Blonde Redhead

Musica dagli anni del pensiero magico

intervista di Piergiorgio Pardo

Sembra ieri. Eppure è trascorso quasi un decennio dall’ultimo album di Kazu Makino e dei fratelli Amedeo e Simone Pace. Negli ultimi mesi, senza grandi clamori, il trio sta licenziando nuove canzoni. Si sono man mano susseguite le due parti di “Sit Down For Dinner”, “Before”, “Melody Experiment” e “Snowman”. Cinque pezzi non facili, ma leggeri nel senso della gentilezza. Da un lato riannodano le fila con il periodo 4AD. Stessa profondità giocata per sottrazione, stessa naturale ritrosia verso le carte troppo scoperte e le emozioni troppo dichiarate. Molta verità. Vi è riscontro anche per la vena elettroacustica di alcuni dei momenti più essenziali di “Barragan”, l’album del 2014. L’album intero, che il lettore troverà recensito nello spazio dedicato, chiarisce il contesto e restituisce finalmente ai pezzi il loro peso specifico e una identità che nasce anche dalla continuità tematica e sonora. I Blonde Redhead cambiano sempre qualcosa di album in album. Eppure rimangono inconfondibili. Li ascolti e riconosci, pur nelle forme mutate, la consueta obliquità colta, simbolica, elegante e metropolitana. Icone di profilo, cordiali e minimal, introspettivi quanto basta, o quel tanto che concedono le ragioni dell’arte. In attesa della loro data italiana del 21 novembre al Teatro Regio di Parma, l’intervista con Simone Pace lascia intuire in parte il vissuto che sta dietro a questi lunghi anni di silenzio. Il motore non era spento, né senza carburante. Solo cercava ragioni di adesione profonda alla strada da fare. Sono tornati perché era il momento giusto, per queste nuove canzoni in stato di grazia, perché sono amici da sempre. Perché lo desideravano.

Le tracce di “Sit Down For Dinner” sono le prime inedite dei Blonde Redhead da tanto tempo. Come vi siete sentiti nel tornare a progettare un album insieme?
Alla fine, riusciamo solo a fare quello che ci è naturale e genuino. Non abbiamo mai avuto la vera capacità di copiare o cercare di ricreare un suono che non fa parte di noi. È una debolezza, ma anche una fortuna, perché facciamo solo quello che sentiamo dentro e ci costringe a rimanere sulla nostra rotta.

Ho letto che il disco ha preso vita fra New York, Toscana e Milano. Come si è svolto il processo creativo riguardante scrittura e registrazioni?
Le canzoni sono state scritte a New York. Le registrazioni sono state fatte inizialmente in Toscana, a Lari, poi un po’ a Milano e infine, per la maggioranza delle tracce, a New York. In Toscana abbiamo fatto una preproduzione più che altro però uno dei pezzi, “IF”, è rimasto da quelle session nella sua versione definitiva.

Dal punto di vista cronologico avete dichiarato che il disco è stato composto nell’arco di cinque anni. Anni in cui è successo davvero tanto e che hanno influito enormemente sull’immaginario collettivo, dal Covid, alla guerra, alle crisi economiche. Ci sono in questo senso delle influenze dirette sui temi e sulle scelte espressive del disco?
Il Covid ha avuto un impatto, nel senso che ci ha costretto a scappare in campagna e lì abbiamo completato il disco. Se no non so quando e come l’avremmo finito.Un periodo difficile, sempre brutte notizie, però sono successe anche delle cose positive: io sono diventato papà e abbiamo abbandonato la città per un periodo vissuto vicino alla natura.

Ci sono altri elementi in particolare che hanno ispirato le canzoni?
Sì. Per esempio “The Rest Of Your Life” è stata inspirata dalla perdita di Harry, il cavallo che Kazu aveva da tanti anni, e “Sit Down For Dinner Part 1” dal fatto che Kazu ha dovuto lasciare l’isola d’Elba.

A proposito di “Sit Down For Dinner”, che è anche il pezzo che dà il titolo all’album, qual è la portata simbolica del tema del cenare seduti allo stesso tavolo che è espressa in modo così toccante, lineare e suggestivo insieme, nelle due parti della canzone?
La situazione mondiale rifletteva solo tristezza durante il periodo di Covid, e quella italiana in modo particolare. Sono però momenti in cui bisogna essere positivi e grati di ciò che si ha. Nel nostro caso, si parla della possibilità di esprimerci e portare avanti un percorso creativo. Il titolo da un lato riflette la tristezza di quei giorni dall’altro allude a un momento di ritrovo e alla pace che caratterizza la nostra vita quotidiana quando alla fine della giornata ci si siede a tavola.

Il titolo dell’album nasce tra l’altro da una suggestione ben precisa che viene da un passo de “L’anno del Pensiero magico” di Joan Didion. C’è un riferimento voluto, una scelta rispetto al tema centrale del romanzo che è l’elaborazione del dolore?
Attribuire il dolore al processo creativo non è una scelta. Però si può scegliere come viverlo. Per questo disco abbiamo cercato la leggerezza. Specialmente Kazu.

Voi tre avrete diviso molte cene insieme in questi 30 anni tondi tondi di attività. Com’è una cena fra voi tre? Che atmosfera si respira? Siete taciturni o parlate tutto il tempo?
Dipende. Andiamo sempre a cena insieme quando siamo in tour. Parliamo, facciamo la scaletta etc. È comunque un momento sacro a cui non rinunciamo mai. Abbiamo fatto tante, tante cene insieme! Però abbiamo sempre qualcosa da dirci e se siamo in silenzio è perché Ame e Kai devono riposare la voce prima del concerto. I giorni off ci beviamo anche un po’ di vino.

Ho letto che nell’ambito della promozione saranno anche previsti dei pacchetti speciali per i fan che vogliono cenare con voi. Lo farete anche in Italia?
Noooo, ma sarebbe stato bello! Succederà a Londra, Parigi, New York e Los Angeles.

Altre volte i vostri album prendevano spunto da una dimensione letteraria, penso a “Una vita violenta”, mentre nel nuovo album il verso “Even stars are closer”, che canta Kazu in “Kiss Her Kiss Her”, è ispirato a Nayra Atiya. Quali sono, in questo momento, i vostri libri da isola deserta?
I due volumi della autobiografia di Ryuichi Sakamoto. “Breath” di James Nestor.

Uno dei temi che percorrono l’album, tanto a livello musicale, quanto nelle liriche e persino nelle interpretazioni vocali, mi sembra quello della libertà: di essere se stessi, di essere curiosi, di emozionarsi, di essere innocenti, di creare, di amare…
Sì! Infatti… come dicevo prima. La musica deve essere pura. Non ci possono, per quanto riguarda noi, essere delle cose estranee che non fanno parte di qualcosa di profondo che abbiamo dentro. Se no sarebbe molto difficile suonare gli stessi pezzi ogni sera e lavorarli in continuazione.

A proposito di vocalità, le interpretazioni di questo disco hanno una intensità e una espressività molto profonde, forse più che nel passato. Come si sono svolte le registrazioni delle parti vocali?
Credo che Kazu e Ame abbiamo trovato meno pressione e più pace nel registrare le proprie voci. Ame è andato in uno studio da solo e così è riuscito a lavorare assecondando i propri tempi. Kazu invece le ha registrate con Sam Owen, con il quale si trova benissimo. Prima di “Sit Down For Dinner” aveva lavorato con lui in “Adult Baby”, il suo progetto solista, e si è creata una forte amicizia e una bella collaborazione.

Questo è uno dei vostri dischi in cui le melodie sono più precise, delineate. Da cosa dipende?
Le melodie sono create da Ame e Kazu e ognuno di loro ha una forte abilità nello scegliere ed esprime quello che viene da dentro.

Però nello stesso tempo anche il contesto armonico è davvero imprevedibile e risente di Brasile, jazz, classica contemporanea. Mi sembra anche il disco più cosmopolita. Ci sono stati degli ascolti che vi hanno influenzato in questo senso?
Sì, hai ragione a parlare di Brasile, perché io e Ame specialmente ascoltiamo tanta musica brasiliana. Poi c’è anche il fatto che Mauro Refosco è stato ospite e questo ha avuto un impatto a livello compositivo, più che altro sulla ritmica. Le influenze comunque provengono da tutto ciò che ci circonda.

Dieci album in 30 anni di carriera. Ce n’è uno al quale siete particolarmente legati per qualsiasi ragione?
Direi di no. Sarebbe come decidere a quale figlio vuoi più bene.

Prima di questo disco la compilation “Masculin Féminin” aveva rimesso in campo il suono ruvido ed espressionista dei primissimi dischi. Qual è, secondo voi, l’aspetto più identitario del vostro modo di fare musica, quello che, al di là delle naturali evoluzioni del suono, può rendervi più riconoscibili, innanzitutto a voi stessi?
Siamo e saremo sempre una band che scrive melodie e armonie che provengono dalla musica classica, musica italiana con cui siamo cresciuti e l’amore per le bellezze del mondo che ci circonda: città, natura, film, letteratura, design etc. Per il resto penso che tutto stia nella chimica che si crea quando siamo insieme e da cui non si scampa.