dischi piò recenti, ben eseguite ma prive di quel piglio che solitamente aiuta i dischi dal vivo ad avere senso di esistere.
Pic or it didn't happen, recita l'inossidabile mantra del Web. Toro Y Moi oltre alla pic c'ha fatto pure un film e un doppio vinile per dimostrare che l'esperienza è avvenuta davvero, e guardare il supporto visivo fa sempre il suo effetto. Ma a noi rimane comunque l'amaro in bocca per non esser stati manco invitati.

Nel momento esatto in cui l'abusato revival degli anni 80 sembra essere un attimo scemato (revival che lo stesso Chaz ha ampiamente saccheggiato ai tempi di mini-classici come Causers Of This e Freaking Out, potrebbe anche arrivare il turno degli anni 70 - se per 70 intendiamo psichedelia lisergica, surfin' in California, blacksploitation (vedasi i recenti lavori di gente come Adrian Younge e Childish Gambino) e un abusato e stereotipato ma pur sempre evocativo immaginario a cavallo tra Tarantino e i fratelli Cohen. Tutto in regola come retromania comanda, insomma: niente di nuovo, ma tutto accuratamente confezionato in un bel pacchettino per la gioia del consumatore post-moderno colto in un momento di nostalgia.

Stavolta in veste ufficiale assieme a Jared (chitarra) e Jonathan (batteria) Mattson nasce Star Stuff (2017), naturale prosecuzione del modo in cui, in fin dei conti, entrambi amano evocare scenette decostruttiviste con pochi semplici tratti: i gemelli tramite l'impiego di una strumentazione d'effetto, Chaz con software, sfumature di manopole ed esilissime linee vocali. Il risultante mix presenta un accattivante suono organico che nasce già collaudato, ma questo dai lavori di Chaz ce lo si aspetta comunque.

Quel che non cambia è il modo in cui anche Star Stuff avanza in un altalena dolce-amara fatta di piccole emozioni e momenti di distrazione. Si parte con l'indubbiamente suggestiva "Sonmoi", che cavalca attraverso il profumo di spezie esotiche e fa apparire e scomparire la chitarra in mille effetti diversi, ma si fa sosta sul breve e incongruo bozzetto quasi-funk di "Steve Pink", si traballa poi dalle vecchissime tastiere di "A Search" agli spaziosi 8 minuti di "Don't Blame Yourself", dove la batteria prende il sopravvento attraverso gioiosi cambi di ritmo, mentre la vagamente più cupa "Cascade" chiude il disco con accenni quasi space-western.
Non si può certo richiedere una struttura solida dalla formula della jam session, ci mancherebbe, Chaz e i Mattson 2 su questo hanno piena autonomia d'espressione e il modo in cui spaziano attraverso ritmi ed armonie crea paesaggi sicuramente suggestivi. Ma, almeno su un disco di studio, calzare di più sull'interpretazione vocale, o adottare un suono più muscolare in certi frangenti, avrebbe sicuramente giovato alla realizzazione di qualcosa di veramente memorabile e non solo carino a pelle.

Chaz - eterno pointilista in un mondo di pennelloni - preferisce ancora una volta rifugiarsi nel suo mondo fatto di sogni, idee strambe e disegnini, sempre ad un passo dall'auto-referenzialità. Atmosfera contro forma e sostanza, scherzetti in buona fede contro tecnica seria e sudata, pennellate di sentimenti contro espressioni di senso compiuto: là fuori è in atto una lotta continua, alla quale l'evanescente musica di Chaz Bundick continua a partecipare proprio svogliatamente, sia che faccia jazz, chill-wave, indie-rock o l'electro-house a nome Les Sins. Ma alla fine, quanto di questo è poi così importante nel momento in cui - finalmente - esce il primo vero sole dell'anno?

Messe da parte tali divagazioni psych-jazz, Bundick torna a vestire i panni di Toro Y Moi, dando vita ad un ritorno dal titolo sbarazzino: Boo Boo. Ad accompagnare l’uscita dell’abum, è la diffusione di un cortometraggio nel quale appare lo stesso Chaz alla guida di un furgoncino in una giornata di sole intenso mentre scorrono una dietro l’altra le varie tracce, tra un cambio di inquadratura attuato semplicemente passando da un finestrino posteriore all’altro, e riquadri che si sovrappongono all’inquadratura principale nei quali compare immerso nelle sue tastiere, nel suo studio e nel suo piccolo mondo. Ad un certo punto del video appare anche una scritta “Reality's tight if the music is right” postata lo scorso anno dal musicista californiano chill-wave GORV sul suo profilo twitter.


Fin dalle note iniziali di “Mirage” prende forma, per l'appunto, una sorta di miraggio entro cui il buon Toro Y Moi cala la propria appagante e appagata arte combinatoria interamente votata al ripescaggio di soluzioni pop caldissime e ritmi trasognati dei sopracitati 80s. Pur trovandoci dinanzi ad un’operazione ben nota, e già ampiamente formulata dallo stesso Bundick fin dai suoi esordi, stavolta il tutto appare tremendamente meno sfocato e al tempo stesso sospeso in una sorta di magico equilibrio melodico e produttivo. L’intenzione di partenza resta quella di condurre l’ascoltatore verso qualche imprecisata spiaggia californiana, spesso e volentieri verso qualche atollo insito nel nostro personale cassetto della memoria; un non luogo a suo modo incontaminato dalla fugacità e dal grigiore del presente, e nel quale rivivere per alcuni momenti la beatitudine e la spensieratezza di quegli anni.
Scivolano così una dietro l’altra le varie “No Show” e “Pavement”, tracce in cui la melanconia ipnagogica anestetizza anima e timpani, fungendo così da collante periferico alla progressione concisa e trascinante di “Mona Lisa”, una delle poche canzoni del lotto afferrabili fin dal primo ascolto; uno dei potenziali singoli del disco, assieme alla vaporosa e cupa “Don’t Try” e alle cullanti ed estatiche sospensioni di “Windows”. 


Boo Boo
ci regala un Toro Y Moi ispiratissimo e sempre più fedele alla propria linea. Una linea che tanti continuano ad inseguire con clamoroso ritardo, che tanti porteranno ai piani alti delle classifiche di mezzo mondo, ma che in pochi potranno vantarsi di aver raggiunto e afferrato nei tempi e nei modi “illibati” e soavi del buon Chaz.

A gennaio 2019 è il turno del sesto album, Outer Peace. Tastierine acidificate a puntino, basse gommose che sballonzolano qua là sulla pista, groove impastati di salsedine e mojito: niente di nuovo insomma, se non la solita rinomata classe nel saper far muovere i fianchi al ritmo della sue vibrazioni psichedeliche. 
Outer Peace è disco music per chi ha attraversato l’estate della chillwave e ne è rimasto indelebilmente folgorato. Più che una raccolta di canzoni, è un mix di 30 minuti che scorre via sciolto e frizzante. Forse mancano le hit che impreziosivano il precedente Boo Boo, ma Chaz resta un fuoriclasse nel fare esattamente quella cosa lì che ti aspetti da lui, e che continua a fare come Cristo comanda (leggi: “Fading”, “Ordinary Pleasure”, “Freelance”).
E alla fine basta questo, perché è esattamente come quel cocktail fresco ai frutti tropicali che bevi ormai da anni allo stesso chiosco: gli ingredienti son sempre quelli, senza sorprese, ma quanto è buono d’estate.

Ritorno al rock

Giro di chiavi, motore che sbuffa un paio di volte prima di mettersi in moto e via che si parte con l’ascolto: come da copertina, Mahal (2022) non fa segreto di uno spirito on the road, come il più classico telefilm indie nel quale il viaggio d’avventura dello scanzonato protagonista si fa presto metafora del coming of age tanto caro alla cultura americana.

Ma nel caso dell'ormai trentaseienne Chaz, questa dolciastra attitudine naif sta assumendo le sembianze di un eterno continuo nel quale la crescita sembra bandita. Neanche la pandemia ha saputo scalfire questi pavidi tepori giovanili e ogni attrito emotivo viene nuovamente smarrito tra montagne di riverbero e canzoncine a malapena accennate. Se in passato la veste glo-fi forniva un’affascinante astrazione lisergica, “Mahal” riparte dalle stesse sessioni della prima svolta rock di What For?, facendo chiaro uso di chitarre elettriche e ritmi funk su produzione analogica granulosa e psichedelica. Su carta suona pure interessante, ma trovare momenti memorabili è purtroppo impresa ardua e Mahal naufraga immediatamente in quaranta minuti tondi di collage sfilacciati che girano a vuoto.

La corpulenta introduzione strumentale di “The Medium”, arricchita dalla presenza di Unknown Mortal Orchestra, lascia il posto al caramelloso sax vagamente soul di “Goes By So Fast”, creando un contrasto sonoro accattivante ma dalla struttura inutilmente sfuggente. Certamente Chaz è sempre stato più un maestro della suggestione atmosferica che non vero e proprio songwriter; mescolare un bel basso princeiano con la sfiga in lo-fi di Beck fa di “Postman” un motivetto piacevole, ma l’assoluta banalità delle liriche è impossibile da ignorare. Il piano elettrico della jam soft-rock di “Loop”, gli ovattati gorghi di “Clarity”, un giro di valzer su “Last Year”, il ciondolante bozzetto “Mississippi”, tutti momenti scherniti all’ultimo da una presenza vocale incolore e partiture strumentali che non vogliono assumere il ruolo di assolo o farsi davvero protagoniste all’interno del mix. Tornano pure i gemelli Mattson 2 su “Millennium”, la conclusiva “Days In Love” azzarda un tocco hard anni 80 ma è presto smarrita nel solito disordine collagista incapace di farsi epico o progressivo: sarà anche una scelta stilistica, ma suona piuttosto come lampante incapacità compositiva.

Inutile negarlo: Mahal lascia l’amaro in bocca. A questo punto avrebbe avuto più senso un approdo su Brainfeeder, a fianco di gente come Flying Lotus e Thundercat a esplorare l’hip-hop e il jazz psichedelico in formato davvero free – tutte cose che Chaz peraltro ha già assagiato con gusto durante il corso della propria carriera, ma che adesso ha riposto nel cassetto in favore di un’ordinaria amministrazione ricucinata con veste appena nuova.

Non che questo ne limiti il campo d’azione, comunque: dal 2017, nella città di Berkeley, in California, il giorno del 27 giugno è ufficialmente il “Chaz Bundick Day”, a dimostrazione di un nutrito pubblico indie da campus universitario. E in questo immaginario di moderno idealismo hippie per tardi millennial ansiogeni, la musica di Toro Y Moi ha sempre una propria funzione, un mini-universo nel quale poter fuggire da ogni attrito emotivo. Ma può davvero bastare a fare di Mahal un nuovo capitolo degno di nota?



Contributo di Tommaso Benelli per "Outer Peace".

Toro Y Moi

Discografia

TORO Y MOI
Woodlands (demo album, 2007)
My Touch (demo album, 2009)
Body Angles (cassetta, Mirror Universe Tapes, 2009)
Causers Of This (Carpark, 2010)
Underneath The Pine (Carpark, 2011)
Freaking Out (Ep, Carpark, 2011)
June 2009 (raccolta, Carpark, 2012)
Anything In Return (Carpark, 2013)
What For? (Carpark, 2015)
Samantha (mixtape, autoprodotto, 2015)
Live From Trona (live, Carpark, 2016)
Boo Boo (Carpark, 2017)
Outer Peace(Carpark, 2019)
Mahal (Dead Oceans, 2022)
SIDES OF CHAZ
Sides Of Chaz (Ep, autoprodotto, 2010)
LES SINS
Michael (Company, 2014)
CHAZ BUNDICK MEETS THE MATTSON 2
Star Stuff (Company, 2017)
Pietra miliare
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