St. Pangolin

Da Catania con rumore

intervista di Francesco Nunziata

Davide Ianniti (violino, elettronica), Claudio Palumbo (chitarra, oggetti) e Simona Strano (chitarra) suonano tutto quello che alla radio non ascolterete mai: lunghe improvvisazioni per stridori, clangori, scazzi e tumefazioni angoscianti, feedback, schiume elettroniche e urla disperse nel caos. Il loro esordio è un doppio che contiene quattro brani e 120 minuti esatti di musica. Un disco ostico ma vitalissimo e affascinante. Ne parliamo con loro, alla ricerca delle radici e del "senso" di tanta "devastrazione"...

Raccontateci un po' com’è nata l'avventura degli St. Pangolin... A proposito: da dove viene questo moniker?
Davide: Un giorno d’estate di un paio d’anni fa, Claudio mi disse che voleva mettere su un gruppo noise, e che aveva già il nome: St. Pangolin. Il discorso usciva sporadicamente, ma senza conseguenze pratiche. Poi, ad ottobre dell’anno scorso, Claudio ha reclutato al volo Simona e ci siamo ritrovati in sala, senza neanche sapere bene cosa fare (inizialmente Simona doveva portare ukulele e kazoo…). Montato un microfono, ma senza nessuna pretesa, abbiamo cominciato a “suonare” alla buona senza neanche essere troppo soddisfatti. Stavamo quasi per staccare, abbastanza delusi. Poi è uscito dal nulla quello che adesso è il primo brano del disco (17’16”). Alla fine siamo rimasti in silenzio per molto tempo e ci siamo accorti di aver fatto davvero qualcosa.
Simona: L’input definitivo è arrivato lo scorso anno, ottobre 2014, quando tutti e tre stavamo assistendo a un concerto che non ci era piaciuto tanto… Claudio rilanciò la proposta. L’idea della band era un po’ la nostra risposta a qualcosa che non ci piaceva. E i pangolini sono animaletti carini e molto bistrattati che si trovano nel sud est asiatico.
Claudio: Personalmente non ricordo bene il momento in cui proposi questa cosa ai ragazzi. Rammento però che era un periodo in cui volevo fare un gruppo noise per fare un po’ di sacrosanto casino e divertirmi un po’ e che mi ero fissato col nome St. Pangolin per chissà quale motivo. Probabilmente il giorno prima volevo farmi un progetto di dark-ambient e chiamarlo Flop Jesus. Coi Pangolini è andata bene.

Il vostro approccio al rumore, insieme fisico e intellettuale, mi ricorda le esperienze di AMM, la "Metal Machine Music" di Lou Reed, i Dead C, i Throbbing Gristle, Blowhole, Airway e via di questo passo. Vi sentite figli di questa tradizione?
D.: Personalmente no, ma è più per ignoranza che per scelta! Ciò che siamo o sembriamo non deriva per me dalle intenzioni di imitare o ripetere cose fatte da altri.
S.: Quando abbiamo iniziato non sapevamo neanche cosa stessimo iniziando a fare, non avevamo idea del caos sonoro che sarebbe uscito fuori. Personalmente, infatti, pensavo a qualcosa di più “canonico” e melodico, che magari traesse spunto da noise e post hardcore a cavallo tra anni 80 e 90. Qualcuno ci ha detto che - a tratti - potevamo sembrare i figli dei giapponesi Incapacitants. Se siamo figli di quella tradizione è quasi per caso, per istinto.
C.: Il rumore come possibilità d’espressione mi ha sempre affascinato. Ho ascoltato, divorando avidamente, tutti i gruppi di cui parli e tanti altri ancora (sono molto affezionato a Torturing Nurse, Wolf Eyes, il caro vecchio Merzbow, Red Crayola, Fat Worm of Error, Flying Luttenbachers, Happy Flowers, fino a Xenakis o MacLise). Tuttavia non credo che siamo direttamente figli di qualcosa o che in noi ci sia un tentativo di emulare o riprendere la tradizione. Se sei inquieto e incontri per la strada un vecchietto ugualmente inquieto, non per forza deve essere tuo nonno.

La libertà con cui lavorate la materia sonora mi ha fatto pensare a quanto sosteneva Bruce Russell dei Dead C quando, parlando di free-noise, diceva che a) ciò che è oltre la musica è il rumore; b) ciò che è oltre le regole è libero. Anche i St. Pangolin hanno sviluppato un'estetica del rumore?
D.: Non abbiamo mai cercato di definire a tavolino la nostra estetica. Semmai abbiamo passato molto tempo ad ascoltare, scoprire e interpretare quello che avevamo fatto in sala. Usciamo sempre dalle nostre session in uno stato di mutismo e amnesia quasi totali, e riascoltando quello che abbiamo registrato siamo spesso molto sorpresi. In un certo senso, credo che questo possa essere la mia grande conferma ai punti a e b.
S.: L’unica cosa che conta è che ogni session è estemporanea e mai più riproducibile dal vivo. Abbiamo forse cercato inconsciamente di rendere le copie fisiche degli “oggetti d’arte”, creandole a mano: sono suoni unici che non potranno mai più presentarsi al mondo. Per quanto riguarda le regole, solo io seguo ogni tanto ritmiche e accordi tradizionali: Davide e Claudio sono completamente slegati da queste logiche.
C.: Il “rumore” ha decisamente più spunti creativi rispetto alla “musica melodica”, si può muovere in maniera più libera, ma non sempre la libertà assoluta si traduce in qualcosa di migliore. Quando ci chiudiamo in sala per suonare, non ci imponiamo mai uno schema o una struttura sonora, ci lasciamo guidare dall’istinto. Ma è anche un fenomeno impulsivo molto forte provare, in mezzo a quella baraonda astratta, a seguire un flusso comune e rimanere attaccati a un suono o a una spina dorsale. L’alienazione più grande credo che provenga dal rendersi conto che non sei in un caos rumoristico solipsista, perché i mostri che stai evocando hanno le stesse sembianze di quelle dei tuoi compari, seppur con personalità diverse. Russell dice che oltre la musica c’è il rumore, ma oltre il rumore c’è il silenzio; una delle cose che mi ha colpito di più dei St. Pangolin è il fatto che dopo una lunga session di casino estremo, il silenzio che giunge alla fine diventa veramente molto più insopportabile di qualunque fastidiosissimo fracasso e ti dà un senso di “mancanza” enorme, un vuoto sinistro.

In riferimento a quanto dice Simona ("L’unica cosa che conta è che ogni session è estemporanea e mai più riproducibile dal vivo."), vi chiedo, dunque: ogni volta che suonate dal vivo, fate "sempre" cose nuove? E registrate sempre tutto?
D.: L’unica cosa che sappiamo prima di cominciare a suonare dal vivo è il tempo che abbiamo a disposizione. Per quel che mi riguarda faccio partire il cronometro e mi “sveglio” a intervalli irregolari sorprendendomi quasi sempre del fatto che sia passato così tanto (o così poco) tempo rispetto all’ultima volta che ho controllato il minutaggio. Ciò che facciamo in quel tempo è comunque sempre nuovo, sempre imprevisto, sempre una sorpresa anche per noi. L’idea di trovare anche solo dei pattern su cui ritornare dal vivo sembra a tutti noi particolarmente paraculo (si può dire paraculo?). E comunque, purtroppo, finora non abbiamo mai registrato una nostra session dal vivo, ma è un’ottima idea per il futuro.
S.: A me un po’ piace l’idea che quel che succede live scompaia subito nell’aria! Il concetto del suono che arriva, si dissolve e non lascia nessuna traccia o nessun ricordo preciso è estremamente affascinante. In studio è più facile. Basta collegare qualche cavo ed è - quasi - fatta. Tanta gente, comunque, ci ha chiesto di registrare dei “bootleg” (parolona!) autorizzati e distribuirli. Chissà, potremmo prendere spunto da quei grandissimi Signori chiamati Einstürzende Neubauten e dare al pubblico la registrazione, non appena finito il concerto.

Mentre improvvisate, quanta importanza date a ciò che stanno suonando gli altri? Vi è più interazione o devastazione?
D.: Tantissima importanza, per me. Cerco sempre di “entrare” in quello che fanno Simona e Claudio per “accordare” i synth su di loro. Se si considera che tutto quello che facciamo è assolutamente improvvisato, a volte le sinergie che si creano sono davvero sorprendenti. Sotto la superficie di caos che caratterizza la nostra musica, se si fa attenzione, si può sentire molto interplay.
S.: L’interazione prima di tutto. Come dice Davide il caos è solo di superficie: direi che siamo coordinati nel devastarci. Spesso incrociamo gli sguardi e sincronizziamo tonalità o ritmi. Come diceva prima Claudio, alla fine di ogni session ci ritroviamo in silenzio, col fiatone e lo sguardo perso e i fischi nelle orecchie: la sinergia continua anche ad amplificatori spenti.
C.: Devastrazione

Le vostre jam sono tortuose ma anche concludenti, nette. Nel mentre dello svolgimento, a cosa ambite? Un effetto percettivo come per i musicisti della psichedelia storica oppure fate soltanto vagare la fantasia secondo il tono e la temperatura di un dato istante?
D.: Non sapevamo bene cosa fare quando siamo entrati in sala la prima volta, ma credo che torniamo a suonare proprio per ritrovare le sensazioni di quel giorno. Ci siamo trovati a fare una vera e propria “terapia di gruppo” di cui, da allora, abbiamo tutti molto bisogno. Per noi è un po’ come essere attraversati e un po’ ripuliti a fondo dalla musica/rumore che creiamo insieme, e la lunghezza delle nostre sessioni aumenta parecchio la portata dell’effetto. Non essendoci neanche la minima traccia di un canovaccio, poi, il “senso” delle nostre jam emerge interamente da come nello stesso tempo ci guidiamo e ci seguiamo a vicenda. Ripensandoci, in effetti, è un modo veramente improbabile per fare le cose, ma stranamente funziona.
S.: Non si ambisce a qualcosa di molto diverso dallo sfogarsi: abbiamo iniziato per questo a suonare. Vagare e divagare ci sembra la cosa migliore da fare, proprio perché attenersi a canovacci predefiniti andrebbe oltre l’idea di estemporaneità a cui il gruppo è devoto. Prima si parlava di "Metal Machine Music": Lester Bangs diceva che quei suoni derivavano dallo sfogo di tutti i nervi del corpo, concentrati in una sola, grande “ghiandola”: in un certo senso credo che il nostro progetto possa rispecchiarsi in quella definizione, con tutti i limiti - e l’umiltà - del caso.
C.: Credo sia più una questione legata alle sensazioni e gli impulsi di un dato momento, può però anche succedere che prima di andare in sala mi fisso con un’idea di suono che poi molto spesso cambio completamente durante la sessione coi St. Pangolin. Mi piacciono anche i momenti in cui mi si inceppa la fantasia e non so bene cosa fare.

Il disco è stato registrato dal vivo al Boxsound Garage di Catania. E' stato un caso o è proprio nella dimensione live che la vostra musica si sviluppa con più coerenza?
D.: Probabilmente non abbiamo altre dimensioni, anche se il nostro è un live atipico. Non abbiamo mai “provato” neanche per un minuto. Non abbiamo mai cercato di definire qualcosa da rifare in seguito. Credo che quando siamo chiusi in sala suoniamo con la stessa attenzione che ricercheremmo sul palco, mentre quando siamo sul palco conserviamo l’intimità e il “calore” che abbiamo in sala, ed è molto bello che questo passi anche al pubblico.
S.: Definiamo “terapia” le nostre session in sala (ma anche live). Ci isoliamo dal mondo e non ricordiamo più neanche cosa abbiamo fatto o per quante ore l’abbiamo suonato: la sala diventa un vero e proprio cubo sonoro e da lì non si scappa. Dal vivo può cambiare qualcosa, ma non ce ne rendiamo conto, perlomeno nell’immediato. È sempre interessante vedere come qualcuno fugga via dopo qualche minuto ma la maggior parte del pubblico resta per i circa 45 minuti di live (rigorosamente cronometrati!) sdraiandosi per terra o guardando il soffitto con aria smarrita. Non ci accorgiamo di loro, vediamo veramente poco oltre le punte delle scarpe e i pedali. Solitamente ci raccontano loro stessi che cosa hanno fatto o provato, avvicinandosi a fine concerto. In definitiva, dove ci sono tre amplificatori quel luogo diventa di diritto coerente con la nostra musica.
C.: Secondo me, è anche una bella dimensione l’ascolto casalingo del disco, stravaccati in un divano con tutto quel che ne consegue. Comprate il disco.

Avete avuto altre esperienze musicali prima dei St. Pangolin?
D.: Sì, e anche abbastanza diverse tra loro (e certamente molto diverse dai St. Pangolin!). Attualmente suono anche con i Loveless Whizzkid (chitarra e voce) e con gli Stash Raiders (ewi, violino, chitarra). In più sto cominciando a dedicarmi alla registrazione - proprio in questi giorni siamo in sala per registrare il terzo disco da solista di Claudio - e da marzo mi sono lanciato nella creazione di Hopeful Monsters Records, per fornire una base comune a tutti questi progetti.
S.: A parte il classico gruppo ai tempi del liceo e le strimpellate in camera no, mi sono sempre dedicata al “backstage”: negli ultimi due anni sono stata assistente di produzione per Zanne Festival, da più tempo orbito nel mondo delle webzine e degli uffici stampa, ma aiuto anche con le produzioni video di quei folli di Ground’s Oranges. Sono sempre stata più fruitrice e lavoratrice dietro le quinte che musicista.
C.: Sì: anche se a sentire quello che facciamo coi St. Pangolin non si direbbe mai, ho un progetto di cantautorato sporco lo-fi e punk a mio nome (Claudio Palumbo “ExPugile”) che porto avanti da qualche anno, addirittura anche con qualche soddisfazione. Come ha già scritto Davide, in questo periodo siamo in studio, insieme a tanti altri amici della scena catanese a registrare il terzo disco che si chiamerà “Blank Iugoslavia”. Poi ho un altro progetto a cui tengo molto che si chiama Lazzaretto ed è una sorta di collettivo (si può dire collettivo? boh!) di amici o alle volte passanti occasionali, con i quali suoniamo e registriamo, con i mezzi che ci troviamo ad avere a seconda della situazione, canzonette disagiate. Lazzaretto è aborto di idea, mortificazione di uno spunto creativo che però viene fuori nella sua forma primordiale, quindi forse l’unica interessante. Da poco suppongo si siano sciolti gli Almond Ice Director, gruppo post-punk che avevo con degli amici con cui abbiamo fatto un Ep “Pudenda”. Questi progetti usciranno o sono usciti per una sorta di etichetta casalinga che è Golden Catrame, contenitore di materiale d’impronta amatoriale con lo scopo di fare uscire allo scoperto la feccia musicale che normalmente non viene considerata (a breve uscirà l’Ep dei Perky Pat, gruppo noise che avevo qualche anno fa).

Quali sono le vostre influenze, musicali e non?
D.: In ordine sparso: My Bloody Valentine, Yo La Tengo, Pavement, Fugazi, Slint, i primi Gong e Soft Machine, Guided By Voices, Amon Düül II, Charles Mingus e la musica da videogame dei primi anni 90.
S.: Quando suono le ispirazioni sono più musicali che altro: Sonic Youth, Big Black, Shellac, Nirvana, Germs, Fugazi, Hüsker Dü e così via. Le ritmiche serrate sono una sorta di tributo personale a Steve Albini, il controllo del feedback, invece, è merito di Kim Gordon e i suoi Body/Head, da molti un po’ bistrattati ma, per me, sintomo della personalità e della presenza fisica della Donna nella musica.
C.: Sparo un po’ a casaccio: Jandek, la No Wave, Boyd Rice, Half Japanese, Melt Banana, Chrome, Six Finger Satellite, Cccp, Minor Threat, Black Flag, Young Marble Giant, Beat Happening, Flipper, Mission of Burma, Death in June, Butthole Surfers, Cranioclast, Laghetto, Blue Vomit, Swans, Fall, Tyvek, Psychedelic Horseshit, Quasi, Meat Puppets, Einsturzende Neubauten, Matt Brinkman, Xander Marro, Pixies, taluni gruppi shoegaze, Pere Ubu, K.K. Null, Black Dice e il Blues del Delta. Poi Villiers de l’Isle-Adam, Mark Twain, quelli che scopano al piano di sopra e Brueghel. In linea di massima mi influenzano un sacco di cose, ma non credo di farci troppo caso.

Che rapporti avete con la scena catanese?
D.: Anche se suonerà politicamente scorretto, credo che la scena catanese sia un campo incredibilmente fertile ormai ricoperto da carcasse di ferraglia bruciate da anni. Ogni tanto s’intravedono inquietanti ombre di competizione abbastanza insensata che poco hanno a che vedere con la musica. In ogni caso, per le nostre diverse collaborazioni musicali e non all’esterno dei St. Pangolin, abbiamo tutti dei buoni rapporti con molti rappresentanti della “scena”. Naturalmente tra alti e bassi.
S.: I rapporti sono buoni, se di scena si può parlare. La situazione per me non è disastrosa come dice Davide ma, a volte, compaiono - o ricompaiono - band insensate formate da ragazzini o quarantenni che vengono inspiegabilmente incensate da tutti, quando il loro background culturale è pari a zero e si limitano a copiare, scopiazzare, riproporre… firmandosi però con il loro nome e autocelebrandosi come profeti del nuovo millennio. Catania è un posto strano: ci saranno pure 300.000 abitanti ma quelli che “fanno” la scena vera sono sempre gli stessi. Poi arrivano le incursioni delle meteore che, secondo me, fanno solo danni. Sono sempre molto polemica a riguardo. Perdonatemi!
C.: Catania è una città bizzarra, io credo che ci sia anche un gran potenziale che ogni tanto esce fuori creando situazioni davvero molto interessanti. Penso che nonostante stupide rivalità e un inutile divismo da quattro soldi siamo in un periodo in cui qualcosa di buono stia emergendo. In fondo poi a fare “la scena” sono e siamo sempre le stesse persone e a molte di queste sono parecchio legato. Non è un caso che per i miei dischi da solista (soprattutto l’ultimo che sto facendo con Davide), ho chiamato tanti amici e zii e fratelloni più grandi della scena a darmi una mano. Ovviamente bisogna ammettere che non è tutto rose e fiori, a Catania ci sono anche una serie di coglioni senza scampo... ma forse questo è normale.

Cosa fate quando riponete gli strumenti nelle custodie?
D.: Faccio tante belle cose: suono con diverse altre persone, gestisco una sala prove che tento di far diventare studio di registrazione e che dovrò poco a poco ripulire e ristrutturare; provo a registrare dischi e spesso anche a farli uscire con la mia etichetta, la Hopeful Monsters, quindi sbatto la testa tra Siae, tipografie e Bricoman per avere tutto ciò che serve e poi passo le notti a confezionarli (quasi sempre con Simona); cerco di immaginare e progettare nuovi synth ed effetti sulla base di quello che mi servirebbe quando li suono e infine provo fantasiosamente a far sì che anche solo una delle cose dette finora riesca a darmi un reddito semi-decente. 
S.: Intanto faccio la conta dei danni: pick-up affondati, sellette divelte, corde distrutte. Poi torno immediatamente alla vita di tutti i giorni che, al 90%, si svolge insieme a Davide. Per il resto è tutto un vortice di e-mail, comunicati stampa, noia, giochi improbabili e 9gag su internet e tante, tantissime puntate di Doctor Who. Lo struggle, poi, è sempre uno: trovare un lavoro che non sia stagionale!
C.: Vado a zonzo per la città, principalmente. Ogni tanto faccio il dogsitter e sto curando una rassegna di concerti e mostre in provincia di Catania. Da un paio d’anni, ispirato dal mio bassista che è un illustratore, ho ripreso a disegnare e con la mia amica Irenea abbiamo formato un duo chiamato Xanta Pece di illustrazioni e locandine. Faccio parte anche di un collettivo di videomaker che risponde al nome di ShitBrio (con cui facciamo anche videoclip musicali) che al momento è un po’ bloccato. Se trovo gli stimoli giusti e riesco a evitare di litigare con chiunque, forse ritorno a seguire attivamente il Teatro Coppola, teatro occupato catanese con il quale ultimamente sono stato un po’ in rotta. Poi leggo, vado al mare e rompo le palle agli amici. Il resto non si può dire.

Quali dischi vi sono piaciuti di questo 2015?
D.: Sono usciti dischi nel 2015?
S.: Il 2015 per me è stato l’anno dell’alienazione più totale, dedicato ai live più che agli album ascoltati. Mi sono piaciuti finora l’ultimo di Sufjan Stevens, "Endkadenz vol.1" (perché è bello essere adolescenti sempre), "A Long Period of Blindness" dei Weird e "Season of K2" dei PARBAT. Poi c’è il nuovo Ep dei Loveless Whizzkid (il gruppo principale di Davide): uscirà tra qualche giorno ed è veramente incredibile.
C.: A un certo punto ascoltavo a ripetizione l’ultimo dei Thee Oh Sees: “Multilator Defeated At Last”. Poi “Transfixiation” degli A Place to Bury Strangers, un disco dal titolo impronunciabile dei Monkey Plot ("Angående omstendigheter som ikke lar seg nedtegne", ndr) e “Clip-o-matic Lips” dei miei amici Pelios. Comunque sono veramente poco metodico nell’ascolto dei dischi.

Quali saranno le vostre prossime mosse?
D.: Non avendo “brani”, per noi “comporre” significa fondamentalmente definire l’arsenale sonoro a nostra disposizione nel momento in cui chiudiamo la porta della sala o avviamo il cronometro sul palco. Da un lato dovremo quindi approfondire le possibilità del nostro arsenale attuale e migliorare sempre più la nostra sinergia; dall’altro, se vorremo fare qualcosa di veramente nuovo, ci servirà esplorare nuovi suoni, nuovi modi e nuovi incastri.
S.: Suonare il più possibile, principalmente in sala. Chissà che non escano fuori i prossimi 3 album, così per caso.
C.: Speriamo di fare un po’ di casino in giro.

Suonerete in giro nei prossimi mesi?
D.: A quanto pare, il modo più facile per suonare in giro, indipendentemente da tutto, è mettere su una cover-band semiacustica. Quindi per noi sarà piuttosto difficile, ma ci proveremo di certo.
S.: Si spera di sì! È già difficoltoso suonare in giro per chi fa musica più normale: i St. Pangolin non sono così facili da “piazzare”. Finora abbiamo sempre suonato in ambienti in cui il nostro operato veniva inteso quasi come una performance di arte moderna, siamo stati fortunati. Magari nei prossimi mesi torneremo a far qualcosa a Catania. Dopotutto l’ultimo live risale a giugno...
C.: Speriamo di sì, magari anche fuori da Catania. Un bel tour in Canada chi ce lo può organizzare?

(25/10/2015)

Discografia

St. Pangolin (Hopeful Monsters, 2015) 7
Pietra miliare
Consigliato da OR

St. Pangolin su Ondarock

Vai alla scheda artista

St. Pangolin sul web

Bandcamp
Facebook