Upupayama

Il nonsense è ancora più libero

intervista di Riccardo Nuziale

Presenza ormai adottata a piene braccia qui su OndaRock, inizialmente all’interno dell’edizione 2020 di Baxters, poi con una prima intervista, torniamo a salutare Alessio Ferrari, che sotto il nome Upupayāma ha in anni recenti incantato la comunità psichedelica con un folk onirico e bucolico, capace di abbagliare gli ascoltatori ben oltre i confini nazionali. Ferrari è tornato lo scorso novembre con il suo secondo disco, “The Golden Pond”, dove, pur in continuità con il sound proposto nell’omonimo esordio, ha espanso e arricchito i propri orizzonti. Ne parliamo in questa nuova chiacchierata, ringraziandolo per la gentile disponibilità offerta.

 

Alessio, ci siamo lasciati l’altra volta condividendo un amore, una passione, ovvero l’estetica dei dischi. Entrambi i tuoi dischi sono molto curati sotto questo aspetto e ti chiedo quindi se ci sono state delle evoluzioni, se l’artista è sempre lo stesso, come hai lavorato stavolta rispetto all’album d’esordio.
L’illustratore è un altro, sebbene sempre statunitense (più precisamente di San Francisco), che ha preferito non essere citato e che di base non è un illustratore, bensì un musicista; l’ho scoperto per caso su Internet e mi ha da subito colpito. Siccome vorrò sempre cambiare illustratore di disco in disco, l’ho contattato ed è stata una cosa abbastanza veloce; è stato bravissimo, ha subito captato l’idea che gli ho comunicato, che era di continuità rispetto alla prima copertina, ma in qualche modo più leggera, con il solo utilizzo di due colori e che va a evocare un tipo di paesaggio che spero poi si riesca a ritrovare nella musica del disco. Volevo quindi chiudere un discorso rispetto al primo disco.

 

Da un punto di vista estetico avevi dei punti di riferimento? Quando ho visto la copertina, il primo pensiero che ho avuto è che, se si tolgono nome e titolo, potrebbe essere benissimo scambiata per una copertina dei Popol Vuh.
Sì, i punti di riferimento sono sempre quelli, ha un taglio di cosmica anni 70, anche se non ho usato altre copertine da dare all’illustratore come fonte d’ispirazione; è stata piuttosto una mia idea comunicata a parole. Volevo che fosse un po’ più asciutta rispetto alla prima, e lui è stato bravissimo a concretizzare quanto richiesto. Per me rimane una cosa importante, anche il solo tenere in mano la copertina mentre si ascolta il disco, perché il tutto deve avere un continuum.

 

Un altro punto in sospeso rispetto alla prima chiacchierata è la questione live. Quando ci eravamo sentiti l’altra volta, stavi mettendo su un gruppo per poter suonare dal vivo, cosa che poi sei riuscito a fare, con tappe anche all’estero.
Sì, sia in Svizzera che in Germania.

 

Com’è andata?
Molto bene. Già a Roma, alla primissima tappa, il pubblico ha risposto benissimo e per me è stato amore a prima vista con gli altri componenti, che in parte conoscevo già, mentre in parte erano conoscenti di conoscenti. È stata la cosa fondamentale per farmi capire di essere sulla strada giusta. Ci siamo divertiti tanto, anche sbagliando, ma è una cosa che mi piace sul palco, perché ti dà la possibilità di reinventarti. Infatti un mio punto fisso, che già avevo esposto durante la prima intervista, è quello di non riprodurre i pezzi esattamente come suonano su disco. È stato magico, diversi pezzi sono stati sviluppati per la dimensione live, ma non in sala prove, bensì direttamente sul palco. A marzo suoneremo in Italia e in Austria, poi da aprile faremo un tour di 8-9 date tra Germania, Svizzera e forse Belgio.

Hai sentito la tipica pressione “da secondo album”, quello della conferma, di avere ora degli ascoltatori che si aspettano qualcosa? E a livello di suono hai voluto continuare quanto fatto nell’esordio o hai voluto cambiare delle cose?
Rispondendo alla prima domanda, sinceramente no. Siamo a dei livelli che nessuno ti mette pressione. Poi è ovvio che qualcuno (in pochi, per fortuna), appena uscito l’album, ha espresso delle perplessità, ma so benissimo il perché - e qui mi collego alla seconda domanda - non ho voluto dare grande circolarità alle canzoni, non ci sono tantissimi punti di riferimento, ci si perde facilmente. Sono canzoni che cambiano al loro interno e ovviamente qualcuno si è trovato spiazzato. Trovo sia un disco molto più vario, come influenze e come suoni, che qui sono molto meno bucolici rispetto al primo album.

 

Infatti il momento che mi ha fatto capire quanto sarebbe stato un ascolto diverso rispetto all’altro disco è arrivato in “Cuckoos From The House Of Golden Tin”: dopo circa 4 minuti di sound tipico dell’esordio, arriva quella chitarra violenta.
Sì, quello è un suono molto stoner e su quell’inserimento di chitarra ci sono stato un po’, non volevo il solito suono fuzz.

 

Secondo te, questa chitarra violenta, che si sente soprattutto nei primi due pezzi, è stato l’elemento che più ha destabilizzato certi ascoltatori?
Sì, devo dire di sì. È stata apprezzata tantissimo, nel primo disco non c’è nulla di simile. Io personalmente non sono un grande appassionato di stoner, anche se ci sono quelle 2-3 band che mi piacciono molto. Amo che vengano a crearsi questo genere di reazioni, perché portano a discussioni costruttive. Ad esempio, nei concerti di Germania molti appassionati si sono fermati a chiacchierare con noi per dare la loro opinione e questo significa aver centrato il bersaglio.

 

Sì, perché se continui a ripetere lo stesso sound, lo stesso stile, lo stesso tipo di canzoni, alla lunga diventi prevedibile. Ti può andar bene per due album, ma già al terzo…
Esatto, diventa un semplice esercizio di stile, che però non ha nulla a che vedere con la creatività.

 

Sì, è comprensibile se hai la major di turno che ti paga fior fior di soldi per ripetere lo stesso suono, ma da indipendente perché farlo?
Sì, ma non riuscirei neanche. Avrei potuto benissimo sviluppare il tutto come col primo disco, ma ormai quello era già stato fatto, apparteneva al passato.

 

In fondo, l’avevi già ritoccato con il passaggio da album digitale autoprodotto ad album pubblicato con etichetta, con l’aggiunta di un pezzo.
Sì, ma poi è facile pensare che chi suona tutti i pezzi per il proprio disco studi tutto a tavolino, ma non è così, sarebbe proprio impossibile. Anche perché gli ascolti variano, le influenze variano. Ad esempio, per “Cuckoos” ed “Entering The Time Of Wilderness” ci trovo tantissimo i Fairport Convention, che in quel periodo stavo riascoltando molto.

 

Bella questa dichiarazione. Onestamente non avevo pensato a loro, ma ora che lo dici trovo l’influenza davvero bella.
Sì e il bello è che magari qualcuno, ascoltando il disco, trova influenze a cui non avevo pensato durante la realizzazione. Se le mie intenzioni sono di un certo tipo, all’ascoltatore arrivano magari sotto altra forma. Tornando alla pressione no, non ne ho avute e anzi ho potuto realizzare il disco che volevo fare, un disco più lungo, più articolato, più aperto. Quando scrivo, penso sempre al lato live e per me queste canzoni hanno una potenza dal vivo incredibile, più di quelle del primo disco. Ad esempio, “Sata me pani” diventa qualcosa quasi funky, world music, che mi esalta tantissimo.

Collegandomi a questo, quando ho saputo dell’uscita del nuovo disco, mi è venuto in mente il tuo forte desiderio manifestato nella prima intervista di liberare le canzoni ai concerti, non dico di farle free form, ma comunque più fluide, più dilatate, e mi aspettavo che in questo disco la durata dei pezzi andasse in quella direzione. Non dico come si faceva in certi ambiti negli anni 70, con dischi composti da soli due pezzi di 20 minuti ciascuno, ma pensavo ci sarebbe stato - che so - un pezzo da 15 minuti. Invece i brani sono addirittura più corti rispetto al primo album. C’è stato un motivo? Come una sorta di timore di liberare le canzoni anche in formato studio?
Non c’è un vero motivo. Ci ho pensato anch’io e il discorso credo sia uno: nel comporre non si può impostare a tavolino. Nelle intenzioni avrei voluto anch’io, poi mi sono venute così, come se fosse emerso il ragazzino che è in me, quello che ascoltava britpop, e mi piace il fatto che quando crei, non sai mai come vada a finire. “Cuckoos”, ad esempio, inizialmente era un pezzo totalmente diverso. Forse, pensando che poi live le avrei cambiate, le ho tenute più corte. Poi in questo ho un atteggiamento molto punk, ovvero buona la prima, non amo stare troppo su un pezzo, lavorarci e lavorarci per un mese.

 

Quindi da questo punto di vista i Clash (suo primo amore musicale, ndr) sono ancora con te.
Sì, da questo punto di vista sì, non sono capace di ritoccare una canzone per tanto tempo, credo che perderebbe genuinità e potenza. O forse è anche semplice pigrizia.

 

E nei tuoi progetti c’è un disco live? Non dico nell’immediato, ma idealmente.
Mi piacerebbe molto, sì. Anche più di uno. Infatti in uno dei concerti che abbiamo fatto è stato realizzato un video professionale e stiamo lavorando per estrapolare l’audio. Non lo pubblicherei, è tipo il quarto concerto fatto, lo troverei un azzardo, però mi piacerebbe molto in futuro.

 

Per quanto riguarda il canto, la sua presenza viene qui più asciugata. Per dire, tra “At The Fairie Bower”, “Ergobando” ed “El sueño de la curandera”, che complessivamente fanno circa 13 minuti, canti 50 secondi, un minuto. È il centro del disco ed è un centro quasi interamente strumentale, cosa che sarebbe stata impensabile nel primo album, dove la tua voce era molto presente. Come mai? E com’è evoluto il tuo canto, in relazione al fatto che canti una lingua inventata?
Sì, ho cantato meno, e nello specifico nel centro volevo ci fosse una sorta di pausa, che portasse alla seconda parte del disco. È stato intenzionale, volevo ci fosse un momento di totale riflessione, rilassamento, beatitudine musicale. Per quanto riguarda il canto, conoscendo i miei limiti vocali, l’ho sempre considerato più uno strumento in mezzo agli altri. Non mi va di spenderci troppe energie, anche nello scrivere testi, credo che la musica debba essere un luogo dove ognuno dia il significato che vuole. Quindi considero la voce come uno strumento, come se fosse un flauto, o una percussione. Non sarei in grado di dare messaggi, sarebbero parole vuote. Se le voglio dire, uso un altro linguaggio. Sono un patito dei suoni e una cosa che vorrò fare sempre di più, nei prossimi dischi, sarà curare i suoni, scoprire, sperimentare anche a livello di registrazione, banalmente anche di posizione del microfono. Do più importanza a questo. Se devo bilanciare le mie energie, preferisco concentrarmi su un suono.

 

Nel disco suonano i musicisti che hai radunato per i concerti o sei solo tu?
Sono solo io, a parte in “Come Here, Noriko”, dove la batteria è suonata da Sheila Bosco. È una cosa su cui sto riflettendo, ora che ho una band; sono tutti musicisti bravissimi, ma io ho il limite di fare più fatica a lavorare coralmente, sono un po’ lento, ho bisogno dei miei tempi. Però ci voglio arrivare.

 

A livello di produzione, cos’è cambiato rispetto al primo disco?
Non è cambiato molto, ho sempre registrato nel mio “studio/stalla”. Sono solo stato più consapevole e, forte dell’esperienza accumulata, sono stato più veloce a registrare e un po’ più capace di curare i suoni, grazie anche a una strumentazione un po’ più di qualità. Ho cambiato amplificatore e ho usato molto di più il wah, che nel primo disco praticamente non si sente. Anche qui però sono sempre stato attento a usarlo, purtroppo tanti gruppi psych ne fanno abuso e secondo me è sì uno degli effetti più belli che esistono, ma è un po’ come il sale: se lo sai dosare, arricchisci il tutto, ma se ne metti troppo, rovini il risultato. Per il mixing mi sono affidato a Chris Smith, che lavora anche con gli Stereolab, e ha fatto un lavoro per me magnifico. Ha avuto una pazienza infinita, mi ha assecondato sempre.

 

Per quanto riguarda i progetti futuri, c’è un terzo disco in cantiere?
Ho quasi pronta una raccolta di canzoni risalenti al primo disco, all’epoca lasciate a metà e ora completate. Sarà un disco molto più orientato verso il lato kraut, più free form, con molte più percussioni, più acido. Meno folk, più rock. Non è propriamente un album, le canzoni sono staccate tra loro, però credo sia interessante, una variazione sul tema.

 

“The Golden Pond” è disponibile su Bandcamp, sulla pagina personale dell’artista (solo in formato digitale) e su quella dell’etichetta Centripetal Force (anche in vinile). Si può inoltre ascoltare tramite le principali piattaforme di streaming.


(19/03/2023)

Haiku nonsense sugli Appennini

 

A ben vedere, è il genere psichedelico a richiederlo. L’intrinseca ricerca di realtà alternative, di sovrapposizioni surreali, fanno sì che il cosmo possa essere rurale. Upupayāma, alias Alessio Ferrari, è riuscito a concretizzarlo con una proiezione che ha permesso di rendere la sua terra d’origine, un paese di montagna in provincia di Parma, un paesaggio lisergico pregno di sonorità orientali e parole che trovano senso solo nella voglia di ognuno di cedere all’insensatezza.
Nell’omonimo disco d’esordio, uscito lo scorso anno come autoproduzione esclusivamente digitale e ora riproposto con un brano inedito e un formato fisico attraverso due etichette (Cardinal Fuzz per Europa e Regno Unito, Centripetal Force per il Nordamerica), Upupayāma/Ferrari propone una psichedelia fatta di gioco. L’aspetto ludico della sua musica è presente sin dal nome d’arte, che porta l’upupa in montagna (yāma è la parola giapponese che appunto la indica), ben lontana dall’essere nella realtà il suo habitat; e prosegue nell’aspetto linguistico, fatto di testi inventati e privi di significato, con il preciso scopo di assecondare la musicalità e il potere visionario della vocalità. Il suo flusso musicale è fatto quindi tanto di spiritualità quanto di divertimento, con una fusione che ha portato il disco a essere uno degli esordi più amati del panorama psych recente (la versione rossa dell’edizione in vinile è andata sold-out la mattina stessa del primo giorno di pre-order).
Avevamo già segnalato il suo lavoro inserendo un brano nella playlist della psichedelia 2020, approfondiamo ora la questione con un’intervista a Ferrari, che ringraziamo.

Riascoltando il disco, ho pensato quanto potenziale ci sia nei pezzi per la dimensione live. Sul sito di Cardinal Fuzz ho poi letto che stai cercando musicisti per portare il disco in concerto. Ti chiedo, quindi, se hai delle esperienze pregresse, a che punto sei nella ricerca dei musicisti e quali ambizioni e preoccupazioni hai per questa nuova avventura del disco.
Sì, ho esperienze pregresse, suono da quando sono ragazzino, dai 13 anni, agli inizi in gruppi appassionati di musica punk…

Mi dicevi infatti via e-mail che il tuo primo amore musicale sono stati i Clash.
Sì, esatto, con “London Calling”. Da lì è nata la passione. Fino a due anni fa avevo anche una band, con cui facevo musica simile a quella che poi ho sviluppato da solo. Come spesso capita, ci sono stati punti di vista divergenti. Io l’ho sempre vissuta in modo viscerale e secondo certi standard, ovvero o si fa in un certo modo o non si fa proprio. Diciamo che arrivi a un certo punto in cui o condividi con gli altri un modo di vivere la musica (che va al di là dei gusti), o è meglio lasciar perdere. Sai, io vivo a Parma, una bellissima città ma abbastanza provinciale; mi sono sentito dire frasi tipo: “Ah, questo alla gente può non piacere” e io rispondevo che bisogna in primis fare quello che piace a noi. Ho preferito quindi proseguire da solo.
Per quanto riguarda il trovare i musicisti per i live, ho trovato la base, ossia – oltre a me alla chitarra e alla voce – un’altra chitarra, un basso e una batteria. La sfida più grossa sarà trovare altre tre persone, una tra sitar e percussioni varie, una alla tastiera e una al flauto. Se ne riparlerà dopo l’estate, ora sto registrando un secondo disco e mi sto concentrando su quello. Sono convinto che sono canzoni che si prestano molto, come hai detto tu, alla dimensione live, e soprattutto si tratterà di non riproporle esattamente come suonano su disco, ma di svilupparle ancora di più: m’immagino di portare “White Oak”, dai nove minuti dell’album, ad anche mezz’ora.

Sono d’accordissimo. Infatti quando ho riascoltato il disco, ho pensato in ottica live a una versione free-form dei pezzi, facendoli appunto durare anche 40 minuti senza problemi.
Sì, esatto. Non è stata una cosa voluta, ma riascoltando il disco, ho pensato che si potrebbe creare dal vivo un – passami il termine adolescenziale – bel viaggione mentale, come stanno già facendo in tanti, ad esempio i Garcia Peoples, i Kikagaku Moyo, e come facevano ovviamente i Grateful Dead. L’idea è appunto quella di proporre magari solo tre canzoni, ma farle durare per un’ora e mezza di concerto.

È molto intrigante, infatti. Sono perfettamente d’accordo con la tua visione delle cose, penso sia quella giusta.
Sì, ne sono convinto. Infatti non demordo, ci voglio riuscire perché so che ne verrebbe fuori qualcosa di bello. Ho già ricevuto qualche invito a suonare dal vivo, sia per quest’anno (e qui ho dovuto declinare per ovvie ragioni), ma anche per l’anno prossimo, in festival italiani e non, e quindi sarebbe la ciliegina sulla torta.

Guardando sempre sul sito di Cardinal Fuzz, ho notato che rispetto alla versione digitale dell’album uscita l’anno scorso, la tracklist ha un ordine diverso. A cosa è dovuto questo cambiamento?
Sono due i motivi. Il primo è una questione di spazio nel vinile. Con l’aggiunta di "Hopsa-Japapé" e con l’ordine che avevo delineato per la versione digitale, i pezzi non ci sarebbero stati. Il secondo è che l’anno scorso ebbi molta fretta di far uscire il disco e non avevo pensato molto bene a una scaletta. Riascoltando, ho pensato che forse ci stava bene cambiare l’ordine.

“Hopsa-Japapé” è frutto delle stesse session o è nata dopo?
È frutto delle stesse session, solo che l’avevo pensata per un Ep di due canzoni, perché ho tanto altro materiale in cantiere. Avevo appunto pensato a un Ep con “Hopsa-Japapé” e un altro pezzo che dura sui 30 minuti. Però ho pensato che sarebbe stato carino fare uscire il vinile con una canzone in più. Sembra una mossa marchettara, però ti giuro che non l’ho proposta a Cardinal Fuzz e Centripetal Force con questa intenzione.

Quindi è stata una tua proposta, non delle etichette che ti hanno chiesto materiale aggiuntivo.
Sì, loro volevano solo i quattro pezzi originari, ma a me fare uscire un vinile d’esordio con solamente quattro canzoni mi sembrava un po’ poco e quindi mi sono detto: “Vabbe’, aggiungiamone una”. L’hanno ascoltata, è piaciuta molto ed effettivamente anche come mood generale ci sta.

Sì, assolutamente. Un’altra cosa che mi è venuta in mente riascoltando il disco – sebbene sia ben conscio che non sia qualcosa con un’attinenza reale - è che la tua voce, il tuo modo di cantare, ricorda quello di Lou Reed. A mio avviso, hai la sua stessa capacità di “parlare cantando”.
Ah, bella! Non me l’aveva mai detto nessuno, ma effettivamente ora che mi ci fai pensare è vero.

Ero abbastanza sicuro che non fosse una cosa voluta, ma mi è venuta questa “illuminazione”. Al di là di questo, che valore dai, nel contesto musicale, al tuo canto?
Non mi ritengo un cantante, non ho mai imparato, non mi ci sono mai messo. Però il canto ha un ruolo molto importante nella mia musica, lo ha in questo disco e lo avrà ancora di più in quello a cui sto lavorando, perché è il voler dare alla voce il valore di uno strumento aggiuntivo, non di veicolatore di messaggi. In molti mi hanno chiesto del perché di questo linguaggio inventato. Io sono nato coi Clash, che ai testi davano parecchia importanza, però nel fare musica non ho mai voluto imprimere chissà quale messaggio. La vivo in modo diverso, seppure apprezzo chi dà ai testi un’importanza preponderante. Cerco sempre di far prevalere la creazione di un paesaggio, di un’esperienza. Tornando alla voce, la vivo come uno strumento musicale in più. Nei miei pezzi non c’è una forma canzone, con strofa, ritornello ecc., proprio perché voglio che la voce sia un suono aggiunto. Non so se sia una sfiducia nei miei mezzi, nel non ritenermi un cantante. Forse il pezzo con una struttura che più si avvicina al formato canzone è l’ultimo, “Hello Green Man, I Am A Tiger”, dove sembra che stia raccontando qualcosa. Ho pensato di metterci un testo vero e proprio, ma poi ho pensato che l’avrebbe portato su un binario per poi rimanere lì. A me, invece, piace pensare che le suggestioni cambino a seconda dell’ascoltatore. Non ho mai capito se i Kikagaku Moyo cantino in giapponese o meno, a me danno l’idea di no, però appunto riescono a trasmettermi suggestioni diverse ogni volta che li ascolto. Anche la stessa canzone può cambiare a seconda del momento in cui l’ascolto. È la loro qualità maggiore ed è ciò che ho voluto fare anch’io, quasi come un omaggio.

Infatti c’è il problema, oserei dire storico, di certa psichedelia nel venire ingabbiata da una sorta di retorica.
Esatto, ecco, mi hai rubato le parole di bocca. Non l’ho detto, ma è anche quello. A volte molta psichedelia mi fa sorridere per come sembri caricatura di sé stessa.

Sì, infatti. Andava bene negli anni 60 perché c’era un contesto storico che poteva giustificarlo, ma ora come ora fa onestamente sorridere.
Eh, adesso un po’ sì. Parlare ora come parlavano negli anni 60 per me non ha senso.

No, assolutamente. Volendomi collegare a questo punto, sulla retorica e il volerla evitare, c’è uno strumento nel tuo disco che è potenzialmente l’apice della retorica psichedelica, ovvero il sitar. Come hai voluto usarlo e come lo concepisci in generale?
Ho cominciato a suonarlo circa due anni fa, quindi da molto poco. Ho imparato da solo, il che è una follia, infatti lo dico sottovoce perché un indiano mi sparerebbe in faccia! Ovviamente, essendo partito col suonare la chitarra, lo suono… allora, cerco di suonarlo come lo suonano in India, ovviamente con tutti i limiti del caso, perché noi abbiamo una concezione musicale completamente diversa. Però, ecco, ho visto gruppi attuali suonare il sitar con il plettro e fa un po’ accapponare la pelle, personalmente non faccio questo. Nel disco l’ho voluto usare quasi come una terza chitarra; quello che si sente qui è un sitar nudo e crudo, mentre in futuro vorrei sperimentare un po’ di più. È uno strumento infinito, ma al tempo stesso è uno strumento un po’ limitato, perché comunque suoni sempre su una scala. Qui l’ho usato come una sorta di chitarra d’appoggio. La passione è nata ascoltando Ravi Shankar, mi ci sono appassionato e da lì mi è venuta la curiosità di comprarmene uno e mettermi a imparare, sebbene, come dicono in India, ci vorrebbe una vita per imparare a suonarlo e una per suonarlo. Voglio ampliare la mia conoscenza, anche perché è uno strumento divertentissimo da suonare.

A differenza di quanto si potrebbe pensare a un primissimo ascolto, dai molta importanza alle percussioni, alla sezione ritmica.
Ho la fortuna di vivere in un paese di montagna con pochi abitanti e in una casa indipendente; questo mi permette di fare tutto il casino che voglio. Ho cominciato divertendomi come un matto a distruggere un timpano che avevo acquistato. Per spiegare meglio devo fare un passo indietro: i musicisti che ho finora arruolato per la dimensione live non sono dei mostri tecnici, ma perché do molta importanza all’improvvisazione; suonando una batteria che mi sono costruito io pezzo dopo pezzo, il non saper suonare, l’essere totalmente libero da vincoli accademici e tecnici (che a volte non sembra ma ti bloccano) ti portano a capire quanto la ritmica sia importante nella cosiddetta musica psichedelica, che può attingere a qualsiasi genere musicale, a qualsiasi contaminazione.

Sia “White Oak” che “The Blue Magician’s Fantasy” si concludono con delle code strumentali, che danno più idea di avvicinamento a un rock classico, senza ovviamente esserlo. Secondo te, c’è del rock “classico” nel tuo disco?
Sì, tantissimo. Lo sento soprattutto nell’inedito, “Hopsa-Japapé”. Mi piace molto il rock classico, anche se è sempre difficile definirlo: so che magari bestemmio, ma per me i Grateful Dead sono rock classico…

Non stai bestemmiando, concordo in pieno.
Sembrerà magari un po’ snob - ma non è assolutamente così - ma tanti gruppi neo-psych, i gruppi che abbiamo oggi... non dico che non mi piacciono, però faccio fatica ad ascoltarli per tanto tempo. Quelli che ascolterei all’infinito posso contarli sulle dita di una mano. Questo perché, secondo me, non attingono a una classicità, che fa bene, in quanto è fonte inesauribile di spunti interessanti. Penso ai Grateful Dead, ai Quicksilver Messenger Service, che per me erano un rock classico, tant’è che le canzoni a cui sto lavorando per il secondo disco – ho da poco finito di scriverle, devo solo mettermi a registrarle – le sento ancora più classiche e mi piacciono di più di queste. Quindi sì, sento molto di rock classico nei pezzi.

Per dire, nella coda strumentale di “White Oak” mi sembra di sentire il riff di “Roadhouse Blues” dei Doors.
Ecco, suonerà strano, ma i Doors non mi sono mai piaciuti. Magari sì, c’è qualcosa…

...no ma appunto sono percezioni probabilmente non attinenti, ma che emergono così, come illuminazioni.
Eh, questo è bellissimo perché comunque a te ha dato una sensazione e a qualcun altro una completamente diversa.

Collegandomi a quanto dicevi prima, sul fatto che vivi in un paesino di montagna nel Parmense: la copertina è quindi una versione idealizzata e nipponica delle tue terre, suppongo.
Assolutamente, lo è.

La copertina è davvero bellissima. Sono particolarmente attento e interessato alle qualità estetiche dei dischi ed è ormai raro che rimanga colpito subito e che la sensazione persista nel tempo. La tua ci è riuscita. Ti chiedo quindi che valore dai, come artista e come collezionista, alla qualità estetica/grafica dei dischi.
Ne do un’importanza non pari alla musica, ma quasi. Ho comprato tanti dischi a scatola chiusa perché mi piaceva la copertina.

Io lo stesso! Magari poi rimango deluso dalla musica, ma rimango ammaliato dalla copertina.
Esatto. Lo tengo e lo guardo perché è un bell’oggetto. Vedo tanti gruppi, soprattutto in Italia (ed è una cosa che mi fa dispiacere, perché abbiamo tanta roba valida)…

…che si vendono male perché non propongono un feticcio fisico adeguato.
Sì, perché chi compra un disco, soprattutto un vinile, non compra solo delle canzoni da ascoltare, ma un oggetto, un…

Un quadro, quasi.
Sì. Ma per dire, sono anche un accanito lettore e pure lì l’editoria italiana si è un po’ svegliata solo negli ultimi anni. Vedi copertine di libri stranieri e sono stupende e mi dispiace che qui non si faccia altrettanto, perché per me è importante. Quando Daniel Onufer, il ragazzo che ha disegnato la copertina e suonato la batteria in “Hopsa-Japapé”, mi ha fatto vedere il risultato finale, non me l’aspettavo così bella, ha fatto secondo me un lavoro stupendo. Mi ha fatto un po’ ammattire e gli ho rotto un po’ le palle con varie prove, però alla fine ha fatto proprio un bel lavoro.

“Upupayāma” è acquistabile sugli account Bandcamp ufficiali di Cardinal Fuzz e Centripetal Force ed è disponibile nelle principali piattaforme di streaming.

 

 

Discografia

Upupayāma (2020)
Pietra miliare
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