Roberto Vecchioni

Canzoni per i figli del mondo

intervista di Claudio Fabretti

Raggiungiamo telefonicamente Roberto Vecchioni dopo un lungo corteggiamento via mail. In realtà, è molto cordiale e disponibile, si capisce che ha voglia di parlare: di sé, della sua storia, di sogni, sentimenti, ricordi, della musica italiana. Di tutto, tranne della politica. Così il referendum costituzionale, conclusosi nella notte con il trionfo del No, lo lasciamo in pasto all’orgia chiassosa di commenti che impazzano da ore ovunque, tra tv, web e social network. Il Professore, che pure si è speso tante volte in politica - non ultima, l'attività a favore di Giuliano Pisapia sindaco di Milano nel 2011 – si è forse stancato di essere frainteso e tirato per la giacca. E poi è troppo preso dal suo nuovo progetto: un cd, intitolato “Canzoni per i figli”, che si è andato aggiungere al suo libro “La vita che si ama”, per un cofanetto in cui c’è tanta parte del suo cuore. E lo si capisce subito dall’emozione con cui risponde alla prima domanda…

Professor Vecchioni, com'è nata l’idea di queste “Canzoni per i figli”?
Il libro era uscito l'anno scorso, solo con le lettere ai figli e tutti i testi delle canzoni dedicate a loro. E allora ho deciso di aggiungerle, quelle canzoni, e già che c'ero anche di ricantarle e riarrangiarle, perché erano perse nel tempo o poco note. Poi ho aggiunto due inediti, in cui a mia volta, da figlio, mi rivolgo a mia madre. Riviverle attraverso i ricordi mi ha scatenato tutta una gamma di emozioni, molto più forti di quelle che avevo provato quando le avevo cantate la prima volta: gioie, dolori, passioni, paure, sogni… tutti i pensieri che mi sono passati in questi 40 anni di vita con i figli. È un disco che si rivolge a tutti i padri e anche a quanti non hanno figli e pensano ai figli degli altri, ai giovani del mondo. Sono canzoni per tutti i figli del mondo, i miei non sono diversi da loro.

Le porterà anche in tour?
Sì, ho già fatto qualche data a ottobre-novembre, ma tornerò di nuovo a fare concerti da metà gennaio. E si parlerà proprio di questo argomento, di quello che capiterà ai nostri figli, ai nostri nipoti, di quello che lasciamo (e non lasciamo) loro. Insomma, è il futuro del mondo, un argomento grosso. Io non sono un filosofo o un sociologo, la metto da poetastro, attraverso le emozioni. Ma credo che le emozioni contino molto. Anche per questo è un disco a cui tengo tantissimo.

Del resto, sui giovani ha sempre avuto un osservatorio speciale, grazie alla sua attività di docente nei licei e nelle università…
Sì, insegno tuttora, all'università di Pavia. La cosa che ho visto di più in vita mia sono i banchi! E poi naturalmente ci sono gli studenti. Ho passato secoli con loro, ho visto passare generazioni, modi di pensare... Credo che insegnare non significhi solo dare nozioni. Insegnare è socratico: bisogna dare ai ragazzi gli strumenti per potersi ingegnare da soli. C’è una comunicazione scientifica, che serve nella pratica, ma poi c’è bisogno di una comunicazione evocativa, che è quella che serve per salvarci: l'arte, la poesia, la bellezza.

Ho una grande fiducia nei ragazzi di oggi. Loro hanno bisogno di uno stimolo, di uno spunto, e poi partono, si buttano come dei pazzi.

Roberto VecchioniMi è sempre piaciuto il modo in cui si rivolge alle nuove generazioni, con grande fiducia, senza quel senso di superiorità tipico, purtroppo, di alcuni esponenti della sua generazione, di quelli che “hanno fatto il ‘68” e accusano i giovani di oggi di non coltivare più quegli ideali. Lei, in fondo, ha sempre detto il contrario, a partire da quella canzone commovente che è “Sogna ragazzo sogna”.
Certo, io ho una grande fiducia nei ragazzi di oggi. Loro hanno bisogno di uno stimolo, di uno spunto, e poi partono. Bisogna solo aiutarli, perché sono fragili. Quando offri loro delle gratificazioni, allora si buttano come dei pazzi e sono bravissimi. “Sogna ragazzo sogna” è una canzone totale, che ho scritto per i miei ragazzi quando sono andato in pensione dalla scuola. E lì dentro c'è tutto: l’invito a non abbattersi mai, a stare con gli altri, a sentire la bellezza della poesia, a guardare avanti, a vivere le gioie e i dolori, ad avvinghiarsi alla vita. Perché come sosteneva un grande poeta turco, Nâzım Hikmet, l'uomo ha un senso della vita straordinario: anche quando pianta un ulivo da vecchio, pensa che potrà vederlo crescere, non ha mai l'idea di morire. Bisogna avere sempre l'idea di vivere e cercare di essere felici. Vivere è essere felici.

Guai a farsi travolgere dall'onda dei ricordi e dal timore del futuro: bisogna vivere il tempo verticale.

Ecco, la felicità è proprio il tema centrale del suo libro, “La vita che si ama”. Scrive di volerla addosso “come una febbre”, e poi: “La felicità non è un angolo acuto della vita o un logaritmo incalcolabile o la quadratura del cerchio: la felicità è la geometria stessa”. Ci può spiegare meglio?
Io credo che abbiamo un'idea riduttiva della felicità, pensiamo che coincida solo con i momenti in cui siamo sereni o ci va bene qualcosa. Ma la felicità non è così poco, è tutto il resto: devi prendere le avversità, e ribaltarle; devi prendere le gioie, e goderle fino in fondo, perché altrimenti non le godi più. Devi prendere tutto.

Anche in un periodo così cupo come quello che stiamo vivendo?
Sì, è un periodo cupo, ma ne abbiamo vissuti tanti, nella storia dell'umanità. Dobbiamo superarlo, perché perfetti non saremo mai e felici come intendiamo noi nemmeno. Per dire, forse anche Adamo ed Eva erano troppo felici in paradiso e allora hanno preferito una vita più dinamica…

Nel libro parla anche di un “tempo verticale” da contrapporre a quello orizzontale...
Il tempo verticale è difficile da conquistare, ci vuole un bel coraggio. Bisogna uscire dal tempo e non lasciarsi prendere dalla sua onda. Se ci lasciamo sopraffare dal dolore dei ricordi e dalla paura del futuro, siamo fregati. Invece dobbiamo tentare di pensare che il tempo ce l'abbiamo tutto dentro di noi, nell'anima. Non è quello che scorre solo oggi: i ricordi devono restare sempre vivi, non dobbiamo rimpiangerli; e il futuro dobbiamo immaginarlo continuamente, in modo da sentirlo quasi presente. Insomma, dobbiamo impilare passato, presente e futuro nella nostra coscienza e non vederli scorrere orizzontali.

La Milano di Luci a San Siro era un paesone, dove ci si conosceva tutti. Oggi, è una metropoli cosmopolita e avveniristica, che dà sicurezza.

Roberto VecchioniDa romano, mi sono innamorato di Milano grazie alla sua “Luci a San Siro”. Cosa ricorda di quella Milano e quanto è lontana dalla Milano di oggi?
È lontanissima. Quella era una Milano pionieristica, quasi un paesone: ci si conosceva quasi tutti, c'erano tanti luoghi di incontro. Ci riunivamo in gruppetti, a progettare il futuro. Capitava di incontrare tanti generi di persone, perfino un po' di mala! Fiorivano i cabaret, la comicità, il jazz. Tutte cose che oggi sono sparite oppure sono diventate di nicchia. Ma la Milano di oggi non è meno bella, lo è sempre, ma in un altro modo: si è modernizzata tantissimo, è veloce, rapida. Una città avveniristica, una metropoli cosmopolita che ti dà sicurezza, ti dà certezze.

Peccato non poter dire lo stesso di Roma…
Roma è bellissima e unica al mondo, ma forse paga questa bellezza con un certo disordine. È una città che amo e mi dispiace che sia in queste condizioni.

Che rapporto ha, invece, con i suoi album storici - da “Parabola” a “L'uomo che si gioca il cielo a dadi”, da “Elisir” a “Samarcanda”? Cosa prova, oggi, a riascoltarli?
Li amo ancora tutti, allo stesso modo, ma sono cambiato tanto da allora. Ho imparato tanta musica e tanti modi diversi di fare musica. Allora ero solo uno che scriveva ballate, canzoni all'italiana. Poi ho imparato a fare altre cose, dal jazz alla sinfonica. Ho imparato da Puccini come si fanno le arie, dai grandi jazzisti americani come si travisa e come si può andare fuori tempo se si vuole. E ho imparato tanto dai cantautori italiani, soprattutto De André, Guccini, Dalla: come si affronta una storia, come si sviluppa un testo… In pratica, ho imparato e insegnato tutta la vita.

Sanremo è stata una botta di passione popolare. Mi ha aiutato a uscire dalla mia nicchia.

E poi nel 2011 si è ritrovato sul palco di Sanremo e ha addirittura vinto quella manifestazione, apparentemente così lontana dal suo modo di intendere il rapporto con la musica. Come è finito all’Ariston?
Non sono stato spinto, è stata una esperienza che ho voluto io, con convinzione. Mi piaceva l'idea di valorizzare la canzone popolare, oltre a quella vagamente colta e intelligente. E volevo ampliare il raggio di persone che mi conoscevano. Sono sempre stato uno da teatro, da nicchia. E così invece è esplosa una conoscenza speciale. Una botta di passione popolare! Per quanto possa essere a volte un po' dozzinale e artefatto, il Festival di Sanremo resta un grande momento della cultura italiana. Andarci e vincere con una canzone abbastanza nobile, come "Chiamami ancora amore", è stata una bella impresa, una gioia immensa.

E così è diventato anche l’unico cantautore ad aver vinto insieme Premio Tenco, Sanremo e Festivalbar. Alla faccia di chi l’ha sempre accusata di essere un radical-chic!
Ma sì, in fondo io ho sempre scritto canzoni per tutti. Adesso posso andare indifferentemente in una piazza a fare cinque-seimila persone o in un teatro a farne mille. E anche come scrittore ho vinto tre premi letterari molto diversi tra loro, come il Pavese, il Montale e l'Elsa Morante.

Guccini, Dalla, De André non erano solo grandi cantautori, erano anche guru, maître à penser. I loro dischi erano viaggi in cui ci ritrovavamo tutti.

Roberto VecchioniLei fa parte di una generazione speciale di cantautori, quella degli anni 60 e 70, che, oltre a regalare dischi storici, aveva saputo raccontare e denunciare la società italiana. Al di là dei gusti musicali, non trova che i cantautori oggi abbiano perduto questa centralità?
Sì, quella era una generazione speciale. Oltre a scrivere grandi canzoni, i vari Guccini, Dalla, De André erano dei guru, dei maître à penser. Facevano opinione, insomma, e il pubblico andava dietro a quello che scrivevano. Oggi ci sono ancora bravi cantautori, c'è del rap bellissimo, non solo per i giovani, ci sono gruppi progressivi interessantissimi (ma non fa nomi, perché “appena ne dici uno ti fucilano su Twitter”, ndr). Forse è cambiato anche il tipo di fruizione: l’album non è più un concept, un viaggio, una storia incredibile in cui tutti possono rispecchiarsi. Conta solo la bellezza di una canzone, di un attimo, magari accatastato sopra un altro in una playlist. Così alla fine è più difficile che resti qualcosa di “storico”.

A proposito di cantautori storici, nella vita mi è capitato di scrivere un libro su Francesco De Gregori e mi è stata di grande aiuto la sua dispensa sul “Linguaggio in canzone” per il corso di “Forme della poesia per musica” dell’Università di Torino. Com’è cambiato, a suo parere, il lessico delle canzoni italiane negli ultimi anni?
Sono state semplificate notevolmente tutte le figure di pensiero in canzone. Le metafore, oggi, sono facilissime, le storie con personaggi e interpreti molto più rare. Si parla di un sentimento e lo si prolunga per quattro minuti. Generalmente è amore, ma può essere anche odio, libertà etc. Non ci sono dentro pezzi di più storie, è sempre solo una sola storia, un solo momento, un solo racconto, e questo toglie un po' di profondità. Non era così negli anni 70, basti pensare a Dalla e “Come è profondo il mare”: quante cose c'erano dentro quella canzone! È un lessico più semplice, quindi, ma non sprovveduto, a volte sa essere anche molto bello. Nel testo che ho scritto su De Gregori e Mogol, ho indicato proprio le differenze essenziali che ci sono tra un lessico mediale, che arriva subito, e un lessico trans-mediale, che arriva quando ci pensi un po' su. Ma questo non significa che un lessico mediale sia brutto, a volte può essere anche più bello. Calvino diceva che bisogna essere molto realisti per scrivere di surrealismo. Ed è così: l'astrazione non può essere “a cazzo”, deve avere un senso.

Ho insegnato ai figli i sogni, la bellezza. Ma non bastano per affrontare la vita.

Per chiudere, torniamo ai suoi figli, Francesca, Carolina, Arrigo ed Edoardo: che rapporto hanno con le sue canzoni? E che tipo di padre è nei loro confronti?
Le mie figlie adorano le mie canzoni, mi vengono sempre a vedere, anche se preferiscono restare un po’ in disparte. I maschi invece, forse per la voglia di fare i bastian contrari, mi prendono in giro molto spesso, a volte mi snobbano, però so che anche a loro piacciono le mie cose. Per quanto riguarda me, penso di non essere stato un grande padre. Non sono riuscito a spiegare ai miei figli i tanti mezzi che servono per battersi in questa giungla che è la vita. Forse anche un po' bambinescamente, ho dato loro i sogni, il senso della bellezza, cose che alla fine sono inutili…

Ma come? Sono importantissime! (ridiamo)
D’accordo, anche loro mi dicono che non sono state inutili. Del resto, il sogno e la bellezza non sono cose di tutti i giorni, loro forse sono un po' diversi da tanti altri ragazzi, ma si trovano in mezzo a parecchia cialtroneria, a tanta gente che ha gusti molto sbagliati. Però si difendono bene, anche perché sono tutti e quattro molto intelligenti. Hanno preso dalla madre!

Versione estesa di una intervista originariamente pubblicata sul quotidiano "Leggo"



Discografia

Parabola (Ducale, 1971)
Saldi di fine stagione (Ducale, 1972)
L'uomo che si gioca il cielo a dadi (Ducale, 1973)
Il re non si diverte (Ducale, 1973)
Barbapapà (Philips, 1975)
Ipertensione (Philips, 1975)
Elisir (Philips, 1976)
Samarcanda (Philips, 1977)
Calabuig, stranamore e altri incidenti (Philips, 1978)
Robinson, come salvarsi la vita (Ciao Records, 1979)
Montecristo (Philips, 1980)
Hollywood Hollywood (Cgd, 1982)
Il grande sogno (Cgd, 1984)
Bei tempi (Cgd, 1985)
Ippopotami (Cgd, 1986)
Milady (Cgd, 1989)
Per amore mio (Emi, 1991)
Camper (live, Emi, 1992)
Blumun (Emi, 1993)
Luci a San Siro e altri successi (antologia, Cgd East West, 1994)
Il cielo capovolto (Emi, 1995)
El bandolero stanco (Emi, 1997)
Sogna ragazzo sogna (Emi, 1999)
Canzoni e cicogne (live, Emi, 2000)
Il lanciatore di coltelli (Emi, 2002)
Rotary Club of Malindi (Columbia Sony Music, 2004)
Il contastorie (live, Universal, 2005)
Studio Collection (antologia, Universal, 2005)
The Platinum Collection (triplo cd, antologia, Emi, 2006)
Di rabbia e di stelle (Universal, 2007)
I grandi successi (antologia, Warner Music, 2008)
In Cantus (live, Universal, 2009)
Chiamami ancora amore (Universal, 2011)
I colori del buio (2 cd, antologia, Universal, 2011)
Io non appartengo più (Universal, 2013)
Canzoni per i figli (Dme, 2016)
L'infinito (Dme, 2018)
Pietra miliare
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