Ritmo Tribale

Ritmo Tribale

L'America al Leoncavallo

Espressione prima della scena underground legata ai centri sociali degli anni 80, quindi schegge impazzite nel decennio "indie" per definizione (i 90), i Ritmo Tribale di Stefano Rampoldi aka Edda sono stati una delle formazioni alt-rock italiane più dirompenti, tra vocazione hard-rock/hardcore e atteggiamento barricadiero e anarchico

di Antonio Lo Giudice

Ieri vs oggi

Qualche tempo fa, nella sezione alternative di un negozio di dischi usati a Monaco di Baviera, ho avuto un discreto colpo alle coronarie quando mi sono trovato davanti la copertina del 33 giri Kriminale, la terza (e migliore) opera dei Ritmo Tribale. Per chi ha fatto parte della mia generazione, il ricordo del video di “Sogna” o de “L’Universo” richiama il fertile periodo della scena indie nostrana della metà anni 90, anche se i Tribali venivano da ben più lontano, come testimonia il succitato Lp.
Già la cover dell’album cala nel contesto: la foto di un ragazzino che gira in una discarica attorno al CSO Leoncavallo, sul cui muro capeggia un graffito di Atomo (noto illustratore della scena punk-alternative milanese degli anni 80). Ma il meglio è l’immagine interna delle cinque impressionanti facce da tossici che componevano il gruppo. Per dirne una, Andrea Scaglia è identico a Larsen di Marco Del Noce… Tuttavia, nonostante i presupposti non proprio esaltanti, stiamo parlando di una formazione che, per genio o per caso, realizzò nella Milano da bere (e in quella bevuta) almeno due rivoluzioni musicali in perfetto sincrono (o quasi) con quello che, all’epoca, stava avvenendo negli States.

Huskers dei navigli

Se vogliamo definire il grunge (ammesso e non concesso che se ne possa parlare in termini di genere) come una pomiciata tra i Led Zeppelin e gli Husker Du (più contenti i secondi, immagino), i Ritmo Tribale sono stati grunge in tempi non sospetti, unendo la loro passione per il terzetto di Minneapolis (esplicata dalla cover di “Standing In The Rain”) a un rock tamarro di matrice italica che è, fondamentalmente, Jimmy Page filtrato da Ghigo Renzulli (o da Massimo Riva, se vogliamo), il tutto unito da un atteggiamento barricadiero e anarchico quasi genetico in un gruppo che nasceva e cresceva nella Milano del Virus e del “Leonka” - seppur, grazie al cielo, troppo istintivo per degenerare nella pedanteria.
Spesso si dice (con eccesso di generosità) che “Male di Miele” è stata la nostra “Smells Like Teen Spirit”. In tal caso, i primi Ritmo Tribale furono i Green River dell’indie italiano, fungendo da apripista negli anni 80 per tendenze musicali che troveranno nel decennio successivo la loro massima popolarità. Non a caso, nonostante il loro successo in patria sarà sempre inferiore rispetto a quello di molti altri gruppi coevi (in primis i loro “fratelli minori” Afterhours), non mancheranno ai Tribali riconoscimenti oltreoceano, seppur blandi.

Si è già citato lo spazio autogestito Virus di via Correggio, protagonista del bellissimo libro “Costretti a sanguinare” di Marco Philopat: nel testo, che comunque prende in considerazione esclusivamente la scena punk e non oltre la prima metà degli anni 80, non vengono citati i Ritmo Tribale, ma è di certo in quell’ambiente che l’allora quartetto (Andrea Scaglia voce e chitarra, Stefano “Edda” Rampoldi voce e basso, Fabrizio Rioda chitarra e Alex Marcheschi batteria) formatosi nel 1984 inizia a farsi le ossa ed è tramite una pubblicazione legata al Virus che il gruppo esordisce discograficamente nel 1987. Si tratta di uno split in cassetta con gli sperimentali F:A:R: allegato alla fanzine Amen This Is Religgion. A parte la registrazione, poco più che amatoriale, quello che colpisce negativamente del lavoro (ma mi rendo conto che il giudizio è influenzato dalle opere successive) è la sua scarsa incisività. Il gruppo sembra votato più a un hard-rock di stampo italiano solo vagamente spruzzato di punk. I brani sono cantati da Scaglia e Edda, ma quest’ultimo non fa ancora sfoggio della voce isterica che lo caratterizzerà in seguito, cercando piuttosto un registro pulito abbastanza anonimo.

I brani, tuttavia, ci sono, e nell’esordio maturo, A bocca chiusa (1988), alcune composizioni della precedente cassetta troveranno una migliore veste, a partire dalla title track che, dopo un’inquietante introduzione di tuoni chitarristici, parte con alcuni accordi secchi e urgenti che salgono fino a raggiungere le urla liberatorie dei due cantanti. Siamo sempre in territorio più rock che punk e ce lo ricordano le chitarre brillanti di “Strano”, ma soprattutto “Circondato” che chiude il lato A del vinile con una grandeur quasi da stadio- e non oso immaginare la reazione del pubblico nei loro numerosi concerti a questo perla da Springsteen alternativo, sentita fino all’osso. È proprio quest’ultimo brano, assieme a quello di apertura, a far meritare l’acquisto del disco. Il resto è mancia, pure abbondante, come la ballata acustica con disturbi elettrici di “Bandiere” e la conclusiva “È giunta l’ora”, sparata a rotta di collo dallo stereo.
Le due voci cominciano a interagire alla perfezione: se si vuole fare un paragone sempre relativo alla scena di Seattle (seppure con un gruppo che, nel 1988, ancora non esisteva) Andrea Scaglia è Jerry Cantrell (quadrato, melodico e quasi classico), mentre Edda sarà sempre uno spirito affine a Layne Staley, seppur con l’aggiunta di idrolitina – e non solo per la passione per le siringhe che interromperà la carriera del primo per ben quindici anni e porterà velocemente nella tomba il secondo.
L’ingresso in squadra del bassista Andrea “Briegel” Filippazzi dopo l’uscita di A bocca chiusa permetterà a Stefano di concentrarsi sul cantato e, soprattutto, sul ruolo di frontman, che svolgerà sempre in maniera egregia, muovendosi sul palco come un ossesso posseduto da qualche entità primordiale (o come uno a cui hanno svuotato un formicaio nei pantaloni, fate voi) e rendendo ogni concerto un’esperienza visiva unica.

Passa un anno (on the road, ovviamente) e la nuova formazione a cinque entra negli studi Bips di Milano per registrare il già citato capolavoro Kriminale. Il gruppo sposta qualche chilo sul piatto punk della bilancia, pur senza rinunciare all’appeal melodico e alla profondità del suono di matrice hard-rock. Dopo una breve introduzione di pianoforte, partono gli accordi schiodasedere della title track. Dalla cabina di regia pare che qualcuno abbia detto a Edda di divertirsi fregandosene dello stile. Grazie a dio l’ha preso in parola e, in questo disco, ci regala una prova monstre: la sua voce acuta e leggermente nasale caratterizza ogni singolo solco del 33 giri (anche le canzoni cantate da Andrea Scaglia sono impreziosite dai suoi “uooooooo!” di sottofondo) e il suo modo di annichilire le consonanti ingigantendo le vocali, lungi dal sembrare un difetto di pronuncia, ha il doppio pregio di rendere il suo cantato caratteristico e di nascondere le ingenuità dei testi, lasciando intendere un vitale disagio di cemento e periferia. Sono tragicamente rock le parolacce gratuite della fulminante “Vorrei/ Non vorrei”, di evidente ispirazione Husker Du, mentre nella più variegata “La città” fanno la loro comparsa le tastiere acide di Luca Talia Accardi - che nell’immediato futuro diventerà il sesto membro del gruppo, ma in Kriminale è ancora soltanto un ospite.
Impossibile trovare un brano sottotono o anonimo: funzionano le ballate, sia elettriche (“Angelo”) che acustiche (“Uomini”), e brani più irruenti ti si schiantano addosso lasciando il segno. Impossibile non citare i fulminanti cambi di tempo della title track, il flirt con il metal di “Anarchia”, il blues velocizzato di “Guilty” (ancora le tastiere di Accardi sugli scudi) e la conclusiva “Julian” oscura e dal crescendo sopra le righe.

Qualcuno si accorge che a Milano c’è un gruppo che, nonostante le sue peculiarità italiane, non sfigurerebbe nella migliore scena alternativa americana (e, riferendoci a quella degli anni 80, parliamo di una delle più valide di sempre) e così Kriminale riceve un’ottima recensione su Maximum Rock‘n’Roll e i tribali hanno modo di suonare a New York nell’ambito del New Music Seminar, oltre che in giro per tutta l’Europa. Basterebbe questo scorcio di carriera per farne una band oltremodo degna di nota.

Crossin’ Over

Nei primi anni 90 il crossover (nel senso limitato di contaminazione di hard-rock/heavy metal con altri generi apparentemente incongrui) era una realtà consolidata nell’underground, ma con poche sortite nelle zone alte delle classifiche (tra queste “Epic” dei Faith No More, “Give it Away” dei Red Hot Chili Peppers e, ovviamente, i Beastie Boys - per quanto l’importanza di un capolavoro come “License to Ill” verrà riconosciuta solo a posteriori) di cui, invece, diventerà frequentatrice stabile a partire dalla seconda metà del decennio. In Italia, prima del successo dei Subsonica, parlare di “crossover” era decisamente pionieristico: ci avevano provato in pochi e quasi sempre per scherzo (i Truzzi Broders con “Disoccupato Rappò”) o per provocazione (i Bulldozer aspettarono di sciogliersi per registrare il singolo “Dance Got Sick”) - senza contare pasticci “jovanilistici” che, chi avrà voglia e argomenti, prima o poi rivaluterà.

Questa premessa per far immaginare l’impressione che dovette fare al pubblico italiano l’ascolto di “Ti detesto”, brano che apriva l’Ep Ritmo Tribale del 1991: ritmo martellante di batteria, campionamenti, schitarrate prima metal e poi funk a creare una base su cui Scaglia fa sfracellare il suo rap (tecnicamente ai limiti del ridicolo, va detto), mentre Edda sussurra, sibila e ulula in sottofondo. Bastano pochi minuti e il sestetto porta a termina un’ennesima rivoluzione. Il resto dell’Ep piazza qualche altro buon brano- da segnalare “Il Lupo”, con influenze dark-wave e il blues alcolico di “Votate Me”- ma è soprattutto l’opener a farsi ricordare.

Sembra proprio che il gruppo abbia intrapreso un nuovo cammino che avrà, in parte, coerente seguito con Tutti vs tutti (1992), dove al sound originario si aggiungono elementi black e, rispetto all’esuberante caos di Kriminale, cominciano a emergere le sagome dei loro lavori più maturi. Che il suono si tinga di nero (del tipo di cui qualcuno avrebbe voluto la pelle) lo si capisce dai funk iniziali – cattivissimo e innervato di metal “X Me”, mentre il più classico “Stato di rovina” sfoggia una sezione fiati e un inizio alla Gang of Four. La lenta e massiccia “Mother” e la più agitata “See Me” riportano il gruppo su coordinate maggiormente hard-rock oriented.
La splendida ballata elettrica “Domina” diventerà un classico delle loro esibizioni live e, in seguito, di quelle di Edda solista, mentre “Maya” è puro tamarrock in stile Litfiba mark 2. Il disco, in generale, è molto più ragionato delle opere precedenti e, se da un lato continua timidamente il percorso di contaminazioni del precedente Ep, dall’altro lato sembra indeciso sulla direzione da prendere. La più classica opera di transizione, insomma.

Spiritualità krishna e psicosi soniche

Nel frattempo, gli anni 90 sono sbarcati persino in Italia. Sulla compianta Videomusic (prima del suo acquisto e successiva soppressione da parte di Cecchi Gori, che aprirà il campo anche da noi alla massificante Mtv) passano video di Afterhours, Timoria, CSI, Negrita, Elio e le Storie Tese, Marlene Kuntz, Massimo Volume, Karma, Ligabue, Fluxus... una nuova scena rock alternativa (almeno finché buona parte dei summenzionati artisti non raggiungerà il successo) ha preso il posto di quella disastrata e affascinante del decennio precedente.

I Ritmo Tribale sono ancora della partita e non hanno nessuna intenzione di passare per sopravvissuti. Ma, anzi, cercano, e trovano, nuova ispirazione da gruppi americani coevi (Soundgarden in primo luogo, ma anche i Kyuss), asciugano il loro sound da ogni residuo punk e crossover, e, con Mantra (1994) ci regalano un bel monolite di chitarroni distorti e trip saliti male dal groove onnipresente.
Qualche pausa è concessa da alcune ballate come l’indolente singolo “Sogna”, ma, per il resto, in tutto il disco, dall’imponente opener “L’assoluto” alla sperimentazione di “Il male” passando per le chitarre a bagno nell’acido di “Antimateria” e la bizzarra cover di “Il cielo è sempre più blu”, i sei calano pesantemente le mani sull’ascoltatore per schiaffeggiare o stringere. Dai testi scompaiono quasi del tutto i temi sociali e le liriche si fanno più personali e spirituali (Edda è di religione krishna) mentre il cantato risulta decisamente più intelligibile rispetto al passato.
Il disco ha un buon successo di pubblico (anche se, all’epoca, le aspettative per i gruppi che provenivano dai circuiti indie cominciavano a essere alte) e i concerti dei Nostri sono sempre molto affollati e coinvolgenti. Solo la critica accoglie Mantra in maniera freddina, ma si dovrà ricredere due anni dopo davanti al (secondo) capolavoro della band.

Psycorsonica (1996) porta a maturazione le intuizioni dell’opera precedente, smussando un po’ gli angoli e personalizzando l’approccio alla psichedelia. Il disco vive di chiaroscuri tra brani possenti (la fantastica “Oceano”, che apre maestosamente il disco, oppure le coinvolgenti “Disincentivato” e “Invisibile”, senza contare il vortice rumoristico di “Yamuna”), momenti sperimentali (“Psycho”, quasi dub) e alcune delle più belle ballate che la scena alternativa italiana abbia partorito: la sofferta “Due milioni”, la sognante “Dodici linee” (con citazione di “Wooden Jesus” dei Temple Of The Dog), l’intimista e avvolgente “Assorbimi”, fino a quella perla psichedelica che è “Universo” (anche singolo apripista, nonostante lo scarso appeal commerciale).
Se in Kriminale o Mantra si respirava un’aria internazionale, soprattutto per le evidenti influenze da oltreoceano, quest’ultimo disco suona completamente italiano, in quanto opera totalmente personale di una band nostrana.  In qualche modo, Psycorsonica è un punto di arrivo - e, infatti, nel tour successivo alla sua pubblicazione, verrà giù la tegola che preannuncia il crollo della casa.

Viaggio alle Bahamas senza ritorno

Facendo uso e abuso di luoghi comuni (in questo caso, però, veritieri), non si sa se l’abbandono di Edda durante il tour di Psycorsonica sia dipeso dalle classiche “esigenze personali” o dai più quotati “problemi di droga”. Probabilmente hanno inciso entrambe le questioni, ma fatto sta che sostituire un frontman come lui non è impresa da poco. E, infatti, il gruppo neanche ci prova: d’altronde un (ottimo) cantante ce l’ha già in formazione. Andrea Scaglia rispolvera la sua voce scartavetrata, alquanto sotto-utilizzata nelle ultime prove, e i tribali, dopo essersi riorganizzati, registrano Bahamas (1999), quella che sarà la loro ultima prova.
Com’è? Diciamo volenteroso... Il gruppo colpisce soprattutto quando preme sull’acceleratore: il singolo apripista “Duemila”, imbevuto di elettronica, fa ben sperare, ma, purtroppo, resterà il miglior episodio dell’album. Il resto non suona sgradevole, ma un tantino anonimo sì. Tuttavia il problema fondamentale resta quello dell’assenza: tornando al paragone con gli Alice In Chains, per quanto Jerry Cantrell fosse dotato di una bellissima voce, era Staley a caratterizzare la band che, senza di lui, ha perso la sua anima (infatti, la recente nuova uscita del gruppo di Seattle, pur gradevole, è un lavoro assolutamente dimenticabile, proprio come Bahamas) e lo stesso si può dire per i Ritmo Tribale con Edda.

Dal vivo, poi, la mancanza di Stefano e della sua epilessia da palco si fa insostenibile e, così, i cinque decidono di alzare bandiera bianca, prima di rovinare la meritatissima fama guadagnata in 15 anni di storia con un prosieguo eccessivamente scialbo. A dirla tutta, un tentativo di reunion c’è stato nel 2007, ma, fortunatamente, non ha prodotto altro che qualche concerto e l’uscita di una raccolta dal titolo Uomini.

Chiusa l’operazione nostalgia, i Nostri hanno deciso saggiamente di riorganizzarsi assieme all’ex-Afterhours Xabier Iriondo (ma senza Fabrizio Rioda) nel progetto NoGuru, che ha esordito nel 2010 con l’album “Milano Original Soundtrack”, ispirato alla new wave più sghemba e rumorista. Tuttavia, il vero botto (artisticamente parlando) lo farà, in quegli stessi anni, il loro ex-sodale.

Un ponteggio dal nulla

Alzi la mano chi, sul finire degli anni Zero, si chiedeva che diavolo di fine avesse fatto Stefano Rampoldi in arte Edda! Pare che, dopo il 1996, abbia intrapreso inizialmente l’occupazione di eroinomane (che, come ci è stato insegnato da “Trainspotting”, è un lavoro a tempo pieno) e, dopo la sua disintossicazione, quella di muratore. Lui alla musica non ci pensava (quasi) più e la musica, irriconoscente, ricambiava. Questo fino all’incontro con il compositore Walter Somà e il musicista Andrea Rabuffetti che lo spingono a rimettersi in gioco. E così, nel 2009 - a tredici anni dalla sua “scomparsa” - cominciano a girare su YouTube alcuni estratti dal suo primo album solista “Sempre Biot” ed è un ritorno che graffia il cuore.
Il frontman tarantolato dai capelli lunghi fino al sedere non esiste più, e al suo posto troviamo un artista dalla testa brizzolata che suona seduto la sua chitarra acustica accompagnato da pochi e azzeccatissimi suoni (la produzione di Taketo Gohara è da manuale). Certo, la voce è quella: acuta e leggermente nasale, non un fenomeno di dizione, ma pulsante di vita e sentimento. E i brani sembrano scritti con il sangue, fin dalle iniziali “Io e te”, impreziosita dal violino di Mauro Pagani, e “Milano”, malinconica elegia sospesa nel nulla alla sua città. “Bella come la Luna” gronda di disperata passione, mentre la title track conclude il disco in maniera lievemente più allegra, come una straniante ninna nanna.
Ogni brano, però, meriterebbe una citazione, in quanto pezzi di un mosaico che va formare quello che, a parere dell’autore, è il più bel disco italiano dello scorso decennio (assieme all’esordio del Teatro degli Orrori).

Tre anni, qualche raro concerto (dato che, nel frattempo, l’attività di muratore non è stata abbandonata) e un Ep live dopo, “Sempre Biot” trova un seguito (estremamente valido, ma non altrettanto) con “Odio i vivi” (2012), in cui il suono del Nostro viene rimpolpato da qualche distorsione, lasciando però intatta la poesia minimale dell’esordio, seppure in una forma leggermente più ostica e pessimista (“Odio i vivi/ ho i miei motivi ma li tengo per me” oppure “I miei amici hanno figli figli figli... io sempre fame”).

Si può indiscutibilmente parlare di nuova realtà della musica italiana, un aggiornamento al nuovo millennio della figura del cantautore, anche se l’impressione è che Edda sia e rimarrà unico nel suo genere.
In ogni caso, è lui che sta dando l’unico meritevole seguito all’avventura dei Ritmo Tribale, un gruppo che ha attraversato i decenni assecondando con intelligenza e creatività i cambiamenti musicali e raccogliendo sempre meno di quanto avrebbe meritato.

Ritmo Tribale

Discografia

Allegato Sonoro - Amen This Is Religgion N° 5 (cassetta split con i F:A.R. - THX 1138, Amen Productions, 1987)
A bocca chiusa (Radio Base 81, 1988)
Kriminale (Vox Pop, 1989)
Ritmo Tribale (Ep, Vox Pop, 1991)
Tutti Vs. Tutti (Dsb, 1992)
Mantra (Black Out, 1994)
Psycorsonica (Mercury, 1995)
Bahamas (Edel, 1999)
Uomini 1998-2000 (antologia, V2, 2007)
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