Giardini di Miro'

Giardini di Miro'

Oltre il post-rock

I Giardini di Mirò hanno contribuito allo sviluppo della scena "indie-rock" italiana a cavallo tra fine Novanta e nuovo millennio. Dal post-rock degli esordi, la loro musica si è progressivamente evoluta, assorbendo influenze, soprattutto anglosassoni, ma senza rinunciare a una sua peculiarità tutta italiana. Oggi, per i cinque di Cavriago, è il momento della maturità

di Matteo Lavagna

I Giardini di Mirò sono cinque ragazzi emiliani che si stanno dedicando dalla fine dei 90 alla ricerca di nuove forme sonore, piuttosto inusuali per il panorama italiano, al punto che non pare fuori luogo, nel loro caso, parlare di post-rock. La musica della formazione di Cavriago, tuttavia, ha anche una sua peculiarità "mediterranea" che la allontana da possibili modelli anglosassoni. Le parti di chitarra, lineari e melodiche, partono quasi sempre da arpeggi avvolgenti e si evolvono in una serie di esplosioni a catena, dove emergono brandelli ben metabolizzati di Sonic Youth e suggestioni psichedeliche. Una formula che ha subito negli anni progressive contaminazioni ed evoluzioni.

Dopo l'esordio omonimo del 1998 che li porta alla ribalta della scena indie italiana, è grazie a Rise And Fall Of Academic Drifting (2001) che la band di Cavriago trova la definitiva consacrazione nazionale. Un lavoro finemente costruito e armonico in ogni sua componente. Il saper fondere melodia e sonicità in un tutt'uno elettricamente perfetto e sofferente appare, sin dall'ascolto della morriconiana "A New Start", come il vero tratto distintivo del gruppo.
Certamente, è uno di quegli album che richiede per essere apprezzato sotto ogni suo profilo un ascolto attento e, soprattutto, rilassato. Solo così è possibile farsi trasportare dalle cavalcate oniriche di "Beauty Tape Rider" o di "Pearl Harbour". Rispetto ai lavori originari l'ingresso di un violino e di un violoncello ha contribuito inoltre a rendere gli arrangiamenti molto più sinfonici e limpidi, eliminando apparentemente la patina elettrica che aveva contraddistinto i due precedenti Ep, "Gdm" e "Iceberg". Apparentemente, certo, perché le accelerazioni possono fare capolino con tutta la violenza del caso come in "Trompso is OK" applicando una spinta di parecchi g al lettore. Molti si sono già posti il problema di catalogare i GDM nello stretto giro di parentela coi Mogwai e con gli altri maestri del post-rock europeo e nordamericano come, ad esempio, i Godspeed You Black Emperor!. A una analisi attenta ci si rende conto, invece, che entrambi gli accostamenti sono limitativi, se si esce dalla tendenza restrittiva che vuole catalogare esperienze strumentali così diverse nei confini di un unico insieme, quello del post-rock. Semplicemente i Giardini di Mirò, e forse in questo sta la loro vera originalità, hanno saputo costruirsi una propria dimensione sonora senza essere troppo facili prede delle soniche distorsioni alla Mogwai o delle splendide tentazioni epiche dei GYBE!.
Da segnalare anche la collaborazione di Matteo Agostinelli degli Yuppie Flu, che presta la sua voce nella dolcissima e melanconica "Pet Life Saver" e del cantante dei Tram, interprete di "Little Victories" ballata simbolo dell'album. La definitiva conferma di quanto puntino in alto i Giardini di Mirò e di quanto sia internazionale il panorama della nuova musica italiana, sempre più rivolta, e ben accolta, verso il mercato estero.

Al momento dell'uscita del successivo Punk... Not Diet (2003), i Giardini di Mirò erano attesi al varco da tutti gli appassionati di indie-rock "made in Italy". E, come nel caso degli Yuppie Flu, l'attesa è stata ripagata da un disco per certi versi sorprendente.
I Giardini di Mirò hanno saputo rinnovarsi senza snaturarsi, hanno saputo scrollarsi di dosso gli scomodi paragoni certa critica ha subito tirato in ballo (Mogwai, GY!BE, ad esempio), hanno intelligentemente allargato i loro orizzonti, abbracciando anche la forma canzone in alcuni casi, inserendo parti di elettronica minimale e, soprattutto, servendosi maggiormente del canto. Un canto che dà maggior equilibrio alle composizioni e le arricchisce di sfumature inaspettate.
Ed è subito la voce a farla da padrone dapprima nella traccia iniziale, "Too Much Static For A Beguine" dove il caldo recitato di Ronnie James ci dà il benvenuto, sostenuto da un'atmosfera sospesa e sognante, poi nella stupenda "The Swimming Season", dove il cantato di Alessandro Raina ci accompagna sino a quello che, per il sottoscritto, è uno dei momenti più alti dell'album, e cioè quell'intrecciarsi mozzafiato di tromba, clarinetto e sax , che dimostra come le influenze di questo album vadano ben oltre il ristretto mondo dell'indie-post rock.
È poi la volta del singolo "Given Ground (oops... Revolution On Your Pins!)" con la voce di Raina sempre a dominare la scena, sostenuta dagli eterei cori di Kaye Brewster (già presente su "The Soft Touch Ep" dello scorso anno).
C'è una sottile tensione che pervade quasi tutto il disco e che trova libero sfogo in uno dei brani migliori, "Connect The Machine To The Lips Tower *Be Proud Of Your Cake*": un brano "vecchio stile", circolare, rabbioso e sofferto, tra le cui trame trovano spazio le parti elettroniche di Herrmann, minimali e disturbanti.
L'elettronica dà il suo apporto anche nelle seguenti "Once Again A Fond Farewell" e "The Comforting Of A Trasparent Life" e, in questo caso, Styrofoam dimostra come le barriere tra post-rock e indietronica possano essere intelligentemente eluse. Si ritorna, poi, a un approccio più classico, quasi folk, in "When You Were A Postcard", con un banjo in sottofondo e arpeggi di chitarre che sembrano sempre più un tutto, un'unica linea melodica che colpisce dritto al cuore l'ascoltatore.
A chiudere, le due tracce più particolari e bizzarre: "Last Act In Baires", quasi una ninna-nanna, con le sorelle Brewster al canto, e la conclusiva "Dolphins Are Here To Watch Your Blue Blood Flow", un brano che può ricordare i L'altra per l'uso di due strumenti classici quali violino e piano.

I Giardini di Mirò continuano, quindi, il loro cammino verso la loro personale idea di musica e lo fanno in maniera convincente, cambiando le carte in tavola, pur mantenendo una coerenza di fondo con i precedenti lavori che, pur essendo ottimi, forse pativano la mancanza di strutture più elaborate; strutture che si rivelano equilibrate e mai pesanti. I Giardini di Mirò guardano (giustamente) al di là dei confini italiani, anche se finalmente qualcosa si sta muovendo anche qua, e lo si evince dal sempre crescente pubblico presente ai loro concerti, così come a quelli di altri gruppi indie rock italiani quali Yuppie Flu, Three Second Kiss, Julie's Haircut etc..

A distanza di tre anni dal fortunato Punk... Not Diet! , i nostri tornano sulle scene con l'Ep North Atlantic Treaty Of Love, originariamente diviso in due parti (uscito su Lp sempre per 2nd rec.) e qui unito in un solo cd. Tante cose sono successe nel frattempo: il canto di Alessandro Raina è sparito per lasciar posto a quello di Jukka Reverberi e Corrado Nuccini, Luca Di Mira ha pubblicato un disco solista molto buono a nome Pillow, tra suggestioni glitch e elettronica ambientale, il già citato Corrado Nuccini ha lavorato duro al suo progetto di hip-hop in odor di Anticon (in uscita a breve) e, infine, i Giardini di Mirò sono stati anche impegnati nelle vesti di produttori per il disco dei Zucchini Drive, duo hip-hop belga che si è avvalso dell'aiuto dei cinque di Cavriago, appunto, oltre che di Markus Acher dei Notwist, Alias, Populous e altri.
Si parte forte con "Othello", che vede un beat di matrice sorprendentemente dance fare gli onori di casa per poi trasformarsi in impalcatura per una suggestiva cavalcata carica della malinconia tipica della band: non mancano, infatti, gli intrecci di chitarra che tanto abbiamo amato, così come gli archi strappalacrime e i tappeti di synth che disegnano aperture in luoghi invero claustrofobici e scuri, esaltando la natura inquieta del brano. Novità assoluta: la voce di Jukka Reverberi, tra canto e spoken word , a recitare versi de "L'Otello" di Shakespeare.
Dicevamo dell'aiuto dato al duo belga Zucchini Drive in fase di produzione, ed ecco "Little Cesar", quasi un favore ricambiato da uno dei due Mc, Tom de Geeter, che riversa rime su un brano che, se vogliamo, ci ripropone i Giardini di Mirò di sempre, tra Mogwai e Slowdive: il matrimonio tra alt-hip-hop e post-rock (scusate l'uso di queste inascoltabili e illeggibili etichette) s'ha da fare ancora una volta, dopo aver ascoltato i cLOUDDEAD sugli Hood, Alias su Styrofoam etc... Invaghitisi della scena elettronica tedesca in tempi non sospetti, i cinque di Cavriago propongono in questo brano la loro versione di uno stile sì inflazionato di questi tempi, ma fascinoso e accattivante; il risultato è buono e lascia sperare in sviluppi futuri interessanti.
Non pensiate però che questo Ep sia solo un salto in un futuro prossimo, perché il passato è dietro la porta e bussa con i rintocchi di "Blood Red Bird" di Bill Callahan aka Smog, brano che i Giardini di Mirò eseguono da anni durante i loro live e che si avvale della voce dell'ex Alessandro Raina che, nel finale, azzarda una citazione de "Il cielo in una stanza" di Gino Paoli: due canzoni eccezionali coverizzate in una sola traccia. Olè!
La seconda parte del lavoro è tutta dedicata ai remix di Apparat, che strazia "Once Again A Fond Farewell" con le sue rasoiate di techno astratta, di Alias, la cui principale "colpa" è quella di trasformare "Given Ground" nel "solito" pezzo di Alias, e degli Hood.
Un remix, quello di questi ultimi, semplicemente meraviglioso: "The Swimming Season", già uno dei brani migliori di "Punk... Not Diet!", esposta a una pioggia di delay e riverberi e attraversata da parte a parte da reverse incontrollati.
A chiudere, la versione di "Last Act In Baires" ad opera di The Sea, probabilmente il brano più debole del lotto, causa la riproposizione di cliché ormai abusati che lo rendono un buon sottofondo, ma nulla più.

L'atteso nuovo lavoro sulla lunga distanza, Dividing Opinions, esce nel 2007. E in due minuti (i primi) fa già capire molto: certe cose, ora, Jukka e soci le vogliono dire senza intermediari, c'è l'urgenza di metterci la faccia e vedere l'effetto che fa. Ed è la cosa più lampante, che poi si traduce anche in un impatto sonoro decisamente meno crescente sulla lunga distanza: si va subito su di giri per frenare quando sarebbe lecito aspettarsi che il motore esploda. E invece non esplode, lasciando nel limbo una chitarra sporca e sola.
Sulla sua coda ne arriva un'altra a introdurre "Cold Perfection", dove è ancora Jukka a cantare, dove la batteria è dritta e il piglio è quello della canzone pop, naturalmente imbastardita sul finale con un beat electro e attraversata per tutto il suo corso da questo senso di mancanza, sempre dietro l'angolo.
Così come ci sono i Blonde Redhead di "Misery Is A Butterfly" dietro "Embers": quel senso di linearità circolare, la voce un po' nasale di Corrado a ricordare quella di Amedeo Pace, le parti orchestrali gentili.
Archi che proprio dolci non sono in "July's Stripes", anzi: la tensione sale, le chitarre si fanno cupe. Qui fanno capolino i Godspeed You Black Emperor, da sempre amore dichiarato dei ragazzi di Cavriago.
Questa volta però il gioco dei rimandi non vuol essere destabilizzante "all'italiana" perché, diciamolo, il nostro, a volte, è un po' un parlare di musica per somiglianze, come a dire che se ci sono influenze dichiarate o esplicite, la proposta perde automaticamente potenza e bellezza. È un cercare corrispondenze nostrane ai grossi nomi inglesi/americani, vedere queste realtà crescere per poi vanificare un po' i loro sforzi così, paragonando in modo distruttivo, volgarizzando il senso stesso dell'ascoltare un disco o dell'andare a un concerto. Ed è quasi ora di cambiare direzione.
Allora, questo disco è intriso di amore per alcune band, dai Sonic Youth (la conclusiva, lunga e dal tambureggiare tribale "Petit Treason") ai Blonde Redhead, dai Godspeed You! Black Emperor agli Slowdive (il singolo "Broken By" ricorda molto le atmosfere di "Souvlaki"). Sappiatelo. Ci sono momenti di differente intensità, cose riuscite, belle, profonde. Altre un po' meno.
Alla prima categoria appartiene di certo "Self Help", brano che vede la collaborazione di Glen Johnson dei Piano Magic e cresce man mano che i secondi passano, grazie anche ai bellissimi arrangiamenti di archi che rispondono alle inflessioni umorali e romantiche della voce di Glen. Una canzone. Una bella canzone.
Forse l'unica nota non dico stonata, bensì fuori dal contesto è "Clairvoyance", annacquata da arrangiamenti un po' pesanti, per non dire barocchi. È, in pratica, l'unico momento "debole" di questo "Dividing Opinions", album maturo e infine riuscito, dove la band di Cavriago abbandona le incertezze sul da farsi di "Punk... Not Diet!" e compie delle scelte chiare e decise, mettendosi in discussione senza però perdere di vista quanto di buono è stato fatto in passato. 

Per il successivo progetto, Il Fuoco, i Giardini Di Mirò hanno pensato a una sonorizzazione di una pellicola d'inizio secolo, in modo analogo ai Marlene Kuntz ("Signorina Else", ndr) e al recente "Man Of Aran" dei British Sea Power (oltre agli splendidi accompagnamenti degli Yo Yo Mundi). La forza delle immagini del film di partenza ha infuso nuova ispirazione alla band di Cavriago; l'album che ne risulta è strutturato secondo tre grandi movimenti di una possibile sinfonia post-rock.
Il primo, "La favilla", comprende i primi sette brani. A partire da un preludio glaciale, attacca una sonata da camera che prende le più diverse connotazioni; talvolta swing funebre ("xx"), talvolta magniloquente al punto che l'orchestra è incaricata di sostituire la tipica distorsione shoegaze ("xxx"), pur con risvolti liturgici, talvolta quasi ambientale (il "tema" di "xxxxx"), talvolta cinematica alla Nino Rota ("xxx"). Negli ultimi momenti di questo "andante" iniziale, la band utilizza percussioni dosate, droni ventosi e tocchi di tastiera, fino ad aumentarne spasmodicamente la tensione al limite della marcia seriosa.
"La vampa" è il momento più emozionante. La prima "∞" è drone music dissonante con effetti sonori e eventi random, e un crescendo di suono kraut a valanga. La seconda è una magica corsa di chitarre tintinnanti psych alla Ash Ra Tempel (e batteria motorik insistente). La terza è un duetto suicida di orchestra ondeggiante e un vortice di scosse elettroniche tremebonde, poi rappreso in un cupissimo diminuendo-decrescendo.
"La cenere" è improntato al battito cardiaco della batteria, che percorre entrambe le "†"; dapprima intona una marcia funebre per piano e ottoni, con glissando chitarristici in lontananza e timbri elettronici spettrali, quindi acquista spessore e sprofonda in un calderone di suoni alieni.
Qualche mancato lavoro di lima, comunque giustificato dalle esigenze filmiche del trattamento del mediometraggio - 1915, regia di Giovanni Pastrone, con la supervisione di Gabriele D'Annunzio - non inficia un tentativo di sublimazione strumentale dall'aureo risultato. La più antiretorica, venusiana, concertante e sconcertante sonorizzazione italica; la migliore, almeno nel decennio 2000. Luca Di Mira sale in cattedra.

Dopo uno iato di cinque anni dall'ultimo disco lungo in studio, Good Luck (2012) prova a scrostarsi di dosso le ultime scorie post-rock, ma fallisce il tentativo di completare la transizione.
La ballata fatata a più voci di "Memories" è solo un buon preludio. Da qui in poi l'umore cupo resta, i contenuti se ne vanno; tutto suona piuttosto generico. "Spurious Love" e "Ride" non hanno nulla della loro classica lentezza, e neanche posseggono le loro tipiche amenità di arrangiamento, ormai piantate in territori di ballad melodica. "Ride", con più precisione e un degno ritornello, è il loro primo vero tentativo d'incursione nel power-pop. I loro amici Yuppie Flu fecero la medesima cosa, e meglio, anni fa. Un'altra staffetta a due, "There Is a Place" e "Rome" espone una nuova area tematica, quella delle murder ballad. La band fallisce anche qui, giacché "There Is A Place" sembra un duetto fatalista tra Nick Cave e PJ Harvey, e "Rome" un duetto gotico tra Mike Gira e Jarboe, ma entrambe suonano invecchiate, senili, datate.
I "veri" Giardini Di Mirò provano a risuscitare verso la fine, ma la timida prova space-rock di "Time On Time" è tutto ciò che riescono a offrire nel 2012. "Flat Heart Society" ricorda che in quest'album affascinano molto di più le impalcature che gli interni, collegandosi idealmente all'intro acustica di "Memories", qui in versione elettrificata (e finalmente con un loro tipico crescendo shoegaze) a ricordare il modus operandi del Neil Young dei grandi concept.
Buco nell'acqua: il carisma è lo stesso di un tronfio disco di reunion, la facilità è quella della produzione mainstream, gli ospiti (Sara Lov in "There Is A Place", la cantante e attrice Angela Baraldi, già nella prima incarnazione dei Delta V, in "Spurious Love" e "Rome") affossano Di Mira, gli arrangiamenti - oltre ai fiati anche un ininfluente Stefano Pilia - non completano l'agognata fase di transizione.

Dopo questo tonfo la band di Cavriago tenta allora la carta del ritorno alle radici, cioè al formato esclusivamente strumentale, e facendo di nuovo leva sulle loco competenze strumentali. Rapsodia satanica (2014) - di nuovo ispirato alle immagini di un film muto di inizio 900 - però non ripete la magia de Il fuoco, per via di un'eccessiva sproporzione tra apparato sonoro e passo lento e ponderato, e soprattutto per una mancata scintilla inventiva che non fa tenere assieme gli episodi, ormai ben al di fuori del post-rock e al di dentro di una restaurazione conservatrice.

Different Times
 (2018), primo vero album in sei anni, accentua oltremodo la schizofrenia in atto, ed è un autentico saliscendi. Alla fantasia chitarristica che fa da overture succedono due esili ballate, "Don't Lie" e "Hold On", a loro volta diseguali per esiti e presentazione. Alla lunga e confusa "Pity The Nation" succede un pop facile come "Void Slip", a cui poi succede "Landfall", una delle loro migliori concatenazioni solo strumentali. I dieci minuti finali di "Fieldnotes" sono una metafora dell'album: da una parte un'imitazione dei secondi Red House Painters, dall'altra un'accozzaglia di suoni. Album frammentario, infestato di ospiti, con poche idee, da cui emerge comunque un commentario amaro della socialità coeva.


Contributi di Lorenzo Brutti - Aktivirus, Michele Saran ("Il fuoco", "Good Luck", Rapsodia satanica", "Different Times")