Ricky Portera

Io, Lucio e gli Stadio

intervista di Marco Bercella

Quasi a sorpresa, a distanza di sette anni dal suo ultimo lavoro, è da poco uscito “Fottili”, il ritorno di  Ricky Portera nel suo, comunque inedito, ruolo di solista. Semmai dovesse ancora aver bisogno di presentazioni, Ricky è uno dei più grandi virtuosi della chitarra nostrana, per molto tempo la longa manus rock di Lucio Dalla (di cui leggerete un corposo ritratto), nonché alter ego di Gaetano Curreri nella prima e gloriosa incarnazione degli Stadio. In realtà Ricky non se n’è mai andato, giacché in tutti questi anni non ha mai smesso di calcare palchi e di partecipare a progetti, di cui parleremo diffusamente nella nostra lunga intervista. Quello che incuriosisce, però, è capire perché uno come lui, storicamente refrattario ai lavori in solitaria (e i soli tre album in più di quarant’anni di carriera professionistica stanno lì a dimostrarlo), abbia deciso di  uscire proprio ora con un album che, sin dal titolo, ha tutta l’aria di essere il suo manifesto programmatico. “Fottili”, col suo mix di heavy rock senza freni e di ballate dal sapore introspettivo, è per molti aspetti la summa di una carriera in cui il nostro rocker è sempre riuscito a lasciare le sue tracce in ogni progetto di cui ha fatto parte, è il bignamino in cui Portera racconta se stesso come in un libro aperto, senza mediazioni, e col solo ausilio di qualche ospite-amico illustre (Pino Scotto, e lo stesso Gaetano Curreri su tutti).
Così il nuovo album diventa il pretesto per sfoderare gli aneddoti di una vita, dai quali prende forma la figura di un uomo e di un artista diretto, un po’ arrabbiato, con una gran voglia di comunicare passioni, futuro, e ricordi per nulla scalfiti dal tempo. La divertita ironia che condisce i molti gustosi retroscena di una carriera luminosa, le ascese, le cadute e le inattese risalite, le scoprirete tutte qua. Ecco cosa ci siamo detti.


Ricky, il tuo nuovo disco ha un titolo emblematico, “Fottili”, ma chi è che dovremmo fottere?
Nella mia esistenza ho sempre vissuto in modo strafottente, fregandomene della politica e delle istituzioni, poi un bel giorno mi sono trovato a sperimentare i guai che la politica ci procura e mi è venuta un’incazzatura che non ne hai idea. In qualche modo , come faceva il cantautorame negli anni 80 che lanciava messaggi, sto provando a lanciarli anch’io. Nel pezzo che dà il titolo all’album, dico: “Ti entrano anche nel cesso di casa tua” vuol dire, ad esempio, che non esiste più nemmeno una privacy. Sicuramente mi beccherò qualche denuncia per apologia di reato per questo disco, perché non solo questo pezzo tratta certi argomenti, però alle fine “Fottili” è un incitamento a fregare chi ci sta fregando, ma fottiamoli noi una volta, quando possiamo. Ascoltando il telegiornale puoi capire perché ho chiamato così il mio disco: è diventato tutto allucinante, veramente allucinante.

Quindi un ospite come Pino Scotto, che canta con te in quel brano, sembra cadere a fagiolo, visto che è sempre arrabbiatissimo...
Sembrava quasi che la canzone l’avessi scritta per lui. Infatti mi ripete sempre: “Ehi bro... quella è la mia canzone”.

È un album musicalmente variegato, ma che ha un comune denominatore, che è la sua connotazione autobiografica...
Assolutamente, anche perché ho cominciato solo col disco precedente a scrivere testi. Come per gli altri due, anche questo non volevo farlo: le canzoni le avevo scritte per altri, pensando di farle interpretare a Vasco, una ad esempio l’avevo scritta per Patty Pravo. Mi hanno convinto a inciderlo, alla fine l’ho fatto e dovendomi scontrare con l’esigenza di scrivere dei testi, non c’era niente di meglio che scrivere ciò che penso, quel che ho vissuto, o di quello che vorrei fare.
Beppe Aleo, il produttore esecutivo di questo disco, mi aveva contattato già qualche anno fa, perché voleva che facessi un album strumentale, solo che io non ero molto favorevole perché finiva con l’essere un disco per addetti ai lavori. Non voglio avere nulla a che fare con gli addetti ai lavori, perché vivono solamente di critiche e considerano la musica come qualcosa di asettico, mentre io voglio suonare per le sciampiste, per le cassiere, per persone a cui la musica entra dentro in modo inconscio. Volevo fare una cosa lontana dai soliti canali, così sono tornato da Beppe che non ha voluto nemmeno ascoltare il disco, l’ha preso a scatola chiusa, perché lui è uno che ascolta prima col cuore, e poi con le orecchie.

Nel pezzo “Santi e religiosi” ci sono dei riferimenti espliciti alla religione, mentre qua e là sparsi nel disco ce ne sono altri alla spiritualità: qual è la tua posizione rispetto a questi temi?
Sono stato molto in guerra con la religione, avendo avuto dei momenti di crisi profonda in cui non credevo più a niente, poi però ho avuto un’esperienza che mi ha fatto riflettere e che mi ha fatto sentire che invece qualcosa esiste. Dentro di me non riesco a condividere tutto, non riesco ad andare con convinzione in fondo a questa spiritualità, però da ventitré anni sono buddhista, che non è una religione ma una via per arrivare a qualcosa: mi sta aiutando molto, e infatti quello che scrivo nelle mie canzoni è riferito alla religione che noi ci portiamo dentro. Buddha siamo noi, non è un’entità astratta che non conosciamo e che preghiamo. In “Santi e religiosi” ho voluto dire che ormai neanche le persone che hanno una spiritualità profonda riescono più a pregare, perché siamo in un momento in cui non si può più credere in niente: tutti i valori che avevamo sono messi in discussione. La realtà che viviamo è tutto e il contrario di tutto, ed è tutto assurdo. L’altro giorno leggevo di un vecchietto, qui dalle nostre parti, che è stato arrestato perché ha rubato due mele da portare al nipotino. Ma stiamo scherzando? Questo quando ci sono ministri che chiedono soldi mentre sono stati indagati e ne fanno di tutti i colori. C’è una sorta di dittatura in cui noi dobbiamo tacere, e a lorsignori andrà bene fino a che noi avremo da mettere a tavola qualcosa per i nostri figli, ma quando la gente non riuscirà più a fare questo, allora cominceranno i guai: nel 1789 presero la Bastiglia proprio per questi motivi. Se noi siamo in grado di educare, siamo anche nelle condizioni di fare qualcosa di valido, non per far casino e basta come succede sempre: il 68 io l’ho vissuto in pieno, avevo quattordici anni, andavo a scuola e facevo parte dei movimenti studenteschi, ma c’era troppa confusione, troppo pressapochismo. I movimenti non fanno male, ma devono anche avere una cognizione.

Ricky, tu hai il privilegio di essere l’unico in Italia per cui prendersi del grande figlio di puttana è motivo di lusinga e non di offesa, o sbaglio?
Puoi immaginare mia madre come sia contenta... (risata)

Già, però almeno il figlio è felice, perché se un grande autore come Lucio Dalla ha pensato a te quando ha scritto “Grande figlio di puttana”, che è poi anche entrata nella storia della musica pop italiana, c’è più di un motivo di soddisfazione...
Chiaramente, come hai detto tu, quello è un epiteto che vuole essere un complimento, perché il testo di Lucio non è nato da qualcosa di negativo. Era il 1981, ed eravamo entrati in studio per registrare il primo disco degli Stadio, però io a quei tempi ero in tour con Eugenio Finardi, e avevo poco tempo per andare a suonare, così registrai delle chitarre solamente su una traccia di batteria. Quando Lucio le ascoltò, esclamò: “Ma tu guarda quel figlio di puttana che, anche quando non c’è, ci lascia qualche idea sui cui poter lavorare”. Dopodiché ci sono altre cose che lo hanno ispirato, ad esempio il fatto che io sia sempre stato molto sensibile al fascino femminile, soprattutto ero uno dall’innamoramento facile, e Lucio una volta mi trovò a sbattere la testa sui muri degli Stone Castle Studios di Carimate, mentre stavo piangendo per una donna.

Però adesso mi devi dire chi era questa donna...
Eh io sono stato innamoratissimo di Loredana (Berté, ovviamente ndr), nel 79 feci un tour con lei, e andai fuori di testa.

Ma eri corrisposto o no?
Chiaramente, se mi hanno trovato a piangere, non era un rapporto di felicità... purtroppo era qualcosa di unilaterale.

Ricky Portera - Lucio DallaChe tipo di persona era Lucio Dalla, e che rapporto avevate?
Lucio era un personaggio da prendere con le molle, era un grande psicologo... Lo conobbi un mercoledì sera. Era il 1977, e io ero reduce da un’esperienza artistica molto dissacrante con una band messa in piedi per Renato Zero, che si chiamava Sua Maestà, un progetto che fece innescare a Vasco Rossi la voglia di cantare: noi eravamo diventati famosi nel circuito emiliano, e lui ci invitava sempre alle feste di Punto Radio, l’emittente per cui lavorava, che erano sempre guarnite di migliaia di persone. Lui si era innamorato di questa situazione e fummo noi la molla che lo spinse a iniziare a cantare. Pensa che Vasco l’ho conosciuto quando avevo 8 anni, in una scuola di musica a Modena dal compianto maestro Bononcini, dove facevamo dei concorsi che si chiamavano “L’usignolo d’oro”, che peraltro vinceva sempre lui... già allora era due passi avanti! Tornando alla tua domanda, alla fine con Renato Zero non se ne fece niente, e io mi ritrovai d’improvviso in una situazione in cui non avevo nemmeno i soldi per comprare le sigarette, mi dissi: “Ok, mi faccio due o tre mesi con Lucio Dalla...”, perché io non sapevo manco chi fosse!

Non avevi mai sentito nominare Lucio Dalla?
Lui era un po’ difficile da seguire ai tempi in cui gli scriveva i testi Roberto Roversi, non era per tutti, era per un pubblico di nicchia. A dire la verità il suo nome lo conoscevo, ma solo perché nel 1967 aveva portato a Sanremo in coppia coi Rokes, che erano i miei idoli di quel momento, il brano “Bisogna saper perdere”. Ad ogni modo, lo incontrai quel mercoledì sera in un locale vicino a Modena in cui doveva suonare, lui mi guardò, non mi disse niente, se non: “Domani pomeriggio alle 3 ti aspetto a casa mia, in Via delle Fragole a Bologna, ché facciamo le prove”. Insomma, andai a casa sua, facemmo le prove e il giorno dopo eravamo già a suonare al Teatro Uomo, a Milano: fu il nostro primo concerto insieme, a dicembre, con i secchi sul palco del teatro perché pioveva dal tetto. Ti dicevo di Lucio psicologo, ebbene, luì capì subito chi ero e cominciò da un lato ad amarmi, e dall’altro a mettermi dei grandi freni. Aveva già compreso che ero un esuberante, e lui riusciva a colpirmi dove più mi faceva male... non è che se una persona è morta ne devi parlare per forza bene, aveva le sue stronzate come tutti gli esseri umani, per cui il nostro rapporto è stato sempre di odio-amore: io sul palco sono sempre stato un accentratore, e a lui non è che facesse molto piacere che una fetta di pubblico mirasse a me. Insomma, erano sempre battaglie, però con grande stima reciproca, perché io ero l’unico sul palco che si poteva fare i cazzi suoi: io quasi non andavo nemmeno a far le prove, e lui mi diceva: “Sali e fai tutto quello che ti viene in mente”.

A proposito di libertà espressiva, ho notato che nell’album live “Dallamericaruso” ti hanno completamente tagliato l’assolo di “Washington”, che invece era presente per intero nel documentario che mandò in onda la Rai, sai dirmi il motivo?
Ti rispondo con le parole che mi disse Red Ronnie, quando mi ospitò nella sua trasmissione “Sapore di mare”, allorché piazzai un bellissimo assolo in coda a “La sera dei miracoli”: “Ricky, è inutile, gli assoli non pagano”. Eravamo in un momento storico – stiamo parlando degli anni 80 – in cui si era un po’ persa l’abitudine ad ascoltare i chitarristi, e quindi mi tarpavano le ali. È una cosa che mi sta sui coglioni da morire, anche in radio il momento dell’assolo è quello in cui il dj si mette a parlare, e questo è davvero terrificante.

A un certo punto sei stato più di dieci anni senza suonare assieme a Lucio, e sei tornato nel 1996 con l’album “Canzoni”: cosa è successo in quel periodo?
La crisi non fu con Lucio ma con gli Stadio. Dopo sei anni di canzoni che avevano segnato le vicende del pop italiano, noi eravamo ancora conosciuti come il gruppo di Lucio Dalla, e la gente quasi non conosceva le nostre facce. In televisione c’era sempre lui davanti a noi, e noi eravamo in secondo piano, così cominciai a portare avanti l’idea che la band dovesse abbandonare Lucio, non certo per ostilità, ma per permetterci di creare una nostra via: peccato che gli altri fossero contrari. Vedi, c’era il classico problema dei due galletti nel pollaio, perché a quei tempi ero riconosciuto io come il leader, mentre solitamente nella band questo ruolo appartiene al cantante.
In quel periodo ero anche parecchio ribelle, ma vorrei dire anche molto stronzo, e l’unico che riusciva a tenermi a bada era proprio Lucio, e quindi non si poteva abbandonarlo, perché c’era il timore che io prendessi il sopravvento. Tanto è vero che, appena me se sono andato dal gruppo, gli Stadio hanno preso la loro strada come avrei voluto io, e quella è stata la dimostrazione di quanto ti ho detto.

Invece il ritorno del 1996 com’è avvenuto?
Fu una cosa del tutto inattesa. Stavo passando una fase molto buia della mia vita: nel 1990 uscì il mio primo disco solista (come ti ho detto, non ho mai amato incidere dischi solisti, mi hanno sempre obbligato a farli), in cui si sente tutta la negatività che avevo addosso. Era un periodo economicamente duro, mi ero sposato e avevo capito di aver sbagliato a farlo, non ero più lo stronzo di prima, ero diventato buono e quando si diventa buoni si gode di più, ma si soffre anche di più. Così cominciai a dare lezioni di chitarra e a fare altre cose che odiavo: una volta mi ritrovai a fare una serata da solo, era una notte di marzo del 1996 vicino a Ovada: dopo un po’ non avevo più pezzi da suonare, così iniziai a raccontare barzellette. In coda a questa terrificante serata, mentre mi stavo arrotolando i cavi, un ragazzo iniziò a scattarmi delle foto. Io gli chiesi, un po’ rinfrancato: “Hey, ma perché mi fai delle foto ora?”. E lui: “Beh, vedere Ricky Portera che si fa su i cavi e che mette via la sua roba, non è cosa di tutti i giorni”. Insomma, mi sono venute le lacrime agli occhi. Però, una volta uscito dal locale, mentre ero in autostrada, trovai un messaggio vocale nella segreteria del cellulare con una voce che mi diceva: “Ciao, sono Lucio, il tuo caro amico Lucio Dalla, sono in Fonoprint, chiamami perché dobbiamo ricominciare a lavorare insieme”. Erano dieci anni che non lo sentivo, ma era come se fossero passati due giorni. Non ci credevo, l’ho richiamato subito, lui era ancora in studio e mi ha invitato a Milano per l’indomani: ovviamente io ero già là, e da quel momento è ricominciata la collaborazione, fino a che altre persone e altri eventi non hanno fatto in modo di rovinare di nuovo tutto.

Cosa è successo?
È entrato un altro chitarrista che ha cominciato a fare guerriglia, perché in quella band non c’era tanto la ricerca della musica, ma quella di guadagnarsi un posto al sole. Lucio era uno che se vedeva che gli davi delle cose, lui ti usava, invece io mi son sempre fatto i fatti miei. Poi c’è stato l’intervento di un’altra persona che era convinta di essere la più brava di tutte, e a cui dava fastidio che l’applauso più grande se lo prendesse un altro. Inoltre Lucio, in quella fase, stava attraversando un momento molto difficile, con dei problemi di salute che lo hanno provato e indebolito, e questo faceva il gioco di chi gli metteva in testa delle cose che non avrebbe dovuto mettergli. Così io sono stato licenziato a mia insaputa, nel senso che mi sono ritrovato fuori senza che nessuno mi dicesse nulla, ed è la cosa che mi ha fatto più male.

Sei riuscito a salutarlo alla fine?
Purtroppo non ce l’ho fatta. E guarda com’è buffa la vita: prima del fatidico tour in cui lui ci ha lasciato, ero andato a fare una serata a Siracusa e la domenica sera, mentre stavo andando a prendere l’aereo che mi riportava a Bologna, ho incontrato sul pullman Gionata Colaprisca, al tempo il suo batterista, che da bravo siciliano mi ha detto “Ricky, ma ti ha telefonato Lucio? Sono due mesi che parla di te, dice che ti deve chiamare, che ha bisogno di te...”. Purtroppo, però , questa volta Lucio è partito e non è più tornato.

“Canzoni”, l’album che vi ha fatto tornare a suonare insieme, è anche quello di “Ayrton”…
Il solo che c’è in quella canzone, che credo sia una delle cose più belle che abbia fatto nella mia vita, è nato dopo un concerto degli Ac/Dc a Bologna. Sono passato in studio verso le due di notte per vedere cosa stavano facendo gli altri, e Lucio mi ha chiesto se volessi registrare la mia parte, così ho attaccato la mia chitarra gialla e nera all’amplificatore, e ho suonato quello che mi è venuto sul momento. Devi sapere che il produttore era Mauro Malavasi, noto avversatore delle chitarre, e quando gli ho chiesto di mandarmi la registrazione su cui avrei lavorato, lui mi ha detto: “Buonanotte Ricky, puoi andare.” Quel solo non è stato più toccato, è nato come “buona la prima”, io sono partito e arrivato fino in fondo, e quello è rimasto. Ci tenevo a dirlo perché quello è il mio vanto: solitamente gli assoli te li devi un po’ lavorare, quello invece andò così.

Ricky Portera - Gaetano CurreriAbbiamo parlato a lungo di Lucio Dalla, ma solo indirettamente di Gaetano Curreri. Siccome ho visto che è stato ospite di questo disco, e anche del precedente, mi sono detto: “Allora Ricky torna negli Stadio...”
(Qui Ricky si prende una pausa, e poi scoppia a ridere). Ah questo, guarda, non potrà mai accadere! Io ci andrei molto volentieri, ma probabilmente non sono ancora pronti per riavermi nella band. Io faccio molta paura, ho fatto paura a un sacco di artisti con cui ho avuto un po’ di controversie per la mia esuberanza che tende a rubare l’attenzione del pubblico, ed è per questo che sono uno dei chitarristi più famosi d’Italia, ma anche uno dei più poveri.
Però quando chiedi a Gaetano di venire a suonare con te, lui ci viene, quindi vuol dire che i rapporti sono buoni...
Ma certo, è stato felicissimo, tanto che oltre al video del brano “Fottili”con Pino Scotto, ho girato anche quello con Gaetano di “La tua vita”. I rapporti sono sempre ottimi, è chiaro che poi quando si scende nei particolari magari qualche scontro ci può essere, ma io ho cominciato a lavorare con lui che avevo 13 anni, e se non ci fossero conflitti sarebbe tutto di una staticità pazzesca.

Fra i tanti progetti a cui hai partecipato, ce n’è uno particolarmente interessante con Stefano Ianne. Fra i bravi musicisti che vi hanno preso parte, c’è anche Nick Beggs, un grande bassista che all’inizio molti prendevano sotto gamba perché era nei Kajagoogoo. Poi però molti si sono accorti del suo straordinario talento, e lui ha fatto il turnista in un sacco di dischi e di live act. Che tipo è Nick?
In quel progetto molto particolare, che potrei definire di genere prog degli anni Duemila, mi sono ritrovato a suonare con due folli, uno è Nick e l’altro è Terl Bryant che è il batterista di John Paul Jones e che mi chiamava “Silver Fox”, per via dei miei capelli grigi e perché facevo sempre il furbo. Nick ha la prerogativa di sembrare una persona completamente integerrima, fisso lì col suo cilindro in testa, il cappottone fino ai piedi, i capelli lunghi ossigenati bianchi e gli occhiali da sole. Poi però se ne usciva con delle cose allucinanti: una volta, al culmine di un'esplosione rock, mi si avvicinò e mi leccò un orecchio! Un’altra volta Terl gli fece un video in cui lui era in mezzo alla strada da perfetto English-man ma, a un certo punto, come preso da uno schizzo, ha cominciato ad ancheggiare come un omosessuale e a spogliarsi con noncuranza. È completamente matto: mantiene sempre la sua parte dandy, ma è un fuori di testa scatenato. Stupendo.

Parliamo delle tue altre collaborazioni, visto che hai suonato anche con Ron, con Loredana Bertè, con Eugenio Finardi e molti altri. Hai qualche aneddoto che riguarda anche questi musicisti e che puoi raccontarmi?
Aneddoti? Ma dovrei restare qui una settimana! Ad ogni modo, lavorare con musicisti che hanno culture diverse e che suonano musiche diverse è una cosa che fa crescere, indubbiamente. Ti posso raccontare di quando ero in tour con Finardi a Lagonegro, quando mi fecero stare in giro fino alle sette del mattino perché cercavano un gallo da strangolare, dato che l’ultima volta che erano stati a dormire lì, il gallo non li aveva fatti dormire. Mi sembrava di stare sul set di un film dell’orrore, nel cuore della notte a girare per Lagonegro alla ricerca del gallo da uccidere: fortunatamente però non lo abbiamo trovato, sennò poi lo avrei difeso io quel povero galletto.
Con Loredana Bertè, una volta eravamo a Porto Cervo, frequentavamo una discoteca che si chiamava Ritual, e ci avevano dato due Cinquecento per muoverci sull’isola: una la usava lei con le due coriste, mentre sull’altra giravamo in cinque. All’uscita dal locale, abbiamo smontato le ruote della sua Cinquecento mettendo dei sassi al loro posto: ci siamo messi lì ad aspettare le ragazze che, quando sono salite, si sono messe a salutarci con la mano dando gas, peccato che l’auto rimanesse ovviamente ferma al suo posto. Loredana, per vendicarsi, due sere dopo in albergo si è fatta dare il passepartout, è entrata nella nostra camera, l’ha svuotata e ha portato tutti i nostri vestiti in spiaggia, ma pure i materassi e i mobili: quando siamo entrati, la stanza era completamente vuota. Queste erano le usanze di quei tempi, quando la musica si faceva con entusiasmo e i tour erano delle feste.
Con De Gregori, a Firenze, al Teatro Tenda nell’82, abbiamo fatto tre serate e un pomeriggio: mi contestarono, perché io ero un fighetto e quindi non potevo suonare con questo profeta di sinistra che io però ho chiamato in un altro modo, non esattamente profeta...

Ah, non hai una buona opinione di De Gregori? Eppure ha fatto delle belle canzoni...
Assolutamente no. Dopodiché è vero, ha fatto delle bellissime canzoni, ma conosciamo anche dittatori che hanno scritto delle bellissime poesie, senza voler entrare ulteriormente nel merito. Comunque sto scrivendo una mia biografia che uscirà, credo, il prossimo inverno e che si intitolerà “Ci sono cose che non posso dire”, ma anche lì su alcuni aspetti mi sono un po’ trattenuto. Dicevo, al concerto del pomeriggio qualcuno dal pubblico mi tirava addosso delle lattine di birra piene di sabbia. Quei tizi ebbero la bella idea di tornare alla sera, ma forse non sapevano che con noi lavorava tutta la manovalanza del circo, fra cui un camionista, che era una specie di gigante buono: beh, lui riuscì a individuarli, li portò fuori dal tendone, e suppongo che a questi sia passata non solo la voglia di tirare lattine, ma anche di andare a vedere concerti.

Tu sei un chitarrista che ama improvvisare, però ci sono dei tuoi colleghi, che magari piacciono anche a te, come Steve Vai, che non amano moltissimo improvvisare...
Però aspetta un attimo, io non ho mai detto che mi piace Steve Vai. Ho avuto una proposta di suonare le sue chitarre che poi è sfociata, grazie alla Mogar, in un mio modello di Ibanez che è stato customizzato in America dietro mie specifiche e che è stato promosso dai giapponesi. Se c’è qualcosa che ricorda Steve Vai è solo perché un periodo della mia vita l’ho dedicato all’insegnamento, quindi dovevo avere una casistica di tanti chitarristi, però l’amore è ben altro e va ad altri nomi. Come dicevi tu, io non amo i cliché, o ciò che è predefinito e che rimane sempre quello.

Invece un nome che mette d’accordo tutti i chitarristi è quello di Jimi Hendrix.
Jimi Hendrix mi ha sconvolto la vita perché per la prima volta ho sentito qualcosa che andava al di là del modo normale di suonare la chitarra. Quando l’ho sentito per la prima volta avevo 13 anni, e in quel momento mi “prendeva” e basta. Poi, col tempo, ho provato ad analizzarne i motivi e ho capito che lui, come Jeff Beck, Rory Gallagher ed Eddie Van Halen, che sono i miei miti, sono coloro che mi hanno fatto vedere cosa c’è dietro la chitarra. La chitarra non si ferma alle dita e al cervello, ma deve andare ben oltre, è qualcosa che si incarna dentro, e tu devi far parte dello strumento.

È un po’ come la voce...
Assolutamente sì. Ascoltando questi chitarristi io riuscivo a vedere la loro vita, a capire proprio come vivevano. Una sera, sulla mia pagina di Facebook, ho postato “Catherine” di Eddie Van Halen e qualcuno mi ha chiesto perché mi piacesse questo pezzo. Beh, a me piace perché è un brano che ti fa capire la sofferenza di chi lo suona: quando Eddie suona “Catherine” ci sta raccontando la sua sofferenza, e questo mi ha smosso la commozione. Ricordiamoci che quando chiesero a Steve Lukather (il leader dei Toto, ndr) quale fosse il miglior chitarrista a Los Angeles, lui indicò la villa di Van Halen.

“Catherine” è nella colonna sonora di un film porno di un regista molto visionario del genere, che è Michael Ninn...
Sì, è molto bella la fotografia di quel film...

Eh sì, solo quella... (e qui ci uniamo in una risata)
Però davvero, quello di Eddie è rock’n roll. Ogni volta che vado a parlare con i ragazzi durante gli stage, cerco di far capire che la prima cosa che serve per essere musicisti è suonare se stessi, ed è per questo che la chitarra non può essere solo mani e testa. Una sera ero a un seminario di Frank Gambale che andai a vedere casualmente nella mia Messina, e due ragazzi mi vennero incontro chiedendomi un autografo, entrambi erano posati, vestiti in modo fighetto e mi dissero: “Sai Ricky, anche noi abbiamo una band, facciamo hardcore”. Al che io li guardai e risposi: “Ma andate affanculo!”. Dai, prova a pensare a Lemmy che suona jazz, prova a immaginarlo e poi capisci cosa voglio dire: ognuno deve suonare come vive, quella è la musica.

Ho da farti un’ultima domanda. È più che altro una curiosità che riguarda “Piazza Maggiore”, il brano strumentale che chiude il tuo nuovo album: non è che, per caso, è dedicato a Beppe Maniglia, il chitarrista saltimbanco che si esibisce da anni a Bologna in quella piazza?
Ah ah ah! Beppe Maniglia va in giro con una moto equipaggiata come un palco, ha quasi settant’anni ma ha un fisico ancora spaventoso, e si ciba solo di noci, nocciole, mandorle e verdura e, durante il suo show - tra una canzone e l’altra - gonfia fino a farle scoppiare due boule dell’acqua calda, quelle di plastica durissima.
Comunque no, “Piazza Maggiore” ha un’altra storia. È nata perché abbiamo suonato in quella piazza un concerto meraviglioso organizzato da Guido Elmi e Vittorio Corbisiero dal titolo “Ultimate World Guitar Exhibition”, che raccoglieva da Malmsteen a Stef Burns, da Timo Tolkki a Jennifer Batten, fino a Doug Aldrich, mentre l’apertura dello spettacolo l’abbiamo fatta io, Maurizio Solieri e Max Cottafavi. Così, per evitare di eseguire sempre delle cover, in una notte ho composto questo pezzo da presentare dal vivo appositamente per quell'occasione. Ma ti voglio raccontare un altro piccolo aneddoto che riguarda quel concerto...

Dimmi...
Il pomeriggio, prima del sound-check, sono andato in albergo, che era dietro a Piazza Maggiore. Entrando, alla reception, prima di me c’erano due vecchietti, lui aveva gli occhiali spessi come due fondi di bottiglia. Mi sono detto: “Pensa questi due vecchietti, stasera moriranno, col casino che faremo...”. Benissimo, quel vecchietto era Glenn Hughes, che quando è salito sul palco ha scaravoltato il mondo, facendo un concerto da lacrime agli occhi.

Si ringrazia Davide Sechi per il prezioso contributo

(23/07/2014)

Discografia

Ricky Portera (Wea, 1990)
Ci sono cose (Wea, 2007)
Fottili (Videoradio, 2014)
Pietra miliare
Consigliato da OR

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