Corrado Rustici

Io Sono Corrado

intervista di Davide Sechi

Certi ricordi mica hanno voglia di svanire, di farsi da parte, di tagliare la corda, ritornano, fanno capolino, si ripresentano, all’improvviso, magari anche per darti una mano. Allora, vediamo un po’… C’è una sala, ampia, illuminata, un televisore acceso e un pubblico fremente: cinque ragazzini sorridenti, fornelli caldi qualche metro più in là, profumi che sanno di autunno. Fine settembre 1989, Italia 1 trasmette in semi-differita, come usavano riferire gli uffici stampa del tempo, in epoca pre-diretta per le tv commerciali (traguardo che sarebbe stato alfine toccato nel 1992), il concerto di Zucchero Sugar Fornaciari. Si è appena conclusa l’estate di "Oro Incenso e Birra", ma il 33 giri, cassetta e compact non intende abbandonare la vetta della chart italiana.
L’Adelmo emiliano, votato al soul blues r’n’b, ha raggiunto il proprio picco, sembra addirittura bello, acconciato come un predicatore gospel. Un’esibizione focosa, le immagini mostrano cascate d’acqua che si abbattono sull’ex-Mattatoio romano situato al Testaccio, Red Ronnie, ancora in occhiali scuri, intervista tutti: con Zucchero, tra gli altri, ci sono Paul Young, Clarence Clemons e persino Eric Clapton in carne e ossa. D’un tratto l’atmosfera si fa rarefatta ed eccola lì, la canzone più bella dell’album dei record, "Iruben Me". Sugar si scalda, scalpita, scalcia, suda, urla, interpreta, soffre e poi, d’un tratto, appare la sua spalla: Corrado Rustici, di Charvel armato, sono 25 secondi di stasi emotiva, un solo acutissimo, una sequenza di note che si curvano, si raggomitolano e poi si liberano. I ragazzini in poltrona si guardano di nascosto. Poi arriva "Wonderful World" con Slowhand elegante e partecipe, ma Enrico non ci sta e lo dice chiaro e tondo: "Oh, va bene, ma Rustici se lo mangia Clapton! Ma l’avete sentito che ha fatto prima?!".
Poco più di 29 anni dopo, una schiocchezzuola sotto forma di clessidra irrefrenabile, sono seduto di fronte a Corrado Rustici. Siamo dentro un camerino defaticante situato all’interno dello Zio Live Music Club, sorta di oasi per gli amanti del jazz rock (e dintorni), guidata con mano agile e abile dallo “Zio” Carlo Forti, in una delle zone più quiete e desertiche di Milano, Porto di Mare. Paradossi metropolitani. Mancano quattro ore all’inizio dello show.

Ti ricordi quella volta a Roma, sotto il diluvio?
Sai che quel concerto all’ex-Mattatoio non l’ho mai visto? Fu una serata piena di guai, rovinata dalla pioggia che causò un sacco di problemi tecnici. Ma, a giudicare dalle tue parole, funzionò. Penso che il merito fu della nostra arrabbiatura, eravamo furiosi con l’organizzazione, ce l’avevamo con le avversità climatiche. Tutta l’esibizione fu messa  a repentaglio e continuamente aggiustata in corso d’opera. Una roba pazzesca. Sono passati quasi 30 anni ed è arrivata l’ora che dia finalmente uno sguardo al tutto.

Corrado Rustici arriva in Italia, forse a furor di popolo, non si tratta infatti di un frammento di un più esteso tour europeo, sarà un breve giro nazionale quasi da figliol prodigo, in compagnia di Peter Vettese e Pete Riley, e poi tornerà a casa, a San Francisco, che non è proprio dietro l’angolo.

Un giro di concerti rapido, quasi furtivo...
Non ho più voglia di fare tour esagerati, di girare in lungo e in largo. Voglio divertirmi, godermi la vita. Ho un figlio di 11 mesi e un altro di sei anni, una famiglia che mi aspetta.

Mi stai forse dicendo che il lavoro del musicista non è il più bello del mondo?
Assolutamente no. Ma ci vuole dedizione e occorre scendere a qualche compromesso, che può implicare anche fatica. Ti faccio un esempio recente: poco tempo fa ci hanno proposto un ritorno on stage dei Cervello (gruppo con il quale Corrado debuttò nel 1973, ndr). Ci abbiamo pensato e poi abbiamo accettato di fare un unico concerto a Tokyo. E la cosa è andata benissimo. Abbiamo registrato l’esibizione e presto la pubblicheremo. E non è stato facile. Improvvisamente mi sono ritrovato di fronte un altro Corrado Rustici, un differente modo di suonare. Rispetto al 1973 sono cambiato moltissimo, il mio modo di approcciare lo strumento, di suonarlo è completamente mutato e ho dovuto quindi sudare le classiche sette camicie per riprendere confidenza con il materiale di “Melos”. Ho dovuto persino trascrivere le parti! Ci siamo impegnati alla grande, ma il risultato è stato ottimo, perfettamente aderente a quello che avevamo realizzato 45 anni fa.

Quindi nessuno spazio per l’improvvisazione?
È un qualcosa che non ha quasi mai fatto parte dell’area progressive, un ambito dove tutto era congegnato al millimetro, come se ci si trovasse di fronte a partiture di musica classica. Anche nei King Crimson, più portati verso certe fughe, lo spazio non era comunque così ampio per lasciarsi andare. Credo che a breve, oltre al citato live, anche il disco originale, “Melos”, verrà ripubblicato, visto che è introvabile (il vostro amico cronista ne scorse una copia dieci anni fa durante una fiera del vinile: costava 4000 euro, ndr).

Qualche settimana fa, dopo quasi 30 anni di rinvii, ho finalmente letto “American Psycho” di Bret Easton Ellis. Con mia sorpresa il tuo nome viene citato dal protagonista maniaco omicida, all’interno di una delle sue deliranti e iper-precise recensioni musicali.
Sì, è vero, accade quando Bateman esprime il proprio entusiasmo per Whitney Houston.

Come fu lavorare con lei?
Splendido. Lei aveva 18 anni ed era tecnicamente favolosa, bravissima.

Qualcuno direbbe “fredda”.
Un errore di valutazione, perché la si volle paragonare alle soul-singer che l’avevano preceduta. Ma quello era un altro mondo. Ho suonato molto con Aretha Franklin, lei era originale, lei è stata la prima, era una pianista formidabile ed era un’autrice. Era anche un altro periodo, una stagione in cui dovevi dimostrare qualcosa, dovevi differenziarti, anche come donna in un mondo molto maschilista. Fu lei a scrivere “Respect”. Whitney faceva parte di un’altra generazione, e ha dato il La a tutta una serie di cantanti che hanno sedotto il mercato mondiale. Dopo la Houston è arrivata Mariah, poi tutte le altre. Cantanti, bravissime, ma non autrici, non originali.

Solo che ora assistiamo quasi a un’inflazione di grandi voci, un po’ anonime.
Perché è cambiato lo scenario di riferimento, le esigenze, oggi trionfa l’intrattenimento puro. Ma non durerà per sempre, è un altro ciclo e le cose cambieranno, come sempre accaduto.

Sarà banale sottolinearlo, e anche un po’ paternalistico, però ci fu un tempo in cui occorreva rischiare sul serio, come quando Corrado Rustici decise di andare via dall’Italia…
Bisogna ricordare cosa fosse l’Italia negli anni 70, un paese socialmente molto difficile, rischioso. C’era una grande voglia, una partecipazione giovanile incredibile, anche la questione della musica per tutti e di tutti, non paghiamo eccessivamente, i cosiddetti prezzi politici, all’inizio sembrava una grande cosa, ma poi tutto è degenerato, e sono scoppiati i disordini, le violenze e i pericoli. E, progressivamente, gli artisti internazionali sono scomparsi dalle nostre coordinate. Nel frattempo, io continuavo a cibarmi di tutti quei mostri sacri, ma non riuscivo più a vederli. Così ascoltavo, suonavo ma poi con chi mi confrontavo? Avevo bisogno di un cambiamento, anche radicale. E quindi, nel 1975, a 18 anni, feci le valige e andai via. Dapprima in Inghilterra, poi in Nord America. E qui sorse un "piccolo" problema: in Italia non potevo tornare, perché avevo disertato, in caso contrario sarei finito in galera. Il militare non volevo farlo, mi sembrava una perdita di tempo. Tutto risolto? Per nulla! Una volta in Usa, mi scadde il permesso di soggiorno… E lì non si scherza, alla fine di un concerto arrivano gli agenti predisposti al controllo dei documenti.

E come facesti a sfuggire al braccio duro della legge?
Semplice, ogni volta mi nascondevo nei bagni. Ricordo che accadeva, per esempio, quando ero in tour con Chaka Khan. E ovviamente, non essendo in regola, venivo pagato in nero.

Come un fantasma che riappare nella notte. Quanto durò quel periodo?
Non tantissimo: tre anni… La musica bisogna meritarsela. Occorre soffrire, rischiare, sudarsela (sorride).

Come entrasti negli studi americani? Con quali competenze?
So leggere lo spartito, certo, non benissimo, non sono velocissimo, ma conosco il lavoro e ho molto orecchio. Nessuno mi ha creato problemi o ha avuto qualcosa da ridirmi. All’inizio mi si chiedeva una data performance, magari un pianista la suonava e io la imparavo sul momento. Ma non sono un caso isolato. Prendi Allan Holdsworth: è stato un musicista incredibile, unico, ma non leggeva lo spartito. E allora, per lavorare, era riuscito a creare un suo metodo, un vocabolario personale.

Hai amato molto Holdsworth. Lo conoscevi?
Sì e molto bene, Lui ha veramente costruito un pianeta a sé stante, di difficile comprensione e categorizzazione. E se poi gli chiedevi spiegazioni, lui non te le dava, dovevi arrivarci da solo. Allan decise di non seguire le orme del blues, di andare oltre. Il risultato fu una forma di jazz aliena, proprio perché spogliata da alcune radici profonde, come quelle del blues. Era musica nuova. Era armonicamente complesso, perché le sue progressioni sono più riconoscibili al pianoforte, mentre sulla chitarra hanno un suono, un sapore completamente diverso dalla tradizione. Non è neanche vero che non usasse pattern, lick, lo faceva, ma in maniera nascosta, dissimulata espansa, con linee allargatissime, al di fuori dei soliti schemi. La sua musica seguiva sul serio i percorsi esistenziali: era un uomo tormentato, con problemi personali, e nell’arte amava sfidare il pubblico, confonderlo, era machiavellico.

E non scendeva a compromessi. Anni fa lessi un’intervista a Donald Fagen e Walter Becker, i quali confessarono di essere stati grandi ammiratori di Holdsworth e di averlo cercato a più riprese negli anni 70, ma senza successo. Gli Steely Dan gli avrebbero davvero cambiato la carriera e non solo.
Ma non avrebbe funzionato. Non riusciva a suonare con altri, doveva percorrere sempre la sua strada. Stiamo parlando di uno che nel 1978 ha mollato gli Uk perché Wetton e Jobson gli chiedevano di rifare sul palco gli stessi assoli che c’erano sul disco e lui rispondeva: “Non me li ricordo, erano tutti improvvisati!”. Gli Steely Dan sono stati una grande band pop dai sapori jazz, gli avrebbero chiesto un assolo qui e un altro là, non era e non sarebbe mai stato il suo mondo.

Chi è stato più importante per le sorti del tuo strumento: Allan o John McLaughlin?
Direi John. Una persona incredibile, un innovatore, un musicista pazzesco. Fu lui con Miles a dare l’avvio a tutto, a inventare un contesto, sul quale poi anche Allan fece scaturire il suo estro. John, che amava Hendrix, il rock, pensò: proviamo a suonarlo infilandoci dentro qualcosa di inusuale. E lì incontrò Miles. Ed ecco il jazz-rock. Poi dopo sono arrivati i musicisti della fusion, magari più lineari.

La differenza sta tutta nel fatto che McLaughlin ha avuto successo ed è sempre citato tra i caposcuola…
Si potrebbe osare un parallelo: tra McLaughlin e Holdsworth intercorre la stessa differenza che esiste tra Clapton e Hendrix. Provo a spiegarmi: quando ho conosciuto Eric gli ho detto "io conosco tutti i tuoi soli, li suonavo e li suono, mi hai nutrito". Non sarei riuscito a dire la stessa cosa a Hendrix, non riesci veramente a entrare dentro la musica di Jimi. Ci sono molti replicanti, ma quando senti qualcuno che lo sta rifacendo, anche molto bene, c’è qualcosa che non quadra, perché lui andava ogni volta da un'altra parte, era un chitarrista picassiano, espressionista. Detto ciò, mi ripeto: McLaughlin ha inventato un genere, Allan, la cui musica è ancora di difficile comprensione, ha creato “solo” un suo mondo.

Che pianeta è quello della chitarra?
Ci sono chitarristi e chitarristi, o meglio, musicisti-artisti e quelli che io chiamo players, grandi strumentisti, ma con o senza di loro il mondo va lo stesso avanti. Io amo suonare veloce, e quindi forse non dovrei intervenire, ma la musica comprende anche guardarsi intorno, non solo correre. Poi, certo, ognuno ha il proprio modo di esprimersi e quindi chi sei tu per dirmi se sto facendo troppe note o se sto andando troppo veloce? Per citare “Amadeus” di Forman: "Troppe note? Quali note maestà?".

La chitarra elettrica è una questione di suono?
Assolutamente sì. Esistono i “prima e i dopo” Hendrix, Van Halen. Ma alla fine preferisco parlare di compositori più che di semplici chitarristi. Compositori enormi come Zappa: chitarristicamente era nato come un bluesettaro, ma siccome aveva tanto da fare, più che esercitarsi ha finito per sviluppare uno stile assurdo, diverso, unico, non replicabile. E poi… Jeff Beck, uno che passa più tempo ad aggiustare auto, eppure ha un controllo pazzesco sullo strumento. Un giorno gli chiesi: come fai a usare la leva e far uscire quel suono? Perché pensavo adoperasse un pedale. Ma lui imbracciò lo strumento e rifece il brano esattamente come appariva sul disco, lasciandomi sbigottito, ed era seduto su una poltrona!.

Corrado Rustici diventa celebre in Italia come produttore di Zucchero. Una curiosità che mi porto dietro da 25 anni e te la espongo anche in maniera brutale: come mai Zucchero, dopo un'ascesa vertiginosa, dopo un trittico di album in crescendo, “Rispetto”, “Blue’s” e “Oro Incenso e Birra”, disco che dopo 30 anni conserva un suono attuale, anzi senza tempo, crolla in maniera così plateale? Sonorità brutte, artefatte, canzoni ridotte all’osso, così come i testi. Non credo si possa parlare di commercializzazione, termine del quale si abusava all’epoca, visto che stava vendendo tonnellate di copie…
Fu il contrario. Pagò il prezzo del successo. Lui è un tipo semplice, un artista sensibile, minato dai dubbi. Per incidere “Miserere” ci mettemmo una vita, fu difficilissimo. All’epoca, tra il 1991 e il 1992, Zucchero  voleva entrare più profondamente negli aspetti produttivi, voleva essere guidato di meno, e non aveva torto, era la sua musica, ma per fare i produttori occorre essere bravi, è un altro mestiere. E poi soffrì molto in quel periodo, problemi personali, cominciò a chiedersi se stesse facendo bene, se tutto quello che gli era capitato, il successo, gli applausi, la stima, avesse un senso. Voleva capire, quindi cercò di intervenire anche nel mio campo di azione e questo portò alla separazione. Capita che si crei una certa competizione, fa parte della vita stessa. Ma ora questi problemi non ci sono più e l’anno prossimo ricorreranno 30 anni da "Oro Incenso e Birra"...

Vi aspettavate tutto quel successo?
Ma no, come fai ad attenderti una cosa del genere?! Conobbi Zucchero e gli dissi che secondo me aveva un potenziale inespresso, una carica unica, un temperamento soul. Qualche tempo dopo registrammo “Blue’s”, ritornai negli States e un giorno mi avvisarono che il disco stava esplodendo. E da lì l’ascesa fu repentina.

Italia, Inghilterra, America…
Quando lasciai l’Italia, l’Inghilterra era già un lusso, l’America era come Marte. E ci sono delle differenze culturali importanti. Ti racconto questa storia: a un certo punto, nel 1987, Miles Davis si invaghisce del brano “Dune Mosse” e decide di suonare con Zucchero. Una partnership che crea scalpore, che però in Italia viene vissuta con un certo sarcasmo. Ce ne accorgiamo durante la conferenza stampa che sancisce l’unione: di fronte a noi una moltitudine di giornalisti intellettuali e ghignanti, che non credono ai loro occhi e decidono di screditare l’affare, facendo domande che nascondono ironia. Io mi trovo a fare da interprete per Miles, il quale, dopo svariate provocazioni, di fronte alla domanda “Suoni con Zucchero perché vuoi abbattere nuove barriere?”, risponde “Ma quali barriere?! Io le ho già infrante tutte! Voi, piuttosto, quando la finirete di fare queste domande del cazzo?!”. Il tutto tradotto da me, con viva soddisfazione. Miles Davis ti diceva sempre la verità, anche quella scomoda. Se non ti piaceva, quella era la porta.

Con chi ti sarebbe piaciuto e ti piacerebbe lavorare?
Con Kate Bush, un’artista che adoro da sempre.

Quella sera…

Corrado si scusa e si congeda, soundcheck e prove varie lo attendono. Sale sul palco, lo fotografo quasi di nascosto, il manager Riccardo Cappelli mi scruta dubbioso. Tre ore dopo, l’esibizione (introdotta da un set di Fillppo Bertipaglia, giovane mago della chitarra acustica, tra folk, classica e jazz, reduce da un’esperienza a San Francisco dove ha incontrato Rustici nelle vesti di mentore e produttore). Qualche settimana prima, a fare il tutto esaurito per ben due spettacoli era stato Greg Howe, altro boss della sei corde, celebre shredder neoclassico della prima ora, e poi, a metà anni 90, creatore di un nuovo impasto fusion, nel quale le influenze black, tra jazz e funky hanno trovato la loro cornice più appropriata. Eppure Greg, sempre delizioso nella scelta delle note, carico di groove e infaticabile non era riuscito a decollare. Almeno non quanto Rustici e i suoi due compagni. Corrado, reduce dal terzo album solo, pubblicato due anni or sono e intitolato "Aham" (che tradotto dal sanscrito significa "Io Sono") cerca subito la partecipazione del pubblico, il battimani e poi si lancia in una performance al fulmicotone, nitida e scatenata, con qualche guaio tecnico che cerca di fare lo sgambetto e che invece si trasforma in un ulteriore trampolino di lancio.
Non poche volte si avverte il sacro fuoco che fu della Mahavishnu Orchestra, come pure i dialoghi fluidissimi di holdsworthiana memoria, memori della lezione dei grandi fiatisti. Rustici appare quasi in trance, ma forse è uno stato psicofisico che riguarda più i suoi tifosi, perché in realtà lui appare pacato e sereno anche durante le scorribande più esagitate. A dargli man forte all’interno di spartiti strumentali, i citati Vettese, e la sua folta criniera spettinata e bianca, e la sua verve alle tastiere, attraverso le quali recupera anche la pulsazione del basso mancante (come del resto fa lo stesso Rustici), e il più giovane Riley, metronomo fantasista delle pelli e dei piatti. Alla fine tutti emozionati e lo “Zio” Carlo Forti addirittura a bocca aperta. Giustamente.



Discografia

The Heartist (1995)
Deconstruction Of A Post Modern Musician (2006)
Blaze And Bloom - Live in Japan (live, 2014)
Aham(2016)
Pietra miliare
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