Fast Animals And Slow Kids

Fast Animals And Slow Kids

... e veniamo da Perugia

Una delle band più incendiarie della penisola è nata nel cuore di questa, a Perugia, ed è cresciuta progressivamente, fino a riempire i live club più famosi. Suonano un alt-rock con sfumature emo-core e dalla musica non chiedono altro che un appiglio, qualcosa per difendere l'incertezza, e questo è tutto ciò che gli resta

di Federico Piccioni

È il 2010 e sono le tre del pomeriggio. In uno di quei giorni di luglio in cui il caldo stanca l’anima e il corpo delle persone, i Fast Animals and Slow Kids stanno suonando sul palco dell’Italia Wave, a Livorno. Il nome del gruppo, figlio di un cartone animato e di esigui attimi di riflessione, è la testimonianza tangibile di un progetto pensato per durare il tempo di una voglia effimera, di un amore adolescenziale, di una stagione trascorsa in una sala prove qualsiasi dell’Italia centrale. È il luglio del 2010 e non è proprio un giorno qualunque, perché i FASK suonano su un palco vero e in un festival che ospita nomi celebri. Per quattro ragazzi che ancora devono farsi prestare gli strumenti niente è scontato.

I tempi sono dilazionati. Sali, suoni quanto ti dicono di suonare e te ne vai. Puoi farlo perché hai vinto il concorso regionale, ma sarebbe il caso di non abusare del privilegio che ti viene concesso. I Fast Animals and Slow Kids completano la scaletta, poi, da dietro le quinte, arriva il segnale: è ora di scendere. I quattro hanno capito, ma sanno che potrebbe trattarsi della loro prima e ultima volta su un palco così. Non si tratta di “sfruttare l’occasione”, si tratta di godersi il momento e di divertirsi quanto gli viene concesso. Anche più di quanto gli viene concesso. Come una mamma mentre urla al figlio che è pronta la cena, lo staff dell'Italia Wave intima ai FASK di scendere subito dal palco. Pochi minuti dopop verrano trascinati fuori con la forza, gli strumenti addosso e i cavi ancora attaccati.

Inutile dire che se vuoi fare colpo su un tipo come Andrea Appino, non esiste un modo migliore di presentarsi. Gli Zen Circus presenziano come backing band di Alessandro Fiori e assistono alla performance con curioso trasporto. Al termine della rassegna musicale, Appino si offrirà di produrre il primo disco dei FASK, che intanto hanno vinto il premio di Italia Wave Band 2010 violando ogni regola del buon senso e senza sapere di essere in gara. È tutto fuorché un pomeriggio qualunque. I Fast Animals and Slow Kids tornano a Perugia con un produttore e un pacco di strumenti nuovi, gentilmente concessi dagli sponsor del festival. Tra questi ci sono una chitarra, un basso, una batteria e una testata per chitarra. Se si vuole far musica, anche gli strumenti hanno la loro discreta importanza.

Essere i Fast Animals And Slow Kids e venire da Perugia

Se si tagliasse l’Umbria in profondità, colerebbe sangue verde. È il sangue delle tiepide pianure, dei piccoli boschi, il sangue delle colline su cui i borghi e i paesi si asserragliano. Città come quelle di Perugia sono città che con soli centocinquantamila abitanti vorrebbero ergersi a capoluogo di regione e ci riescono pure. Se uno ci va e oltrepassa la cinta infame e sgarbata degli edifici moderni, si rende conto che Perugia, dagli Etruschi in poi, non se n’è mai andata. È rimasta lì, difesa dall’uomo e difesa dalla natura. Chi ne ha parlato con la bocca dell’arte l’ha spesso disegnata come un luogo misterioso e a tratti oscuro. Uno di questi è Brad Mehldau, figliastro di Perugia e del suo acclamato festival, tanto affezionato da scriverci una canzone.

Nei primi anni del duemila a Perugia non esiste solo Umbria Jazz. Non sono i novanta, ma ci sono ancora le associazioni culturali e l’Università, i centri sociali e i locali dove ascoltare ottima musica dal vivo. All’alba del duemila, a Perugia, pulsa il cuore di ambienti come il PGHC (Perugia Hardcore) e il Centro Dentro. Soprattutto, però, battono le casse di “Norman e il Presidente”, un posto che per tanti è stato - e per sempre sarà - soltanto “Il Norman”. Col tetto basso e le mura sporche, il Norman - sorto dalle ceneri del Suburbia e in piedi dagli anni ottanta - era un garage della periferia perugina, dove band come Dinosaur Jr. e Marlene Kuntz non hanno disdegnato di parcheggiarci il loro furgone. Più che una scatola di eventi, il Norman era parte integrante dell’evento stesso. La sera non si andava ad ascoltare qualcuno, la sera si andava al Norman per vedere chi suonava.

In quella Perugia, che in parte è quella di adesso e in parte è quella che adesso non esiste più, inizia la storia dei Fast Animals And Slow Kids, una storia che se fosse cristallizzata in un libro scontato e prevedibile, sarebbe raccontata dal principio, da quando Aimone Romizi faceva il liceo e suonava la batteria in due band diverse. In una di queste c’era Jacopo Gigliotti (basso dei FASK), nell'altra Alessandro Guercini (chitarra dei FASK). Nel primo caso, quel che suonano è un misto di punk, rock e hardcore, non molto lontano da ciò che le cuffie sparavano ai tempi del liceo: NOFX e Rage Against The Machine, ma anche Bad Religion e Lagwagon; nel secondo caso si tratta di alternative rock che procede sul solco tracciato da Matthew Bellamy e dai suoi Muse. Alessandro suona anche in un'altra band, insieme ad Alessio. Sono gli anni dell’adolescenza, quelli in cui, se sai suonare frequenti solo due posti e questi posti sono la scuola e la sala prove.

L'empito di riunirsi scaturisce dal desiderio di smetterla. Smetterla di prendersi sul serio e iniziare a suonare solo per il gusto di farlo. Ciò che vogliono Aimone, Jacopo, Alessandro e Alessio è divertirsi e il primo giorno in sala prove è quello in cui, chiudendo la porta, restano fuori ambizioni e sogni di gloria. Si assegnano i ruoli e si distribuiscono le casacche, come in una partitella di calcetto tra amici. Alla voce doveva andarci il più bravo, Alessio, quello che il ruolo lo aveva ricoperto nelle pregresse band e pure con discreti risultati. A porta, nascosto e più indietro di tutti, doveva sedersi Aimone, che era cresciuto con le bacchette in mano e mai aveva pensato di cantare o impugnare una chitarra. Aimone Romizi era il presidio perfetto per la porta amica ed era ovvio che si partisse così, se solo non si fossero presentate le proverbiali cause di forza maggiore, che nella fattispecie consistevano in un braccio fuori uso immobilizzato da un tutore. Le bacchette, quindi, andarono ad Alessio e il microfono ad Aimone. In fondo, nulla era davvero importante, se non divertirsi.

In quei mesi, chi segue i FASK fuori dalla saletta lo fa per amicizia o per passaparola. La band canta in inglese e si lascia apprezzare per energia ed irriverenza. Esegue “Ludwig”, “Rabbit To Rabbit” e “Icarus”, tutti pezzi suoi che non saranno mai incisi, al massimo soltanto scolpiti su nastri nascosti in reconditi scaffali che non vedranno mai la luce. La popolarità locale cresce ed è proporzionale alla voglia di esprimersi, che piano piano, progressivamente, cozza sempre di più con l'oggettiva difficoltà di farlo. Ci si diverte, ma l'inglese rende la comunicazione grossolana e limitata. Quando Aimone inizia a scrivere in italiano, a Perugia inizia a circolare il primo EP. È il 2010 e l'incisione è null'altro che un demo, con il numero di telefono del cantante scritto sopra. I cd vergini vengono masterizzati a casa e confezionati grazie all’aiuto di Luca Benni, che tra Perugia e Umbertide vivacizza la scena musicale umbra con grande gaudio della gioventù locale. Il titolo del disco è Questo è un cioccolatino e l’etichetta “To Lose La Track”. Insieme al disco i FASK regalano un cioccolatino vero, ovviamente quello più famoso e romantico del mondo. Il concetto è semplice: se il disco ti ha fatto schifo, perlomeno, ti sei concesso uno sfizio.

I FASK adottano l'adagio secondo cui la delusione non può esistere se non esiste l'aspettativa e sublimano il concetto. Quando, alla fine dei concerti, la gente fa la fila per comprarsi l’album, rimane sempre e soltanto una piacevole sorpresa. Viste le richieste, vengono stampate 800 copie in più e il 6 febbraio i FASK hanno la preziosa occasione di aprire lo show degli Zen Circus sul palco del Norman. È il tour di “Andate tutti a fanculo”, nonché il periodo in cui Appino e suoi iniziano a farsi conoscere in tutto lo Stivale. Non appena i Fast Animals And Slow Kids parcheggiano il furgone, devono fare i conti con i petardi che gli Zen Circus gli lanciano addosso a tradimento. Per loro fortuna, quella sera, si accende pure un’altra miccia. La band toscana rimane colpita dai quattro ragazzi umbri che li precedono e decide di portarsi a casa il loro EP. Dal Norman all’Italia Wave il passo è breve, un po’ come da Livorno fino alla sala di registrazione.

Autodifendersi

Forse convieni con me
che la banalità di un testo d’amore
è solo paragonabile a quella di un testo politico
punto, punto, punto.

Cavalli (Ice For Everyone, 2011) si avvale della produzione artistica di Appino e di quella tecnica di Giulio Favero, bassista del Teatro degli Orrori e reale artigiano del suono. Le registrazioni durano appena sette giorni e si svolgono vicino Lari, un gioiellino medievale alle porte di Pisa. Lì, gli Zen Circus avevano inciso “Nati per subire”. Per i FASK, che hanno alle spalle una preparazione professionale pari allo zero, è un trauma vero e proprio. Alcuni pezzi del repertorio vengono cassati, altri vengono riproposti con l’aggiunta di sette nuovi brani. A livello di distribuzione, Cavalli è un buco nell’acqua, dal punto di vista artistico, col senno del poi, non esprime la vera identità del gruppo, semmai la reprime.

Cavalli è un album irriverente, diretto e senza divagazioni, con un’ironia che fa capolino già nel sottotitolo in copertina: “il tuo album da colorare”. La trasandatezza e la leggerezza dei primi brani della discografia dei Fast Animals And Slow Kids sono più che altro un'autodifesa. Il disco d'esordio ricorda quelle persone dalla personalità indeterminabile, che hanno l'abitudine di parlare oscillando continuamente tra il serio e il faceto e rendendosi, per questo, di ardua decifrazione. Moravia diceva che le parole, quando non sono dette sul serio, escono dalla bocca attaccate a degli elastici e poi tornano dentro, come se non fossero mai state pronunciate. In Cavalli c'è già la pulsante esigenza di mettersi a nudo, di raccontare raccontandosi e il passaggio dall’inglese all’italiano ne è il sintomo più evidente. Tuttavia, questo bisogno non può dirsi ancora del tutto soddisfatto.

Gli undici brani - spogli, affilati e azzimati nella loro essenza lo-fi - riportano ai tempi dell’autobus che traghettava i liceali nelle aule di scuola e alle sere del pogo forsennato nei locali che odorano di fumo e di sudore adolescenziale. “Nervi” è una scarica d’energia ad alto voltaggio e “Cioccolatino” un antipasto dell'abilità di Guercini nel partorire riff che rimangono ingabbiati tra le pareti del cranio. C’è un po’ di Alex Turner e qualche esplosione che rimanda al Teatro degli Orrori. In mezzo a tutto questo, “Copernico” e “Guerra” sono parentesi fisiologiche, istanti necessari a riprendere fiato. La prima, nel suo schizofrenico proferire, ricorda la lucida pazzia dei Marta Sui Tubi; la seconda, apocalittica e incredibilmente distante dalle otto consorelle, è in calce al disco. Più che una canzone “Guerra” è un segnale, probabilmente un indizio, forse semplicemente un avviso. È il saluto che lascia chi se ne va preterendo un addio e biascicando un più rassicurante “arrivederci”, come a dire “tornerò... e quando succederà, suonerà all’incirca così”.

Osare, ritrovarsi e perdere tutto

E se nessuno ascolterà
e se nessuno ci vorrà,
uniti e forti
per noi stessi,
fino alla fine.

Nel 2013, la band umbra smentisce sé stessa. Naviga verso le sue colonne d’Ercole e le supera, dando alla luce un nuovo gruppo. Si chiama sempre allo stesso modo, ma è la medesima pelle di qualcosa che è cambiato e che, in un modo o nell'altro, parlerà quasi sempre d'amore.

Smentire sé stessi per autodeterminarsi, Hỳbris (Woodworm, 2013) significa innanzitutto questo ed è un solidale atto di coraggio. In una società sempre più artefatta, in cui la priorità è scegliere il modo migliore per presentarsi ed apparire, la tracotanza risiede nell'essere semplicemente ciò che si è e finalmente, in Hỳbris, i FASK si mostrano per quello che davvero sono.

I perugini non hanno una strumentazione o un impianto trascendentale, ma sono consci di avere grandi potenzialità nelle performance dal vivo. Questa consapevolezza è il motore di una volontà precisa, quella di farsi affiancare da un esperto del suono. Il nuovo sonico del gruppo sarà Andrea Marmorini (chitarrista de La Quiete), che conoscerà i FASK al Karamaski di Bologna e in poco tempo ne diventerà parte integrante. Grazie a lui la famiglia si allarga e ha inizio il rapporto con "Woodworm", che assumerà i contorni di un vero e proprio sodalizio, privo di fine e interruzioni. Il messaggio che i Fast Animals And Slow Kids spediscono all’etichetta è chiaro: hanno bisogno di lavorare come gli viene meglio, ponendo sull'altare dei sacrifici la qualità e l'accuratezza del suono, pur di celebrare il gusto dello stare insieme, di giocare, di divertirsi, di suonare e di incidere, senza essere obbligati a separare queste fasi in compartimenti stagni.

Ecco che Hỳbris, quindi, ha una produzione meno rigorosa di Cavalli. Distribuito in free download e registrato al Macchione - un casale del 1777 di fronte al Lago di Montepulciano, che diventerà, col tempo, uno dei simboli della band - il secondo album dei Fast Animals And Slow Kids nasce da idee molto più limpide del predecessore e da una consapevolezza di gran lunga più ferma rispetto a quella di due anni prima. Non è un best of di pezzi che si suonano in giro, Hỳbris è un lavoro che parla e sa parlare, se uno è in grado di ascoltare.

La simbiotica assimilazione di artisti come Fucked Up e Titus Andronicus ("The Monitor" in particolare) influenzano la gestazione di un album in cui soprattutto il folk-punk di questi ultimi assume un ruolo da protagonista. Il simbolismo della copertina con cui Hỳbris si veste - strettamente legato ai testi del disco - sembra un omaggio ai Neutral Milk Hotel ("In The Aeroplane Over The Sea"). A dirla tutta, l’esordio di “Un pasto al giorno”, nel suo iniziale incedere - classica, organo, tempo dispari e archi devoti a brillanti intuizioni melodiche - non sembra neanche così lontano dalle atmosfere indie-folk della band di Boston. Il trittico iniziale è coerente, compatto e fatto della stessa materia. “Fammi domande”, con un palm mute che vuole ricordare gli Who di "Baba O’Riley", per come si innerva potrebbe sembrare una B-side dei Killers agli esordi; i riff di chitarra e i dilatanti fiati di “Combattere per l’incertezza” si mescolano e soffiano vita su un atavico flusso di energia. La musica dei Fast Animals And Slow Kids è perfettamente e miracolosamente sé stessa, tanto che viene da chiedersi se questi ragazzi siano gli stessi che hanno dato alle stampe Cavalli.

“Dove sei” - poco suonata dal vivo, e particolarmente apprezzata da chi l’ha scritta - è una canzone sulla famiglia, con palesi riferimenti autobiografici - i Lego, su tutti, costantemente presenti nell'infanzia del cantante. La sua posizione all'interno dell’album la trasforma in una pista per il decollo. Il suo feedback finale è la spinta per un brano che, col tempo, diventerà l’inno del gruppo perugino.

“A cosa ci serve”, nel suo roboante incedere, sembra proseguire per inerzia e galleggiare in aria. Questa canzone non può essere immaginata senza l’esecuzione dal vivo, giacché non può esistere live senza “A cosa ci serve”. Lo stesso incipit, ripetitivo ed ipnotico, sembra essere pensato per durare all’infinito. Pare messo lì per parlarci sopra, per accogliere un boato, per ospitare la presentazione di una band o per entrarci dentro. Per farci qualsiasi cosa. Alla fine, come sempre, Guercini se ne serve nel modo più efficace che ci sia: arpeggiandoci sopra. “Fu finalmente un vero volo e non una semplice planata”, disse Orville Wright alla fine del suo primo viaggio nell’aria. I FASK potrebbero dire lo stesso. “A cosa ci serve” è volare su una storia d’amore finita, mirando dall’alto il paesaggio selvaggio del centro Italia. Analizzare la fenomenologia di una corrente artistica o di una sua singola espressione equivale a studiarne il contesto storico, a livello macroscopico e a livello microscopico. Ebbene, il lato più interessante dei Fast Animals And Slow Kids è il loro viscerale, fiero, orgoglioso e quasi onanistico attaccamento al territorio umbro: rurale e irregolare, mistico e primordiale. “Mi troverai marcio in un lago”, si dice sul finale, trasportati dai fiati. Quel lago, con le sue tre isole, è il Trasimeno, poco profondo eppure così esteso, fin troppo esteso per una regione tanto piccola. Un po' come un dolore troppo grande per un uomo solo.

Se “Farse” è stata scritta per prima - e oggettivamente è quella che collima maggiormente con il sound degli esordi -, “Maria Antonietta” è una delle cose più crude che i Fast Animals And Slow Kids abbiano mai partorito, nel testo quanto nell’arrangiamento. È una canzone sull’amarsi, sul farsi male e sul sottilissimo confine che separa i due momenti (“io morivo e invece davo morte”). A celarsi dietro il nome fittizio della ragazza è un vecchio rapporto amoroso, dal quale chi canta ne esce, alfine, un moribondo carnefice.

Tutto quello che rimane di Hỳbris, poi, è un'estesa riflessione sull’improcrastinabile scorrere del tempo, la parola più utilizzata dai Fast Animals And Slow Kids in tutta la loro discografia. Imperversa l’utopica concezione della realtà come immobile (“Calce”), l'essenziale immagine di abeti che, con il passare degli anni, crescono in altezza, ma restano sempre uguali, a differenza degli uomini e delle band (“Canzone per un abete, parte II”). Rimangono, infine, gli stordenti e abbaglianti fari dei treni in transito, che passano per non tornare mai più, costringendo chi li vede arrivare a scelte estemporanee (“Treno”).

Hỳbris cattura critica e pubblico. I FASK partono per un tour che alla fine conterà più di cento date. Va davvero tutto bene. Troppo bene evidentemente, perché qualche Dio, alla fine, quella navigazione oltre i confini del mondo gliel'ha fatta pagare . Pochi giorni prima del live al Circolo degli Artisti, i Fast Animals And Slow Kids rimangono orfani di tutti i loro strumenti. In una ordinaria nottata di inizio maggio, tra chi dorme e chi non ci riesce, c'è anche chi si intrufola nel loro furgone - parcheggiato in una strada di Arezzo - e lo lascia spoglio. Il suo vuoto è quello di tutti. Se si vuole fare musica, anche gli strumenti hanno la loro discreta importanza.

All'indomani, la band pubblica un comunicato, trasudando un dolore che tratteggia i contorni di un triste e definitivo commiato. Si scatena un vero e proprio passaparola e i FASK, in un momento così difficile, hanno la possibilità di rendersi conto del seguito che hanno accumulato e della moltitudine di colleghi che si stanno stringendo in un sincero ed empatico cordoglio. Perfino gli Dei si rendono conto di averla fatta troppo grossa e siccome non si rubano tutti quegli strumenti, se poi non si ha intenzione di rivenderli, l’autore del furto viene rintracciato e pochi giorni dopo, dietro la stazione di Arezzo, viene rinvenuta una tomba. È una fossa comune di strumenti musicali sommersi dalle sterpaglie. Potrebbe trattarsi di un funerale, ma non lo è. È esattamente il contrario di ciò che significa morire.

Lasciarsi andare un po'

Saremo amici,
te lo prometto

Il terzo album della band nasce mentre Hỳbris viene portato in giro per l'Italia. È cupo, a tratti tragico, certamente il più buio dell’intera discografia. C’è la morte, c'è il buio e c'è il silenzio. C'è il freddo dei posti inospitali, dove l’atmosfera è ancestrale e il pensiero dell’uomo cova fascino e paura. Se tra la fine di Cavalli e l'inizio di Hỳbris c'era un filo a legare tutto, Alaska e il suo predecessore danno vita a un vero e proprio connubio, tanto che il primo potrebbe chiamarsi “Hỳbris Volume 2”, nonostante la parola d’ordine, stavolta, sia “perfezionare”, anziché “osare”.

Urlare ed espellere come unica via possibile per raggiungere la redenzione, il solo strumento utile a narcotizzare il dolore, l'unico modo per diventare più forti. Come in Hỳbris, i Fast Animals and Slow Kids sono generazionali, ma a-politici. Non rappresentano nessuno al di fuori di loro stessi e non nutrono alcun desiderio di rivincita sociale. Chi li definisce punk-rock mette loro addosso un vestito che non indossano. A parte alcune influenze musicali, di punk nella loro musica c’è ben poco.

Ciò che inizia con "Overture" e termina con "Calci in faccia" è l'intervallo più riuscito nell’intera discografia della band, una parentesi dove si riesce a dominare il talento, anziché assecondarlo. Se fosse composto da un paio di canzoni in meno, Alaska sarebbe un album pressoché perfetto. Per chi, nel 2014, ama l’emo-core è manna dal cielo e i ragazzi italiani che stanno ascoltando gli Hotelier sanno di avere qualcosa di nostrano che si avvicina a “Home, Like Noplace Is There”, pur odorando di Appennini anziché di foreste del Massachusetts. Aimone sputa il sangue dalla gola per non farlo uscire dal cuore e “reagire al presente”, in estrema sintesi, significa questo.

Qualcuno preme play e stavolta è la cavatina di Alessio Mingoli ad aprire il sipario e a far partire una lettera di scuse che si intitola “Overture”. Nel mittente potrebbe esserci scritto Explosions In The Sky o Mogwai - gli archi iniziali ricordano le atmosfere dell’inquietante “Les Revenants”, uscito nello stesso anno come colonna sonora dell’omonima serie tv. Sull’imperterrito giro di basso, si stagliano archi e arpeggi di chitarra classica come creste montuose che squarciano la linea dell’orizzonte. Non manca la voce di Aimone Romizi, lontana e contrita, quasi a mettere le mani avanti dal primo istante. È semplicemente mortificato per tutto il malessere che racconterà dopo e il dopo inizia con “Il mare davanti”, che è alle porte del disco, ma potrebbe fare da sottofondo ad un film nel suo catartico finale. Da umbri non si può descrivere né parlare di mare, ma si può usarlo come metafora. Per questo “Il mare davanti” è tutto ciò che ancora deve arrivare, un pezzo sul futuro e sul senso di inadeguatezza che si prova pensando di dover affrontare il domani senza alcuna energia in corpo (“non ho paura del mare davanti/ma senza i miei denti/ho solo rimorsi”). Fortemente evocativa e intensamente cinematografica - il suo titolo, in origine, era “Soundtrack Punk”-, la quarta canzone di Alaska potrebbe echeggiare durante una battaglia; come chiosa allo sbarco in Normandia, ad esempio, o forse, più appropriatamente, al calar di quel giorno in cui Annibale, quasi venti secoli fa, trucidò migliaia di romani tra i canneti del Lago Trasimeno.

La successiva “Come reagire al presente” è un corpo stanco che si lascia abbandonare, perché dopo la violenza può andarsi avanti solo per inerzia. Le primissime registrazioni del brano avevano come titolo provvisorio “Thunder FASK”, in onore di “Thunder Road” di Bruce Springsteen, da cui Guercini ha tratto ispirazione. Una pura e semplice canzone rock, la più cantabile del disco, che si dilata nel ritornello e che disvela a cos’è che fa da cornice la piccola finestra immortalata nella copertina del disco: non semplicemente il Lago di Montepulciano, ma una fase della vita, un spazio temporale ben preciso: i vent’anni.

Alaska è di gran lunga l’album più riflessivo prima di Forse non è la felicità. Gli archi di “Coperta” stanno agli altri strumenti come lo scheletro al corpo umano. “Lo sguardo del ritorno/puro romanticismo/disprezzo fra la nebbia/i ricordi che non voglio”: un urlo come questo è equiparabile all’atto di raccontare una storia d’amore senza dire niente. Sono tre minuti in cui le viscere si contorcono fino alla fine secca, decisa, puntuale, come una porta che sbatte dopo l’ennesima recriminazione. Poi il silenzio. Alaska è impotente nel curare, ma efficace nell'alleviare. È una spalla su cui piangere e un corpo amico sul quale appoggiarsi. Un'amicizia che dura quaranta minuti e che ti invita a soffrire insieme.

Il confronto tra i videoclip ufficiali di queste ultime due tracce – concettualmente e stilisticamente agli antipodi - fa emergere il rapporto confuso e conflittuale che esiste - ed è sempre esistito - tra la band e questa forma d’espressione artistica, per la quale i Fast Animals And Slow Kids non hanno mai nutrito un interesse trascendentale.

“Te lo prometto”, a metà del disco, è un’introduzione a un pezzo dalle tinte emo-core. Vive su un refrain di chitarra e si lascia trascinare dalla batteria come una biga con i cavalli. La fine di “Con chi pensi di parlare” è il momento esatto in cui ci si chiede se ad Aimone Romizi sia rimasto ancora un po' di fiato in corpo, almeno quello sufficiente ad andare avanti. “Odio suonare” - paradossalmente - è la risposta affermativa.

Il resto completa la formula ripetendola, fino a una chiusura che riporta esattamente al punto di partenza, rendendo Alaska nient’altro che una figura circolare. C’è il rumore di un nastro che arriva alla sua fine e se si hanno ancora le forze, si gira la cassetta e si riparte dal lato B. La prima traccia si chiama “Overture”.

Come un asteroide, ma senza far rumore

Dopo aver suonato allo Szieget ed aver riempito l'Alcatraz di Milano, i Fast Animals and Slow Kids decidono che è ora di fermarsi, senza decidere e senza sapere per quanto. È durante questa pausa che per Aimone Romizi arriva l'Alaska. Quella vera.

Tornare in Umbria significa tornare a guardare negli occhi Alessandro, Alessio e Jacopo per confessare, ancora una volta, che senza suonare non si può stare, soprattutto quando fiumi di parole sono già straripati e aspettano soltanto di essere cantati. Gran parte dei testi di Forse non è la felicità (Woodworm, 2017) escono proprio durante il viaggio in solitaria tra Washington, Montana e Alaska, riposando le membra tra divani sconosciuti e stanze piene di cani.

Ad ogni regola, naturalmente, corrisponde la sua eccezione e stavolta si chiama "Annabelle", partorita durante il tour del predecessore e dopo reiterati ascolti di "Tumbling Dice" dei Rolling Stones. Come una celebrazione pseudo-catulliana di una figura femminile - che pencola tra i lineamenti di una madre e quelli di una femme fatale - "Annabelle" è una storia d’amore che sembra finita, ma che finita non è, se ricordare significa amare ancora un po'. “Quando colpisci/so già cosa provano gli altri”, dice Romizi, smarrendosi in un brumoso sentimento, che assume i connotati della gelosia più che dell’amore liliale: “un bacio più intenso/la gonna che si sfila lenta/le mani sul viso/provo ancora di tutto qui al buio”.

Prima di “Annabelle”, "Tenera età” incalza con toni epici, strattonando l'anima con tastiere ed archi e trascinando l’immaginazione in declivi deserti, lande sconfinate, luoghi in cui i fiumi scorrono veloci e si riversano in mare come se la terra si inclinasse un po', derubricando l’individuo a un essere microscopico. "Grazie natura/per avermi reso/essere incerto/che si può godere/la tua creazione/la tua grandezza/e il rifiuto al dovere/una quercia che non ha più età/la sua tenera età". Semplice, nostalgica e agorafobica, “Tenerà età” esemplifica al meglio il legame intenso che c’è fra la natura e i testi di Forse non è la felicità, ma anche fra l’ispirazione di Romizi e le singole scene di vita quotidiana: la visione di una quercia e di una signora con addosso una pelliccia, piegata su sé stessa per il freddo. Ecco ciò che appunta il cantante nel suo quaderno, all'altezza di Seaword, in una fermata dell’autobus, nel bel mezzo dell’Alaska (“Tenera età”) oppure l'immancabile rito di stringersi bene i lacci delle scarpe, all'inizio del percorso verde di Ponte Valleceppi, appena sotto Perugia, ogni volta che sta per iniziare una nuova corsa (“Asteroide”). Ad ogni live, in ogni performance, il cantante confessa di ritrovarsi davanti una collezione di polaroid in cui c'è impresso tutto questo e tanto altro, di colore e forma diversa.

Non a caso Forse non è la felicità è un disco che contiene anche silenzi e dinamiche  dallo spettro più ampio rispetto agli altri album. Appare più colorato, pur servendosi di una tavolozza composta da solo scuri e raccoglie uno spazio temporale lungo e dilatato, tempi che i Fast Animals And Slow Kids non si erano mai concessi. Per questo è anche il più vario di tutti e il più ragionato. Nello stesso brano possono inserirsi contesti diversi, stagioni dell’anno differenti, stati d’animo contrastanti, testimonianza di una gestazione meno stringente del solito. In Forse non è la felicità ci sono testi che hanno trovato l'abbrivo in un dato giorno, ma che sono stati chiusi solo molti mesi dopo.

Il secondo singolo, che dà il nome all’album e che lo chiude, è probabilmente la canzone più bella che i Fast Animals and Slow Kids abbiano mai scritto. Un pezzo stanco, lasco come i passi di un uomo sulle nevi del nord, durante il profondo inverno; stanco l’uomo e stanche le chitarre pesanti che procedono su un rullante che dà di scalpello per erigere statue in onore degli anni novanta. In quel secondo in cui le sei corde incespicano, prima dell’attacco, si materializza l’attimo in cui si sa di dover andare, ma non si sa bene come né dove. Poi le gambe si fanno forza e i piedi ricominciano a pestare, perché com’è che si cammina non lo si scorda mai. Per arrivare al ritornello, si deve aspettare la fine, ma è una piacevole attesa. Se il Dio del rock avesse avuto in mano ancora un po’ d’argilla avrebbe impastato insieme Black Rebel Motorcycle Club, Fucked Up e The Boss: il risultato sarebbe stato lo stesso.

"Capire un errore" torna a ripescare nel blues-rock dei Rolling Stones, mentre "11 giugno" si perde in una coda gotica. “L’abitudine fra noi/è la piaga nel mio petto”, dice Romizi in “Montana", scritta su un kayak in mezzo ad un lago dell’America del Nord, dove il cantante ha trovato la preziosa compagnia di un pescatore locale. In "Giorni di gloria" c'è la lotta politica come esperienza in sé, al di là del colore e delle ideologie, del giusto e del meno giusto. Ma è pur sempre il descrittivismo la caratteristica primaria di Forse non è la felicità. È palpabile in “Ignoranza” - vicina all’alternative rock dei Foo Fighters -, è palese nella già citata "Annabelle" e lo si coglie leggendo i testi di qualsiasi altro brano.
Ascoltando il disco è impossibile non pensare, anche solo per un istante, ai febbrili ululati di Eddie Vedder e alle ancestrali atmosfere del debordante "Into The Wild" (2007). Proprio in merito alla felicità appuntava qualcosa Christopher McCandless, in Alaska, dentro un autobus a miglia di distanza da chiunque altro. Uno che nel fallimento e nella sofferenza, poco prima di morire, ha avuto la rara, lucida ed encomiabile capacità di decifrare l'errore e trarne un insegnamento, l'ultimo: condividere sempre.
Difficile dire cosa sia la felicità. Di sicuro è un infinito seguito dalla parola "insieme" - e questo i Fast Animals and Slow Kids lo sanno bene - ma qual è questo infinito? Si potrebbe citare Tolstoj - come fece McCandless. Si potrebbe errare tra gli anfratti della ragione, alla ricerca di una risposta. Oppure si potrebbe raccontare la storia di quattro ragazzi che, dopo aver perso tutta la loro musica, l'hanno ritrovata intatta, in un fosso della Toscana, e hanno ricominciato a suonare. Meglio di prima e più forte di prima. Forse è anche questa la felicità.

Con Animali notturni (2019), invece, mischiano le carte e ne aggiungono di nuove, preannunciando già dal titolo che il loro lavoro più immediato è anche quello più oscuro, più cupo. Diretto e lineare, il disco è ordinato perché racchiude l’ordine della notte, l’ordine del formato-canzone (strofa-ritornello, senza alcun complesso di inferiorità) e l’ordine del suono, che curato come ora non lo è stato mai. Le mani di Cantaluppi (Thegiornalisti, Ex-Otago, Bugo) - le più chiacchierate dell’indie nostrano - sono ferme come quelle di un chirurgo sapiente, che opera passo dopo passo, con l'obiettivo saldo in mente. È quindi anche grazie a lui che l'album è compatto, prodotto egregiamente e suonato bene. Talvolta è diretto come un pugno in faccia, talvolta come un calcio nella bocca dello stomaco, tanto che ascoltandolo viene da chiedersi se il sapore del dolore rimanga sempre lo stesso o cambi a seconda dell’origine: la solitudine (“Animali notturni”, “Cinema”), l’ego(t)ismo (“L’urlo”), la consunzione di un amore (“Dritto al cuore”, “Non potrei mai”), tutti temi già cari ai Fast Animals and Slow Kids, ora declinati in un linguaggio differente.
Nella metà migliore dell’album la chitarra e il piano di “Cinema” squarciano il silenzio come una canzone dei The National. “Ho solo due emozioni” canta Matt Berninger in "Don’t Swallow The Cap", “paura prudente e trapassata devozione”. Su quella stessa paura Aimone Romizi sembra gettarci sopra le parole di “Radio Radio”, un altro sincero manifesto d’intenti, gemello eterozigota di quello contenuto in “Canzoni tristi”, che con poche parole racconta tanto di "Animali notturni" (“sai/ per tanti anni/ pensavo fosse alternativo fare il punk/ ma oggi/ ho trent’anni/ vorrei soltanto dire quello che mi va”). Perderanno un po’ di fedeli, i Fast Animals And Slow Kids, e ne conquisteranno molti altri, che forse alle note di “Coperta” o “Combattere per l’incertezza” si sarebbero messi le mani nelle orecchie, ma che ora potrebbero sorprendersi nell'osare, curiosando tra le discografie di Japandroids, Death Cub For Cutie, The Replacementes e Bruce Springsteen. La chitarra non se n’è andata, ma più che sconquassare stavolta disegna forme complesse, come nel florilegio chitarristico di "Novecento", ballata da sipario, che parte un po’ come facevano i Travis per poi arrampicarsi su passaggi armonici da maggiore a minore che i perugini sembravano non aver mai percorso prima d'ora.

Il 17 settembre del 2021 è il momento del sesto album dei FASK, si intitola E' già domani, e rappresenta alla perfezione una band oramai adulta: sia anagraficamente, perché oramai i ragazzi hanno scavallato i trenta e un mondo di nuove responsabilità si schiude davanti, sia artisticamente, perché la fan-base è cresciuta nel tempo, e i “quattro gatti” di dieci anni prima sono diventati i “qualche migliaia” che possono riempire un palazzetto. Avrebbero potuto vivacchiare di rendita, imporsi nell’immaginario nazional-popolare come la band che sapeva rifare meglio di tutti gli anni 90, perseverare sull’incredibile capacità di generare un impatto in grado di togliere il fiato, e invece no, hanno scelto di sterzare, con gradualità, evitando di generare scossoni indigesti, proponendo lavori non sempre in linea con le aspettative dei fan, a tratti spiazzanti, ma adeguati ad imporli come una delle poche formazioni alt-rock simbolo della loro generazione. E’ già domani parte con i morbidi arpeggi di una chitarra acustica, suoni artigianali, d’altri tempi, sui quali s’accomoda la voce di Aimone Romizi, perfetta nel ricamare una narrazione che non cela l’ambizione di voler rappresentare con grande sincerità gli eterni ragazzi della sua età.
Da “Stupida canzone” emerge la sana energia che tutti si aspettano da un lavoro dei FASK, così come si scorgono tutti i classici ingredienti tipici del loro viscerale approccio: grinta da vendere, l’urgenza di comunicare, l’andatura epica, la capacità di raccontare storie universali, e quei ritornelli killer che sanno come far sentire un ragazzo (ma anche quelli un po’ più grandicelli) al centro del mondo. Ma se state cercando la scossa tellurica di “Nervi” o le invettive di ”Troia”, beh, questa volta avete sbagliato indirizzo. I FASK del 2021 ci tengono a dimostrare con decisione di essere un’entità diversa: la produzione di E’ già domani li rende più “radiofonici”, termine che vuol apparire tutt’altro che dispregiativo. Una direzione “pulitina” impressa da chi vuole almeno provarci a vivere della propria arte, ma senza rinnegarsi, schivando qualsiasi cliché, evitando di scrivere sempre lo stesso disco. Le novità passano anche attraverso collaborazioni inattese (quella già nota con Willie Peyote in “Cosa ci direbbe”), qualche  interferenza wave (l’incipit di “Come un animale”) e l’arrotondamento degli spigoli in brani che meriterebbero ampi spazi nelle playlist dei network radiofonici (“Portami con te” appare esemplare in tal senso).

Li ho incontrati, a Torino, Aimone e Alessandro (Guercini, il responsabile delle chitarre), in quei pazzeschi giorni del TOdays 2021: non erano là per esibirsi, ma partecipavano a un panel, seguendo però con estrema attenzione i concerti dei colleghi. Li ho trovati spiazzanti anche di persona: veri, disponibili, acuti, con una visione ben chiara in testa, trasudando una lucidità che dall’altro lato del palco (quello del pubblico) si può soltanto immaginare. Giunti al non proprio scontato traguardo del sesto album, possiamo riconoscergli un posto fra le grandi band italiane di sempre. E mentre lo scriviamo, è chiara la sensazione di essere ancora all’inizio di una bellissima storia…


Contributi di Claudio Lancia ("E' già domani")

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