Niccolò Contessa - I Cani

Niccolò Contessa - I Cani

Il Re Mida dell'it-pop

Figura chiave del nuovo pop italiano a partire dagli anni 10, Niccolò Contessa - con il suo progetto I Cani e nelle vesti di produttore - è stato precursore e vero deus ex machina dello sdoganamento borghese dell'estetica indie. Il suo più grande merito? Aver fotografato, meglio di chiunque altro, ansie, maschere e disillusioni della generazione hipster

di Alessio Belli, Giovanni Epistolato, Cristiano Orlando

Nel 2010, la parola “indie” in Italia non è ancora entrata nel linguaggio comune. Ma nell’aria c’è uno strano sentore. La scena rock più o meno alternativa ha esaurito la sua potenza aggregatrice, non riuscendo più a ricostruirsi sulle ceneri dell’ultimo movimento identitario di massa (l’emo), fallito troppo presto in una deriva macchiettistica che ne ha subitaneamente offuscato tutta la forza di contro-cultura. Il pop veleggia in produzioni inconsistenti e insipienti, sommerso dall’onda lunga dei fuoriusciti dai talent, peraltro ancora totalmente incapaci di aprirsi alla contemporaneità. I rapper tengono botta, pur non vivendo una reale stagione d’oro. La nuova leva cantautoriale diventa così un’ultima àncora per chi vanta pretese (talvolta forzatamente) intellettuali. I più furbi si rifugiano nelle derivazioni elettroniche, unica prospettiva che sembra avere un senso più compiuto. Il mondo della musica italiana vive insomma in uno stato di smarrimento, forse senza precedenti. Le “scene”, vere e proprie comunità urbane e suburbane fino a pochi anni prima, sono pressoché estinte come fenomeno - appunto - di massa. Tale smarrimento è probabilmente il prodotto di tanti fattori, alcuni interni al mercato discografico stesso (con riferimento all’accesso e alla fruizione della musica, ormai senza più limiti e selettività), altri forse effetto degli enormi cambiamenti delle dinamiche sociali e comunicative generati dall’avvento dei social network. In un simile scenario di diluvio di informazioni, contenuti e impulsi, diventa impensabile ostinarsi a credere che la musica possa continuare a mantenere forme ben definite. Il pubblico è come mai prima eterogeneo nei gusti e omogeneo nell’estetica, rifiutando divise e icone. Certo, gli incrollabili puristi di varia natura rimangono, le nicchie sopravvivono (alcune anche abbastanza floride). Ma la stragrande maggioranza, soprattutto della nuova generazione, non chiede nient’altro che specchiarsi nei propri piccoli disagi della porta accanto in maniera semplice e immediata, senza l’obbligo di dover rispondere a determinati canoni.

 

Quel senso di smarrimento è il sentore che si avverte nell’aria. Ma c’è chi riesce a coglierlo. C’è ibridazione, c’è fluidità; in tutto, quindi anche nella musica. Allora qualcuno inizia a suonare in un altro modo; un modo che non porta in grembo particolari innovazioni, ma riflette esattamente quell’abbattimento di confini e quella velocità del messaggio richiesti nell’era di Twitter, Facebook e Instagram. A cambiare è l’approccio. Soprattutto, il linguaggio e la comunicazione, che per adattarsi ai tempi devono emanciparsi da rigori stilistici.
Al bando i cliché del “rock duro”, del “pop melenso”, del “punk di strada”, del “gangsta rapper”, del “dj che fa elettronica”. Tutto si fonde e si confonde, scavalcando ampiamente i limiti già raggiunti da qualsiasi altra formula crossover del passato vicino o remoto. La chiave d'accesso per il pubblico di massa è naturalmente il pop. Ma serve una veste mediatica nuova, un vessillo che possa in qualche maniera assumere un certo valore identitario, anche in un momento storico in cui l’identità è sfuggente. Così, si va a riesumare quella parola citata all’inizio: indie. Un termine ancora legato alle sotto-culture, ma che diventa il vettore ideale per veicolare la nuova estetica pop. Il che, nella sua contraddizione, ha una sua ragionevolezza; riflette la necessità di un’apparenza “alternativa”, sebbene calata in un contesto di piena omologazione, e rispetta se non altro il concetto di non-genere e non-appartenenza che l’indie ha sempre espresso (sarà poi l’abuso giornalistico degli anni a venire a far evaporare definitivamente questa dicotomia).
Quello che si sta plasmando in Italia non è però l’indie-pop di concezione anglosassone (sfumatura che in terra nostrana è magari possibile ricondurre ai primi lavori di gruppi come Baustelle e Perturbazione); è semplicemente pop, pur indefinitamente contaminato, che dell’indie fa solo un pretesto. Ma ciò non è da intendersi negativamente (quantomeno nei primi sviluppi concreti del filone); rappresenta anzi un elemento di peculiarità che dal giusto punto di vista può essere considerato lodevole.

 

Come accade sempre, vince chi intercetta il proprio tempo. Su questo sfondo, Roma si mostra alquanto vivace; in particolare, nel 2010, si inizia a parlare di una band che va sotto il nome de I Cani. Almeno, tutti inizialmente pensiamo a una band quando sotto questo moniker iniziano a circolare su YouTube e SoundCloud due brani: “I pariolini di diciott’anni” e “Wes Anderson”. Non ci sono fotografie o informazioni. Soltanto immagini di quadrupedi caricate sul profilo e, appunto, le menzionate canzoni, che fanno - in men che non si dica - il giro del web, diventando uno dei primi “casi virali” applicati alla musica italiana.
Questa è la prima testimonianza di una novità in evoluzione. Non tanto - come già detto - sotto il profilo dei contenuti; si tratta infatti di tracce electro-pop piuttosto semplici e malinconiche, suonate a ritmi punk (descrizione avallata dallo stesso autore in alcune interviste successive), registrate in qualità lo-fi e cantate in un tono baritonale a metà tra l’enfasi di Bianconi e il mezzo falsetto naturale di Gazzè. Detto così, può sembrare un miscuglio indigesto, e non mancherà infatti chi bollerà negativamente il progetto. Ma accanto ai critici e agli indifferenti, un piccolo esercito inizia a fomentarsi. I pezzi colpiscono e rimbalzano a destra e a manca, prima nella Capitale, poi in tutta Italia.
Da un lato quel meltin’ pot un po’ grezzo nella forma ma raffinato nelle intenzioni mette d’accordo un pubblico più o meno variegato e desideroso di dimensioni e approcci differenti dal solito. Ma a distinguersi è soprattutto la narrazione (con il pregio di fare esattamente il paio con la resa sonora); i brani de I Cani sanno raccontare effettivamente qualcosa alle nuove generazioni nel modo in cui questi vogliono sentirselo raccontare. “I pariolini di diciott’anni” è un affresco sarcastico, arguto e perfettamente sincero di un certo tipo di gioventù borghese, dove l’iniziale cinismo (“I pariolini di diciott’anni comprano e vendono cocaina […] animati da un generico quanto autentico fascismo testimoniato ad esempio dagli adesivi sui caschi […] fanno i filmini con le quartine, perché anche se non fosse amore non per questo è da buttare, come è logico che sia”) cede il passo a un’indulgenza sommessamente dolce e nostalgica (“Loro sono gli ultimi veri romantici”). Il riferimento ai Parioli è la prima evidenza di come Roma assurga a elemento poetico primario (la critica di eccessiva “romanità” verrà ripetutamente mossa in relazione ai primi lavori de I Cani), ma in realtà la raffigurazione del brano è potentemente universale per il contesto preso ad oggetto. Con “Wes Anderson”, l’espediente del regista texano mette in luce una profonda comprensione dei simboli emblematici di quella generazione hipster a cui ci si va rivolgendo, disillusa tra colori pastello e in preda a un’eterna post-adolescenza.

Il gioco dell’anonimato va avanti per un po’, naturalmente suscitando crescente curiosità. Nel percorso che porterà alla pubblicazione del primo album, pur senza ancora un nome e un volto, ci sono anche le prime apparizioni in pubblico, con identità rigorosamente protetta da un sacchetto di carta in testa (che sarà tolto per la prima volta al Mi Ami Festival - pronto a diventare il santuario di quella novella concezione “indie” all’italiana).
Emergerà man mano che I Cani non sono neanche una band, bensì il progetto artistico di un singolo individuo: Niccolò Contessa.
Ventiquattrenne nel 2010, figlio di un'insegnante e di un funzionario della Banca d’Italia e cresciuto nel Municipio II di Roma, Contessa ha dalla sua diverse capacità; in primis, quella d’osservazione. Il suo angolo della città è il punto privilegiato per capire i giovani, soprattutto se a stanziarsi in vedetta è un giovane stesso con un disinvolto piglio critico. Il suo osservatorio è in un quartiere tra i più borghesi e benestanti della Capitale, ma allo stesso tempo massimo crocevia di studenti autoctoni e fuorisede, prospiciente tanto al centro quanto alle semi-periferie di tendenza in fase di gentrificazione. Contessa trova tutta l’umanità più interessante e vivace che gli scorre davanti; quell’umanità che la sera parte per il privè riservato in discoteca, così come quella che si va dirigendo verso i centri sociali di San Lorenzo o della Prenestina. La guarda e ne penetra lo spirito, perché, in fondo, il suo esercizio è innanzitutto un’analisi di sé stesso. Perché è anche lui lì, tra le storie che racconta. Soltanto, probabilmente più disincantato e disilluso rispetto ai suoi coetanei.

 

Musicalmente parlando, risulta difficile risalire alle sue influenze in modo univoco. Contessa è uno che potrebbe parlarti con cognizione di causa tanto dell’ultimo fenomeno del rap radiofonico quanto degli Slint e dei Gastr Del Sol. Un personaggio che negli anni si è mostrato piuttosto schivo: non sono tante le interviste (o altri tipi di testimonianze) che rivelino informazioni sul suo conto. Sicuramente, emerge un profilo culturalmente elevato. D’altro canto, il suo modus operandi dà prova anche di una certa consapevolezza utilitaristica (anche questa da intendersi come segno di intelligenza artistica) applicata proprio a ciò che abbiamo menzionato poc’anzi: la scelta dei mezzi di comunicazione e di un certo linguaggio.
A fine 2010, quando ancora sembra non esserci una compiuta direzione per I Cani, viene pubblicata un’altra traccia: “Il pranzo di Santo Stefano”. Un altro piccolo ritratto sociale, in toni non meno agrodolci ma più pacati, senza la frenesia pop-punk dei brani già circolati; si può dire in un certo senso che il pezzo in questione presenti un germe di un sound che verrà poi definito calcuttiano (e in questo discorso, Contessa avrà un ruolo essenziale, non solo come influenza).

Mentre continua ad aleggiare un certo mistero su I Cani, la preparazione per il primo album vero e proprio procede secondo una tabella di marcia probabilmente ben studiata. Registrato, mixato e masterizzato tra Roma e Bologna (a eccezione di alcuni brani per cui si sceglie di mantenere la take casalinga) con la produzione di Giacomo Fiorenza (un nome non da poco nell’ambiente indie nuovo e vecchio), prende vita Il sorprendente album d'esordio de I Cani, pubblicato a giugno 2011, dove tra le undici tracce confluiscono anche le tre già note. Sono molte le cose che fanno chiaramente intendere come Contessa abbia le idee particolarmente chiare sulle dinamiche comunicative da seguire. Il disco esce per la 42 Records, etichetta a quanto pare scelta proprio perché particolarmente attenta alle nuove modalità di fruizione e diffusione della musica. Non a caso, oltre alle già menzionate vicende che hanno reso il fenomeno de I Cani virale per tutto il tragitto che ha portato alla pubblicazione dell’album (perfetto esempio di creazione dell’hype), per il lancio si opta per alcune scelte particolari, per nulla scontate nel 2011 in Italia. Il primo video viene infatti girato interamente con l’app Hipstamatic e viene pubblicato in anteprima esclusiva per Wired. Un tripudio hipster e nerd, vero pubblico di riferimento. Non a caso, la canzone in questione si intitola “Hipsteria”, nel cui video il protagonista è interpretato (altro elemento altamente rappresentativo di una determinata logica) da un web-hero di ultima generazione, Luigi Di Capua di The Pills.
“Hipsteria” (che apre l’album, subito a valle dell’intro homemade di “Theme from the cameretta”) ricalca la struttura dei primissimi brani caricati su SoundCloud un anno prima e soprattutto sciorina un’iconografia potente e veritiera, mettendo in fila una serie di immagini e riferimenti culturali in cui gli ascoltatori-target si rispecchieranno senza fatica: i racconti scritti su un MacBook Pro, i sogni di emigrare per cercare fortuna (o semplicemente per scappare), una lettura di David Foster Wallace al parco, le Lomo, le Polaroid, ascoltare Daniel Johnston alle quattro del mattino. Contessa dipinge come nessun altro aveva saputo fare prima quella generazione piccolo-medio borghese di alternativi o pseudo-tali, un po’ intellettuali o goffamente intellettualoidi, che ha bisogno di ritrovarsi non più nei furori sacri di qualche sotto-cultura rock o in nenie di puro stampo cantautoriale, bensì nella rassicurazione del pop. E sebbene quella cifra a metà tra le orchestrazioni synth-electro-pop e la velocità pop-punk sia in larga parte ripresa pedissequamente in quasi ogni pezzo dell’album e avulsa dall’operazione non risulterebbe neanche di spiccato interesse, essa costituisce una brusca (forse persino affrettata) sintesi di tutto il nuovo filone “indie” pronto a decollare in Italia e Contessa riesce a ritagliarla in maniera accattivante e irresistibile, tanto da suonare divertente nel contrasto con il dolce-amaro spleen giovanile che domina il disco.
Ne Il sorprendente album d’esordio de I Cani, c’è anche tantissima Roma, al punto che non risulta infondata l’obiezione di chi sostiene che alcune dinamiche rappresentate possano sfuggire a chi non conosca la città. I personaggi di Contessa si muovono infatti tra gli avamposti alt-cool della Capitale, da quelli del centro (Monti) a quelli semiperiferici (Pigneto). Nel suo peculiare storytelling non c’è nessuna sfumatura di pasoliniana memoria. Proprio quel Pigneto che lo stesso Pasolini descriveva come “la corona di spine che cinge la Città di Dio” è ormai tempio incontrollato delle tendenze radical chic. Nessuna passione borgatara, solo decadentismo middle-class bardato a festa. Quella de Il sorprendente album d’esordio de I Cani è una “Grande Bellezza” formato hipster. Tutto muove dalla Roma Nord di Contessa (rappresentata in una traccia ad hoc, con sonorità rumoristiche da buco nero) ma niente si esaurisce lì.
Tuttavia, contrariamente a quanto molti hanno cercato di sostenere, Contessa non giudica né deride o ridicolizza i soggetti a cui dà vita. Spesso, anzi, si tratta di figure dai tratti marcatamente autobiografici. I suoi spaccati sono tanto spassionati quanto ricchi di pietas. Le sue fotografie sono crude e talvolta feroci ma sempre profondamente umane e partecipate. Alcune sono diventate dei piccoli casi sociologici di scuola (veri instant classic in aggiunta a quelli già citati): “Le Coppie”, “Post Punk” e soprattutto “Velleità”. Quelle velleità che “ci aiutano a scopare quando non sei davvero ricco né povero davvero”, in una sfilata di maschere da cui nessuno è escluso:

I critici musicali ora hanno il blog
Gli artisti in circolo al Circolo degli Artisti
I falsi nerd con gli occhiali da nerd
I radical chic senza radical
Nichilisti col cocktail in mano
Che sognano di essere famosi come Vasco Brondi
Che appoggiato sul muro parla con la ragazza di qualcuno
Anoressiche alla moda, anoressiche fuori moda
Bulimiche si occupano di moda
Mentre aspiranti dj aspirano coca
Aspiranti attrici sospirano languide
Con gli autori TV, gli stagisti alla Fox, i registi di clip
I falliti, i delusi, i depressi, i frustrati
Gli emo riciclati
I gruppi hipster, indie, hardcore
Punk, electro-pop, I Cani

Quei nichilisti col cocktail in mano siamo noi, siete voi, sono loro. Siamo tutti. Essere di Roma e sapere cosa abbia significato il Circolo degli Artisti aiuta in fondo solo a comprendere un po’ di più qualche scenario specifico. Contessa indaga e ritrae perfettamente ansie, pose, disagi, illusioni, disillusioni, nevrosi, sentimenti, menzogne, stereotipi e paranoie di chi ha vent’anni negli anni Dieci nel nuovo millennio. E lo fa nella maniera pop più congeniale all’epoca.
L’album entra prontamente nella top 20 Fimi dei dischi più venduti in digitale. Ormai il sasso è lanciato e le onde generate sullo specchio d’acqua hanno l’ambivalente caratteristica di essere sia lo scossone che si propaga pericolosamente al largo e, al tempo stesso, la salubre ventata di freschezza. Contessa, volente o nolente, con questo disco d’esordio lascia il segno e nulla potrà essere uguale a prima.

Nel 2012, freschi di primi consensi e riscontri favorevoli, I Cani prendono parte alla raccolta di cover degli 883 organizzata da Rockit "Con Due Deca". Spetta a loro il compito di cantare proprio il celebre pezzo scelto come titolo - rivisto - della raccolta, tratto dello storico esordio del gruppo di Pezzali e Repetto "Hanno ucciso l'Uomo Ragno" del 1992. Cantore delle cronache capitoline, Contessa si muove a suo agio anche nel racconto dei mali della provincia milanese, fornendo una prova convincente e personale del brano.

Nello stesso periodo, la mossa di pubblicare uno split Ep con i Gazebo Penguins (I Cani non sono i Pinguini non sono i Cani, aprile 2012) dà inizio a un processo di rivoluzione interiore ed esteriore.
I Cani non saranno più un’entità gestita in assoluta autonomia, ma quantomeno per arrangiamenti, la condivisione con vedute altrui sarà lo strumento per sdoganare e proiettare le riflessioni, che continuano ad affiorare copiose dalla mente di Niccolò, verso nuovi orizzonti, territori che, si vedrà presto, inizieranno a essere meno focalizzati sul mondo che circonda Contessa, ma più propensi a scavare con dettaglio negli oscuri meandri dell’indole del cantautore romano.

Glamour è il titolo del sophomore, pubblicato nel mese di ottobre del 2013.
Come dichiarato dallo stesso artista in alcune interviste, i contenuti del disco sono stati fortemente influenzati dall’opera dei colleghi Baustelle uscita nel corso dello stesso anno, quel “Fantasma” che aveva fatto un po' storcere il naso ai seguaci della vecchia guardia della band toscana, ma che risultava oggettivamente un lavoro di complessità e profondità assolute.
In questo ambito, Contessa approccia composizioni che si rivelano certamente più articolate dal punto di vista musicale (la produzione di Enrico Fontanelli degli Offlaga Disco Pax si nota eccome), ma che conservano quella pungente ostinazione nel comunicare le proprie liriche con l’unicità che lo stava progressivamente rendendo, già dopo un solo disco alle spalle, un capostipite del moderno cantautorato italiano.
L’opener “Introduzione” è la classica cartina di tornasole del nuovo percorso dei Cani, che sembra riappacificarsi, in modo assolutamente personale, con gli stilemi imposti dalla canzone italiana:

Non mi commuovono le storie coi sensi di colpa
non m'interessa l'opinione di chi la sa lunga
io voglio raccontare e che mi si racconti
perché anche il poco che sappiamo è meglio di niente

La distribuzione dell’interessante singolo apripista “Non c’è niente di twee” viene realizzata mediante la condivisione di un link segreto all’esterno dell’Alcatraz di Milano, in occasione di un concerto degli Editors dell’ottobre 2013. I rimpianti che caratterizzano il testo sono la chiara conferma che, parafrasando anche una porzione estratta dal titolo del brano, non ci si dovrà aspettare nulla di mieloso, di morbido, di “Glamour”, ma tutt’altro.
“Corso Trieste” è il manifesto con il quale Contessa chiude i conti con la propria adolescenza: un brano emo perfetto nel quale è coadiuvato dai Gazebo Penguins, nemmeno a dirlo, in una riflessione posta a metà tra le incognite dell’uomo adulto e quelle più spavalde, quelle da giovincello, quando le uniche preoccupazioni potevano essere al massimo legate a discussioni familiari, alle difficoltà scolastiche o alle primitive emozioni/delusioni sentimentali. Poi, le faccende si fanno più complesse, tanto da arrivare, in età adulta, a non ricordare nemmeno il perché si ha un nodo in gola, rimembrando con nostalgia la genuinità di quelle antiche trepidazioni:

In faccia ho freddo mentre sotto la mia giacca sudo
e ho un groppo in gola ma non so perché
adesso non ricordo più il perché

Il punto di partenza di tutto è però da ricercare in “Storia di un impiegato”, vero e proprio anello di congiunzione e passo cardine del disco. Il palese riferimento deandreiano (non l’unica citazione all’interno del brano, vedi anche i Diaframma di “Gennaio”, oltre a un’autocitazione di “Door Selection”) segna forse l'episodio più ombroso mai sfornato dalla penna di Niccolò. Un racconto che confronta chi fa dell’arte il proprio mestiere, tra mille dubbi, con chi punta alle certezze di un lavoro più standardizzato, per indole o per necessità:

In vacanza un'estate ho scoperto
Che esiste gente che fa i concorsi
E non concorsi tipo Premio Tenco
Ma concorsi tipo il Ministero
Considerato che non sono un artista
E con le velleità non ci si vive
Mi ritrovai con un lavoro vero
Uno di quelli proprio senza glamour

Proprio le citate velleità di chi cerca nelle espressioni artistiche la propria vocazione sono il fulcro di “Storia di un artista”, passo che trae evidente spunto dalla tragica storia di Piero Manzoni (e qui sono chiamati di nuovo in causa i Baustelle di “Un romantico a Milano”), famigerato personaggio dell’arte moderna, meno noto dell’omonimo Alessandro scrittore, che porta Contessa fuori dalle amate e odiate mura della Città eterna e lo trasporta verso un’altra città riferimento, quella Milano che rappresenta il centro delle contraddizioni, di chi ricerca nell’effimero un barlume di luminosità:

Eri un genio, un artista
Eri ricco e viziato
Eri un vero profeta
Eri un alcolizzato
Ti festeggiamo ogni anno
Con mostre borghesi
Con le foto profilo
Con le tesi di laurea

Tra uno stravagante e inconsueto testo scientifico sull'inutilità di chi esprime romanticamente i propri desideri alle stelle cadenti ("San Lorenzo") e il rinnovato featuring ambient di Cris X per “Roma Sud” e “Theme From Koh Sansui”, il disco si chiude in modo onorevole con l’accoppiata formata da “FBYC (Sfortuna)” e “Lexotan”, due pezzi che per diversi motivi forniscono ulteriore innesco per nuove considerazioni. Nel primo episodio si fa smaccato omaggio ai Fine Before You Came (inanellando una serie di riferimenti ai testi del loro disco simbolo, “Sfortuna”), amati in modo viscerale da Contessa per la capacità di riuscire a elargire solennità agli aspetti più pedestri del quotidiano, i momenti nei quali s’intuisce che le difficoltà esistenziali del singolo sono invece comuni e quindi degne della più ampia considerazione:

Ho paura del buio
Soprattutto sul palco
Che i miei amici mi scordino
E di quelli che scordo io
E poi temo il successo
Ma non quanto l'insuccesso
Forse è per questo che passo la vita a dire che non mi interessa

La genialità del Contessa-pensiero si espande definitivamente nei versi di “Lexotan”, dove viene inquadrato l’umore e lo stato d’animo della gioventù che dissimula le proprie ansie in una forzata felicità, illusoria panacea di tutti i mali, ma che alla resa dei conti si rivela subdola chimera, capace – per certi versi – di appiattire i picchi prodotti dalle passioni altalenanti. Una sorta di mesto ordine, funzionale a restare a galla, ma che lascia un sapore amaro in fondo al desiderio tanto agognato quanto effimero e artificiale:

Se dovessi avere sulla tangenziale la tachicardia
Cercherò di ricordare che
Nonostante tutto c'è
La nostra stupida
Improbabile felicità
La nostra niente affatto fotogenica felicità
Sciocca, ridicola, patetica, mediocre, inadeguata, inadeguata...

Con Glamour si registra dunque un'evoluzione che non soddisfa tutti i seguaci della prima ora. Chi attendeva un album che continuasse a decantare i risvolti di quella società indeterminata, di quelle vicende scevre di ardore e zeppe di classificazioni, si è trovato ad avere a che fare con una forma privata dell’essere, più affettiva e in un certo senso più concreta, perché sdoganata dallo straniamento e dalla deformazione del mondo circostante.
Se da un lato la poetica de I Cani inizia ad assumere connotati più intimisti (per raggiungere il culmine espressivo in questo senso con il successivo Aurora), d’altro canto, Contessa inizia a cimentarsi in nuovi ruoli; su tutti quello di produttore. E dimostra sin dal primo tentativo di possedere il tocco del Re Mida, mettendo la firma su uno dei dischi (o forse potremmo dire “il disco”) che cambieranno definitivamente il corso del pop italiano: “Mainstream” di Edoardo D’Erme, in arte Calcutta. L’esordio del cantautore di Latina rappresenta innegabilmente il punto di svolta più importante del canzoniere leggero dell’ultimo decennio, all’epoca ancora sacrificato all’appannaggio di un gusto risalente a due generazioni prima. Se è vero che, col senno di poi, possiamo affermare che per la musica nostrana esista un “prima” e un “dopo” Calcutta, è vero anche che prima di tutto esisteva Niccolò Contessa.
Innanzitutto, l’estetica di “Mainstream” beneficia dello sdoganamento di sonorità e poetiche che Contessa (non unico, ma con più impatto di qualsiasi altro suo contemporaneo) aveva espresso nei primi due dischi de I Cani. Rispetto a questi, il canone di Calcutta è epurato dalle frenetiche accelerazioni punk, ma mutua appieno l’imprinting di un sound che scarnifica la cifra pop nella cornice delle reminiscenze “indie”, attingendo allo stesso tempo a un lirismo minimalista e diretto, non erudito e citazionista quanto quello di Contessa, ma pienamente confacente alle forme di comunicazione giovanili postmoderne. Al di là della mera influenza stilistica, tuttavia, Contessa mette fattivamente le mani su “Mainstream”, in veste di produttore insieme a Marta Venturini.
La metamorfosi del pop italiano giunge così al definitivo punto di non ritorno, e Niccolò Contessa è il principale traghettatore e deus ex machina di questa transizione. La produzione per Calcutta si fermerà proprio a “Mainstream” (almeno in ambito di collaborazioni ufficiali), ma Contessa proseguirà la sua opera per altri artisti della scena nazionale. Degno di nota, in particolare, è il lavoro con Coez, altro nome di punta nel nuovo circuito commerciale, per il quale Contessa produrrà gli album di maggior successo (“Faccio un casino” e “È sempre bello”), contribuendo anche alla scrittura di diverse tracce. Si consolida così una intuizione (diventata poi a stretto giro dominante) del novello pop in abiti “indie”: quella di flirtare con il rap disimpegnato ed easy listening.

 

Intanto, però, Contessa non abbandona il suo lavoro da cantautore, partorendo, nel 2016, il terzo lavoro a nome I Cani.
Aurora ha tutto per essere il capitolo finale di una trilogia. Il capitolo più profondo, complesso, ed emotivamente devastante. Un senso freddo di fine assoluta da cui non c'è via di scampo, sublimato dal neon algido che si fonde con l'occhio perso nella galassia della copertina concepita da Valerio Bulla (bassista del gruppo ed ex-membro degli Ancien Regime).
Contessa compone un terzo atto pop raffinato e colto, tra “Protobodhisattva” e “Calabi-Yau”. L’elettronica tenue e morbida è predisposta a sorreggere i drammi e i dolori della voce narrante, pronta a fare i conti con “Il posto più freddo”. Aurora è un disco dominato dal senso di smarrimento, che sia quello delle modelle "Baby Soldato" a quello dell’autore che confessa:

Quindi basta cercare
La notte su Google il mio nome
Io non voglio più guardare
Dentro di me non c'è niente di niente
Miliardi di mondi esistono ancora
Miliardi di vite per fallire ancora

A spiccare ancora oggi, in un disco il cui ascolto scorre liscio e coerente, è la title track posta proprio nel cuore dell’opera e pronta a sfumare sul finale in quell'interferenza da vecchio modem.
Ma torniamo al senso della fine: la fine di una storia, la fine dell'universo. Il tono, però, è dolce, quasi composto nel raccontare. Il distico finale, introdotto dalla strumentale "Ultimo Mondo” schiera “Finirà” e “Sparire”. La prima riapre lo squarcio su un malessere cosmico, la seconda, con dolente dolcezza, fa calare il sipario sull'occhio nella copertina:

E stavolta quando chiuderò gli occhi non voglio sognare
perché pure a sparire ci si deve abituare

Che Aurora sia un grande disco di musica italiana (tra i migliori degli ultimi anni) è fuori discussione. Che sia o meno il capitolo finale di una trilogia questo al momento non è dato saperlo.
Negli anni a venire, Contessa diventerà sempre più evasivo; è del 2018 lo struggente singolo “Nascosta in piena vista”, che entrerà nella colonna sonora del film “Troppa grazia”, seguendo l’esperienza del brano “Torta di noi” scritto per “La felicità è un sistema complesso” (con tanto di nomination ai David di Donatello), e che prelude a un’intensa attività di produzione di musiche per il cinema (da ultimo, la colonna sonora per “I predatori” di Pietro Castellito, con nuova candidatura al David).
Le uniche successive uscite de I Cani si limitano a una manciata di brani pubblicati senza alcun preavviso (come ai vecchi tempi) su YouTube e SoundCloud: “Un altro Dio”, “Alla fine del sogno” (il cui titolo lasciava presagire lo spegnimento definitivo dei riflettori) e “Fiore”, che invece rinnova le speranze di un ritorno.
Proprio “nascosto in piena vista” è una definizione che sembra calzare a pennello a un personaggio come Contessa. Seppur inafferrabile e indecifrabile nelle sue intenzioni riguardo il futuro de I Cani, l'artista romano prosegue a pieno regime il suo lavoro da produttore. Altro giovane e talentuoso autore romano prodotto da Contessa è Giorgio Quarzo Guarascio, in arte Tutti Fenomeni. Entrambi i suoi dischi sono stati pubblicati dalla 42 Records e vedono gli originali tratti narrativi di Guarascio assecondati a dovere dal lavoro di Contessa. Tutti Fenomeni si muove con stile in un mondo in cui trap e cantautorato camminano di pari passo con giochi di parole e citazionismo colto, creando un mix vincente. Dopo i più che positivi riscontri ricevuti dall'esordio "Merce Funebre", il tandem si ricompone per il secondo atto ribattezzato "Privilegio raro”, dove gli arrangiamenti avvolgenti e compositi caratterizzano ogni brano, basti sentire lo splendido lavoro svolto per la title track o il tocco alla Daft Punk in "Il grande Modugno".

 

Nella speranza di sorprese che possano dare un seguito strutturato alla discografia de I Cani, ricordare il ruolo svolto da Niccolò Contessa nella scena pop italiana è un atto dovuto. Contessa ha rappresentato la personificazione di una profezia che si auto-avvera; la sua visione ha saputo cogliere tutte le sfumature del nuovo mondo, plasmate così in musica e storie che si agganciano a un’attualità che il pop italiano non riusciva in alcun modo ad afferrare. È stato a modo suo un iniziatore, un innovatore, un cantore generazionale, per poi dimostrarsi con l’avvento della maturità anche una delle più raffinate penne della canzone d’autore contemporanea.
Ma in fondo siamo cresciuti anche noi; forse ancora nichilisti ma senza più cocktail in mano, a rinchiuderci nel posto più freddo senza voglia di uscire la sera, a pregare qualcuno di rimanere con noi. Niccolò Contessa ha cantato innumerevoli storie che possono essere quelle della vita di ognuno di noi. Se tutto – come è giusto che sia – continuerà a evolversi e a cambiare, ce ne resterà comunque una traccia indelebile. E arriverà il momento in cui ci fermeremo e sentiremo tutta la nostalgia bussare alla porta.

Niccolò Contessa - I Cani

Discografia

Il sorprendente album d'esordio de I Cani (42 Records, 2011)
I cani non sono i pinguini non sono i cani (con Gazebo Penguins,To Lose La Track/42 Records, 2012)
Glamour (42 Records, 2013)
La felicità è un sistema complesso (ost, 2015)
Aurora (42 Records, 2016)
Troppa grazia (ost, 2018)
I predatori (ost, 2020)
Pietra miliare
Consigliato da OR

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