Homunculus Res

Homunculus Res

Echi di Canterbury in Sicilia

Gli Homunculus Res sono, tra gli epigoni della storica (non) scena, i più fedeli alla linea della seconda generazione, quella capitanata dagli Hatfield And The North. Con il loro jazz-rock canterburiano, insieme a quell’ironia tipica di un certo approccio, tutto siciliano, all’arte e alla vita, sono riusciti a diventare un punto di riferimento degli amanti del prog italiano

di Valerio D'Onofrio

Canterbury in Italia, una lunga storia iniziata negli anni 70 con band come Dedalus, Perigeo, Picchio dal Pozzo e che continua orgogliosamente sino ai nostri giorni, con formazioni sparse in ogni regione. Tra queste i siciliani Homunculus Res sono di sicuro - tra gli epigoni della storica (non) scena - la più fedele alla linea della seconda generazione, quella capitanata dai Hatfield And The North e National Health.

Che la Sicilia potesse divenire più canterburiana di Canterbury non era lecito aspettarselo, ma nella band di Dario D’Alessandro (voce, chitarra), Davide Di Giovanni (piano, synth), Daniele Di Giovanni (batteria), Mauro Turdo (chitarra) e Domenico Salamone (basso), poi sostituito da Daniele Crisci, troviamo tutte le caratteristiche salienti della scena; dall’approccio indolente e ironico ai testi nonsense, dalle arzigogolate tessiture strumentali per giungere infine a un mix bilanciato delle varie generazioni di Canterbury con il Rock In Opposition, sfumature freak e svariate citazioni wyattiane. Da segnalare anche la mente creativa e voce del progetto, Dario D’Alessandro, dotato di una notevole cultura musicale, figlia di faticosi studi e di un'esperienza di ascolto personale, ma soprattutto dotato di un carattere e di una personalità che conciliano un animo timido a un'ironica percezione dell'esistente e a una coerenza di idee pressoché assoluta, mai contaminata dalle ammalianti sirene del mainstream.

I loro lavori sono un vero compendio della storia della scena di Canterbury arricchito da numerosi spunti zappiani, all'insegna di quell’ironia e di quell'irrazionalità che sono tipiche di un certo approccio, tutto siciliano (quindi anche zappiano), all’arte e alla vita.
Se si dovesse cercare una caratteristica che può definire la musica degli Homunculus Res, questa è indubbiamente l'ironia, quella capacità di non prendersi davvero sul serio, a dispetto di una proposta musicale serissima e complessa, mostrando così un'alterità totale rispetto al mainstream dominante, che fa esattamente l’opposto: dare una parvenza di serietà alla più assoluta banalità.

Esordiscono nel 2013 con Limiti all'eguaglianza della parte con il tutto, Lp anomalo e bizzarro, spezzettato in ben 18 brani brevi, come in una sorta di calderone pieno di idee elaborate ma non tutte definite sino in fondo. Potrebbe definirsi il loro “Commercial Album” (Residents) o il loro “The Faust Tapes” (Faust), per paragonarlo a due dischi pieni di piccoli brani tagliati e cuciti insieme in un unico mix, dove alcune idee sono portate a termine, altre invece rimangono semplici appunti da rivedere (forse) in un secondo momento. Bozzetti demenziali, cover deliranti, titoli esilaranti, divisi tra una prima parte più strutturata e una seconda meno compiuta e appena più sperimentale.
Canterbury è disseminata ovunque, in particolare nei cori di “Preparazione bomba H”, nei ritmi di “Culturismo ballo organizzare”; lo stesso vale per le sonorità prog presenti in ogni pezzo. Per certi versi, la seconda parte nasconde momenti anche più interessanti che, se sviluppati fino in fondo, avrebbero potuto portare a grandi brani.

mauro_tudo_chitarraDue anni dopo pubblicano Come si diventa ciò che si era (2015), che può tranquillamente definirsi l'album della maturità della band e che le dona anche una certa visibilità tra gli appassionati del prog e tra le riviste specializzate. Due anni di esperienza portano a un’evoluzione decisa; non più idee abbozzate e lasciate lì, ma portate sino in fondo, che rendono l’album una sorta di manuale di istruzioni per chiunque voglia suonare prog canterburiano in Italia senza apparire stucchevole o scontato.
Nonostante le sonorità siano ovviamente le medesime (tempi dispari, synth, e-piano, jazz-rock) la differenza è chiara: meno brani, lunghezza media superiore e una grande suite canterburiana di 17 minuti (“Ospedale civico”) che diventa la summa della loro arte, enorme calderone che contiene mille sfaccettature prog-jazz.
Ma stavolta tutto è perfetto e studiato nei minimi dettagli; dai vorticosi ritmi di “Vesica Piscis”, alla super-wyattiana “Dogface Reprice”, con la voce di Aldo De Scalzi dei Picchio dal pozzo, all’omaggio ai Soft Machine di “Opodeldoc”. Quattordici brani spesso collegati tra loro che diventano davvero una pietra miliare del neo-Canterbury italiano.

davidee_Non era facile ripetersi a questo punto, ma la band nel 2018 ritorna con Della stessa sostanza dei sogni, proseguendo nella medesima strada dei due Lp precedenti e aggiungendo una piccola svolta cantautorale, dettata dai testi di Dario D'Alessandro, mente creatrice della band. Stavolta manca il brano lungo, quell'“Ospedale Civico” che aveva illuminato il 2015 con le sue scorribande jazzistiche. Della stessa sostanza dei sogni è invece composto da dodici tracce relativamente brevi (nessuna raggiunge i cinque minuti) che contengono al loro interno, ancora una volta, una quantità debordante di abbozzi di idee che non vampirizzano i canoni della scena di Canterbury o di una parte del Rock in Opposition per nascondersi dietro il dito della derivazione, ma li utilizzano e li rivitalizzano per una singolare interpretazione personale. Sobrietà e stravaganza alfine collimano in quello che può ritenersi uno dei più originali e innovativi progetti di rock italiano, confermando gli Homunculus Res come i creatori di un proprio linguaggio, dove le istanze retrò sono annullate dall’intensa sequenza di soluzioni armoniche baciate dall'essenzialità e dall’ispirazione.
Si va dai ritmi divertenti e parossistici di “La cabala” al bizzarro canto dal timbro e dal testo zappiano di “Facci una pazzia”, che gioca con successo la carta cantautoriale “In Opposition”. Impossibile non pensare agli Henry Cow o ai Soft Machine durante l’ascolto di brani come “Dopamine”, “Mentre dormi” (entrambe con la collaborazione di Tommaso Leddi degli Stormy Six) e soprattutto nella magmatica “Il nome di Dio”.
Le lievi inflessioni funky (“La cabala”), le fughe strumentali jazz-prog spesso incorniciate da liriche taglienti (“Faccio una pazzia”), le sublimi intuizioni melodiche (“Bianco supremo”), le bizzarrie mai banali profumate di beat (“Non sogno più”, “Se la mente mentisse”), i superbi incastri tra testo e amabili contrappunti sonori (“Rimedi ancestrali”) sono tenuti insieme dal costante riferimento al mondo dei sogni, che qui aleggia come elemento di verità subliminale dall’estatica eleganza, che trova il suo nadir nelle lande più prog di “Preludio e distrazioni”.

Forti di un credito sempre più elevato presso la stampa e il pubblico internazionale, gli Homunculus Res non accennano nessun cedimento ideologico e creativo.
Primo disco per l’Ams Andiamo in giro di notte e ci consumiamo nel fuoco si avvale ancora una volta di collaboratori illustri come David Newhouse (Muffins), Aldo De Scalzi (Picchio dal Pozzo) e Petter Herbertsson (Testbild!), presenze che garantiscono un perfetto equilibrio tra passato e presente.
Il fascino effimero e pericoloso del consumismo è il tema intorno al quale la band palermitana costruisce composizioni ancor più ambiziose, a partire dall’ottima “Lucciole Per Lanterne” che rimarca le influenze dei Caravan e dei Soft Machine senza sembrare mai passatista.
Un’attitudine che il gruppo rafforza e consolida con il brano simbolo di questo nuovo album, ovvero “Il Carrozzone”, tre minuti e quarantadue secondi dove si concentrano ritmi sinuosi e singolari, stratificazioni di synth, suoni vellutati di sax, e un testo surreale che sposta ancor di più le coordinate stilistiche verso le visionarie intuizioni di Robert Wyatt.

Non c’è episodio che possa definirsi superfluo o riempitivo, la leggiadria pop-prog di “Supermercato”, la citazione di “Hey Jude” dei Beatles in coda alla romantica “La Luccicanza” (la cui introduzione ricorda la celebre ”La Lontananza”), il timbro cupo di “Tetraktys”, ed il valzer con tanto di flauto e fagotto della conclusiva “Non Dire No”, mettono in campo una varietà stimolante e testi mordaci.
Il pregio più rilevante di Andiamo in giro di notte e ci consumiamo nel fuoco è comunque quello di rendere fruibile una materia altrimenti complessa ed articolata (la virata pop di “Buco Nero” e le atmosfere lounge/library music di “La Spia”), mentre il costante riferimento a Piero Umiliani e Piero Piccioni modifica l’immaginario non solo prog dei palermitani, proiettandoli verso un futuro ricco di possibili imprevisti.

Nel 2021 Dario D’Alessandro collabora col chitarrista dei La 1919, Luciano Margorani. Una collaborazione a due tra Lombardia e Sicilia che aveva già avuto inizio nell’Ep Canzoncine (2020). Nel 2021 la collaborazione si fa più stretta e porta alla pubblicazione di un Lp senza titolo tredici brevi canzoni caratterizzate principalmente dalla loro leggerezza e semplicità che rimanda a un certi disincanto e ironia tipici di buona parte del Canterbury storico. Il progetto è inoltre un tripudio di citazioni, alcune riconoscibili, altre probabilmente nascoste tanto a dovere da richiedere tempi e studi da autentico nerd canterburiano per essere scoperte.

C’è però un aspetto giocoso e persino infantile che è riconoscibile nel duo, appunto quello da”canzoncina” che probabilmente era il punto di partenza iniziale. “Entrata” coi suoi accordi di chitarra con le tastiere a seguire, quasi a ricordare una canzone per bambini, con i suoi successivi vocalizzi, ne è un esempio. Se il bellissimo brano “Gramigna” non può che ricordare le chitarre di Mike Oldfield in “Rock Bottom” e il canto che omaggia Robert Wyatt è disseminato ovunque, c’è da notare come il legame più forte sembrerebbe quello con le band tardive di Canterbury, passate alla storia come seconda generazione. Diciamo National Health e Hatfield The North soprattutto. Un Lp pieno di piccole opere leggere, ma a volte straordinarie come la breve “Ritorno” che improvvisamente si lancia in un vorticoso loop in stile Terry Riley.

Un lavoro d’altri tempi, ma allo stesso attualissimo, strapieno di idee, melodie e canti bizzarri, a volte persino desolati (“Distanza”), a volte di pura ricerca ("Pianerottolo"), più spesso giocosi come se Wyatt cantasse con quei burloni dei Mamma non piangere (“Ambulanze”).

Con l'album Ecco l’impero dei doppi sensi i palermitani dimostrano di non aver più alcun timore di dialogare con le più flessibili regole del pop. A dettar tempi e metodologie sono sempre le note influenze dei Soft Machine e degli Hatfield And The North, l'ineffabile e debordante virtuosismo di “Il Bello e il Cattivo Tempo”, è basilare nella dinamica del progetto, da qui nascono le dinamiche da suite-prog che dominano la parte centrale dell’album. Le geniali interazioni tra progressive e divagazioni pop-jazz alla Frank Zappa di “Pentagono”, la sottile linea kraut che attraversa l’ennesima fuga verso l’immaginario lounge di “Fine del Mondo” o della più ardita e distonica “Cinque Sensi”, e le oniriche trame psichedeliche in chiave Beatles/Cardiacs del geniale prog-pop di “Viaggio Astrale Di Una Polpetta”, con gli amici Sterbus a far da giocolieri, sono un concentrato di irriverenza e rigore stilistico che conferma l’unicità degli Homunculus Res.
“Ecco L’impero Dei Doppi Sensi” raccoglie in parte l’eredità emotiva del progetto di Dario Alessandro e Luciano Margorani, cercando nuove sinergie tra prog-rock e formato canzone, “Quintessenza La La La”, fino a lambire l'immaginario della Premiata Forneria Marconi nella ballata “Parole E Numeri”.
Anche il cadenzato e canticchiabile ritornello di “Fiume Dell'oblio” e le barocche architetture di “Doppi Sensi” sono a loro modo parte di un unicum, un’attitudine creativa che onora il concetto di musica come arte popolare e sagacemente godibile, e conferma la band palermitana come una delle realtà più stimolanti del panorama nostrano.

Dario D'Alessandro ritorna a collaborare con Luciano Margorani, con l'aggiunta del battersta Fabrizio Carriero (Il lungo addio) in Dieci pezzi facili (2023). E’ chiaro che l’idea di scrivere “pezzi facili” sia per Margorani un pretesto che fa ben capire la differenza tra semplicità e banalità. Di semplice o di facile non c’è infatti nulla nei dieci brani del trio, se non l’idea di leggerezza e di ironia tipica degli epigoni canterburiani, ottenuta con una cura dei dettagli che è assolutamente opposta all'idea di semplicità. In questo l’opera di Margorani si pone davvero come antitetica alla musica mainstream contemporanea, dove la facilità diventa sinonimo di mediocrità e di sciatteria.

Contributi di Gianfranco Marmoro ("Della stessa sostanza dei sogni", "Andiamo in giro di notte e ci consumiamo nel fuoco", Ecco L'impero Dei Doppi Sensi")