Ghemon

Hip-hop senza etichette

intervista di Gabriele Senatore

Gianluca Picariello è innanzitutto un uomo. Spesso, quando si parla degli artisti nel mondo dell’hip-hop si perde di vista la persona che c’è dietro il moniker. È vero che il narcisismo, il culto della personalità, l’eccentricità sono parte del gioco, ma è anche vero che talvolta per il pubblico risulta difficile capire chi c’è dietro quella musica. Ghemon è Gianluca, non un personaggio di cartone utile a vendere dischi, ma un artista musicale a metà strada tra il rapper e il cantautore, che quando scrive disegna le sue rappresentazioni della realtà e di se stesso con una sensibilità rarissima in questo genere. Per questo motivo l’idea di intervistarlo mi ha sempre incuriosito: volevo vedere quella star timida del conscious rap italiano che dalla provincia irpina aveva raggiunto le vette delle classifiche. Fortunatamente le mie aspettative non sono state tradite: un ragazzo ancora innocente, maturo al punto giusto ma non inorgoglito dal successo, che tuttora considera i messaggi a sorpresa del collega Clementino come uno spasso, mentre un minuto prima ti racconta della sua vita privata con discrezione e quello prima ancora divaga delle ultime tendenze del soul e del rap. Il Ghemon rapper - quello più duro per intenderci - emerge solo dai ricordi, quelli che dagli esordi al recentissimo “Mezzanotte” si manifestano come i desideri di un ragazzino che voleva realizzare un sogno, e che ci è riuscito.

Se il posto dove sei ora te lo concede, concentrati un secondo, semmai chiudi gli occhi, fai sfumare l'ambiente circostante e ritorna con la mente al Gianluca Picariello della tua prima demo, "Bloodstains" del 2000. Cosa diresti al te di quel periodo?
All’epoca ero entusiasta e molto determinato. La timidezza è subentrata solo in un secondo tempo in concomitanza con una certa esposizione, perché gli occhi che ti guardano sono di più, mentre quando sei ragazzino in parte vuoi essere guardato. Quindi direi “Vai, vai! Non perdere questo spirito!”

C’erano degli ostacoli apparentemente insormontabili che nel tempo ti sei reso conto essere innocui?
No, direi niente. Proprio perché ero un ragazzino e tante barriere di vita o cose della vita adulta che potevano essere difficili non le vedevo né prevedevo. È anche una cosa bella questa, che conservo come un bel ricordo. Se quella sfrontatezza ce l’hai a quell’età, è considerata entusiasmo, se ce l’hai dopo una certa età, viene letta come presunzione. Io infatti me lo continuo a ricordare come entusiasmo ed ero sicuro che ce l’avrei fatta a fare qualcosa di buono.

Ci sono delle figure professionali e non di quel tuo periodo di “debutto” che ricordi come fondamentali o che ti sono rimaste particolarmente a cuore, anche se forse oggi non frequenti più assiduamente?
Guarda, che vedo poco, ma la cui bravura mi è rimasta impressa, è il ragazzo che cantava con me, Domenico detto “Domi” dei SangAmaro. Lui aveva un talento nello scrivere davvero incredibile. Ad oggi leggo ancora qualcosa scritto da lui, che talvolta esula dal rap, perché la vita l’ha portato verso altre cose, e resto ancora affascinato. Ecco, lui era un po’ un talento al momento storico sbagliato, in cui l’hip-hop era davvero agli inizi della sua salita in Italia, e di lui conservo questo bel ricordo e penso avrebbe meritato di certo ancora più fortuna come musicista.

Tu inizi come writer, poi gradualmente approdi alla musica e all’hip-hop nella seconda metà degli anni 90. Cosa ha fatto nascere in te l’idea di fare musica piuttosto che i graffiti? C’è qualche artista o un brano in particolare che ti ha fatto scattare la molla per il rap?
Ti dico la verità, sicuramente quando ho cominciato ad ascoltare Common, e tante altre cose della fine degli anni 90, mi hanno fatto capire che ero più un cantante che un writer. Ascoltando quei suoni, capii che nella musica avevo qualche speranza perché sentivo di avere talento; come writer mi arrangiavo, ma ero consapevole di non poter aspirare a qualcosa di più. Poi il talento si allena e ti viene anche dove non ce l’hai di natura, quindi, secondo me, sono stati proprio quegli artisti che mi hanno fatto capire che dovevo scrivere e migliorarmi su quello.

Avendo vissuto l’adolescenza negli anni 90, ti chiedo come ascoltavi tu la musica all’epoca? Eri tipo da cassettine, vinili, primi cd, download? Che tipo di fruitore eri?
Tantissime cassettine, quando si poteva si compravano i dischi, scambi, prestiti, si doppiavano così da farli ascoltare anche ad altri. Dopo di quello, ho cominciato a comprare cd e adesso ho una collezione che va dal 2001 al 2007 e 2008 di circa un migliaio di dischi. Anche quella di vinili sta raggiungendo quei numeri, perché col tempo cerco di comprare in vinile anche ciò che avevo su cd; è diventata una vera e propria collezione. Scaricavo quando cercavo l’introvabile. Con il P2P ti si apriva un mondo, potevi accedere a file provenienti da computer da tutto il mondo, e ti capitavano cose rarissime, come bonus track, bootleg, live. Mi facevo una cultura in più rispetto a quella canonica su disco. Io ero il tipo da liner notes del disco. Sono uno che andava a vedere se l’artista che mi piaceva aveva salutato l’altro artista, o sennò avevano litigato, come e quando avevano registrato il pezzo, dove avevano inciso, e tuttora lo faccio.

Allora dimmi qualche tua rarità che ancora conservi
Diciamo che tra le tante, sceglierei un produttore all’epoca quasi sconosciuto, 9th Wonder (poi divenuto un piccolo pezzo della storia dell'hip-hop), che registrò una versione tutta remixata di un pezzo di Nas. L’avevo comprata dall’America e sono consapevole che la versione originale è molto difficile da reperire. Sono felicissimo di averla.

Nel tuo primo disco firmato Ghemon & The Love 4Tet c'era il pezzo di apertura "Prima di Partire", che penso mi rimarrà sempre nel cuore perché ogni verso è profetico. Dal fatto che non usciva un disco decente dai tempi di "Dalla Sede", al fatto che "anche se il successo sale, il guadagno è inversamente proporzionale". Però in quel brano dicevi anche che "tra i cantanti con 10 anni di gavetta io sono la promessa" e poco dopo che le tue buone maniere andavano dimenticate. Mi chiedo: hai dovuto davvero dimenticare le "buone maniere" (nell'ambito della scalata al successo) o pensi di non aver mai calpestato i piedi a nessuno lungo il percorso?
Credo di aver sempre rispettato tutti, ma volendo essere sinceri, prima o poi sei costretto a essere molto deciso su molte scelte da prendere. Più si va avanti, più persone si incontrano lungo il proprio cammino professionale e delle volte non si può accontentare tutti, quindi inevitabilmente per qualcuno diventi uno stronzo. Io cerco di muovermi con la mia etica in maniera corretta. Questa è una morale per la vita, a dirla tutta. Anche se tu non ami più la tua fidanzata e la sopporti per un anno e poi la lasci, dici mi ha fatto penare un anno e non mi è mai venuta incontro per cercare di riavvicinarci, per lei resterai comunque lo stronzo che l’ha lasciata. Sei costretto prima o poi a prendere decisioni e chi prende decisioni alla fine è sempre antipatico.

Sulla questione del prendersi le proprie responsabilità e affrontare le scelte, il tuo ultimo disco “Mezzanotte” è un’ottima analisi. C’è la figura del “guerriero” nella title track che mi ha colpito molto. Com’è fatto il guerriero per Ghemon?
Il guerriero per Ghemon è chi tutti i giorni si prende le sue responsabilità, qualunque siano le sue certezze non teme di perderle per migliorare la sua vita e quella delle persone che gli sono attorno. Un uomo sempre in cammino.

“Mezzanotte” è anche il caso rap del momento in Italia, perché è molto più cantato rispetto ai tuoi dischi precedenti, rivelando d’altronde un buon talento canoro. Venendo da anni di flow e persino qualche spoken word, come ti sei adattato al canto?
È una cosa che ho allenato con il tempo. Purtroppo – per modo di dire – vengo da una “brutta scuola” che è quella dell’hip-hop anni 90, in cui devi essere bravo, acculturato, virtuoso, determinato, devi avercele tutte quante. Il canto, quindi, l’ho sempre allenato, poi scrivere, per il cantato è un altro discorso. Mi sono dovuto sedere e capire come comportarmi nella stesura dei testi. Fortunatamente ci sono riuscito in questo disco. Se prendi passaggi di metriche di “Un Temporale” o di “Quassù”, ci sono non poche ibridazioni liriche tra rap e canto, come, d’altra parte, succede spesso anche oggi nell’r&b e talvolta nella trap, ovvero che le metriche del rap vengono inserite nel cantato o nel ritornello, e cavalcando questo approccio, sono riuscito a riappropriarmi di una cosa che era comunque mia in modo da renderla più personale.

In riferimento agli altri generi della musica nera che sei riuscito a sfiorare nel tuo nuovo disco, ho notato un notevole influsso di soul, che ultimamente è un genere tra i più chiacchierati anche nell’hip-hop d’oltreoceano. Ho letto anche che la realizzazione del disco è stata accompagnata da un continuo confronto con Tommaso Colliva, con cui vi siete tenuti aggiornati sulle ultime uscite. Tra queste senti che qualche disco o qualche artista abbia contaminato in maniera particolare il tuo recente modo di fare musica?
Contaminato proprio direi di no. Influenzato alcune scelte invece sì. Il mio primo contatto con Tommaso avvenne prima di “ORCHIdee” perché lui sapeva quali erano le mie cose preferite a livello di ascolti e, dunque, pensammo che mescolare al rap quello che io ascoltavo spesso, quindi soul, funk, r&b. Qui, invece, sono riuscito ad approdare ancora meglio a un miscuglio più vario, che era ciò che volevo. Però, per farti un esempio, prendiamo tre dischi che tra l’anno scorso e questo sono stati forti, diciamo anche simpatici e originali: “Blonde” di Frank Ocean, “DAMN.” di Kendrick Lamar, “Awaken, My Love!” di Childish Gambino, ma anche quello di Anderson .Paak. Sono tutti album decisamente ibridi. Prendo “Nikes” di Frank Ocean, pezzo in cui lui rappa, poi canta, poi di nuovo rappa; stessa cosa Lamar, peggio ancora Anderson .Paak che non si capisce quando rappa e quando canta; Donald Glover fa il rapper ma non rappa poi, in sostanza. Queste meraviglie mi hanno mostrato la strada per l’approccio di “Mezzanotte”, che non è un voler suonare come loro, ma una necessità di superare i confini tra i generi e fregarsene di come la cosa verrà inscatolata. Il soul: che è un genere alla ribalta è una cosa vera, ma in Italia ha avuto poca trazione, se non per pochissimi nomi; nominarlo nei comunicati stampa o nelle radio che quello è il genere sembra una bestemmia perché è una parola straniera non tanto sdoganata come uno penserebbe. Si spera che piano piano si diffonda anche per colpa mia (ride), la cosa non mi dispiacerebbe.

Infatti, una domanda che mi sorge spontanea è: non temi che allontanandoti dal rap tradizionale, il mercato discografico, ma anche il pubblico generalista, possa superficialmente etichettarti come pop?
Non me ne frega niente! Pensa, che con la vecchia band abbiamo visto il tour di D’Angelo due volte e nella seconda data che vedemmo a Milano, c’era un momento in cui i due chitarristi si mettevano di spalle e facevano un botta e risposta di assoli con anche D’Angelo che si aggiungeva con la terza chitarra, e quel momento durava circa cinque minuti ed era un momento rock! Non ho mai avuto nessun dubbio sul fatto che quello fosse un momento rock fatto da neri che suonano soul e funk. Era in qualche modo, al massimo, black rock. Qualcuno potrebbe farsi venire il dubbio, ma quello che faccio è solo il risultato di quello che mangio e ho sempre mangiato a livello di musica. I dubbi, secondo me, vengono a chi è manchevole di riferimenti, ma il vestito di questi pezzi è tutt’altro. Devo dire con piacere che, soprattutto dai media più tradizionali, la collocazione dei generi della mia musica è sempre stata eseguita in maniera corretta.

Venendo ai temi trattati in “Mezzanotte”, c’è il demone della depressione. Quand’è che hai capito che stavi affrontando ben più di un semplice periodo difficile, ma qualcosa di più complicato e grave?
È successo nel momento preciso – o poco dopo – che ho scritto “Un Temporale”; è per quello che poi ho scelto quel pezzo come singolo, anche se avremmo potuto scegliere qualcosa di più allegro e di tiro venendo dall’estate, ma io ho chiesto con forza che fosse quello perché tenevo si capisse il mood di questo lavoro e non volevo dare un messaggio diverso. È stata una sensazione che già conoscevo da tempo, ma non avevo mai chiamato con quel nome finché non mi è stata indicata esplicitamente da un medico e allora ho capito di cosa si trattava. La scrittura in qualche modo ne ha risentito, ma forse mai in una maniera lamentosa, al limite rabbia, forza, voglia di farcela a superare questi momenti di merda.

Pensi che la depressione sia davvero la malattia del secolo? È una leggenda, oppure si sta verificando davvero?
Non è una leggenda, è una definizione corretta. È difficile capire l’origine, è difficile da curare, si può arginare con dei palliativi, ma l’automedicazione resta la cosa migliore. Devi riuscire a farcela con le tue forze, prendere possesso della tua testa e dei tuoi meccanismi, perché dall’esterno potranno solo spronarti, ma quello che conta sei tu. Quindi è la malattia del secolo perché ancora tanta gente non la riconosce come una patologia, c’è tanta disinformazione ed è molto più diffusa di quanto appaia, avendo forme e manifestazioni subdole e non evidenti.

Da campano, anche io, ti chiedo: come vivi il rapporto con il tuo territorio?
Il senso di appartenenza lo sento e vivo bene questo rapporto. Però devo anche ammettere che per fare la cosa che mi piaceva ho dovuto prendere il microfono in mano sin da piccolo e viaggiare. Non esisteva internet, il campanilismo del web odierno che talvolta spinge i ragazzi che restano al “paese” a rappresentare la città, al punto tale che prima di essere riconosciuto effettivamente per quello che facevo a casa ho dovuto fare il giro dell’Italia e anche un po’ dell’Europa. Adesso però sono perfettamente a mio agio con il mio territorio e ogni volta che faccio ritorno mi sento meglio. Fuori non maschero le mie origini, anche se ormai ovunque vada mi fanno sentire a casa. A volte penso agli store di Milano e Napoli che registrano più presenze quando vengo ospitato, e ripenso a me ragazzino la prima volta a Napoli che venivo da Avellino, quindi quasi di serie B perché vieni dalla provincia. Adesso, invece, che c’è un bellissimo rapporto con il pubblico ovunque vada, Benevento, Salerno, Caserta come al Nord, mi rende felice perché non emerge nessuno di questi campanilismi.



Discografia

La rivincita dei buoni (The Saifim Group, 2007)
E poi, all'improvviso, impazzire (Macro Beats, 2009)
Qualcosa è cambiato - Qualcosa è cambiato Vol. 2 (Macro Beats, 2012)
ORCHIdee (Macro Beats, 2014)
Mezzanotte (Macro Beats, 2017)
Scritto nelle stelle (Carosello, 2020)
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

 

Fantasmi Pt.2
videoclip da Qualcosa è cambiato - Qualcosa è cambiato Vol. 2, 2012)

 

Adesso sono qui
(videoclip da ORCHIdee, 2014)

 

Un Temporale
(videoclip da Mezzanotte, 2017)

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