01/03/2006

Lou Reed

Auditorum Sala S. Cecilia, Roma


Nel febbraio del 1982, la “maschera blu” di Lou Reed canta: “Se avete bisogno di uccidere qualcuno, sono un uomo che manca di volontà”.
In realtà, a 64 anni suonati, di volontà ne ha davvero da vendere “l’animale del rock and roll”.
Nessun nuovo album da proporre né tantomeno l’intenzione di organizzare una rimpatriata rock come quella recente dei Pink Floyd, Lou Reed non è un juke-box umano o un nostalgico menestrello che vive di rendita musicale. Lo spirito del punk aleggia dietro il suo completo menefreghismo riguardo a cosa la gente vorrebbe ascoltare in un suo concerto.
Sono passati più di trent’anni, ma l’ego gigantesco di “Metal Machine Music” è rimasto intatto. “Un mio giorno vale più di una vostra settimana”.

Certo, ci sono più rughe sul viso, ma la fredda indifferenza è sempre viva; è cresciuta una bella pancetta, ma la consapevolezza dei propri mezzi non è rimasta scalfita.
Sono tutti questi aspetti che portano uno come lui a riempire le sale da concerto di mezza Italia, pur snobbando del tutto qualsiasi brano dei Velvet Underground o del suo trasformista periodo glam.
Non risulta, quindi, così inspiegabile la svogliatezza estrema con cui esegue “Sweet Jane” alla fine della serata all’Auditorium di Roma. Reed sembra quasi dire alla sua platea: “Ok… ho capito… ma lo faccio soltanto per farvi un favore”.
Tra il pubblico della Sala S. Cecilia serpeggiano delusione e nostalgia. Sessantenni in “chiodi”, testimoni di una generazione che non ne vuole sapere di mollare la presa sul presente; ventenni stranamente eleganti che siedono per rendere onore al “grande vecchio”, impauriti dalla reale minaccia di “non poterlo più vedere dal vivo”. Generazioni unite dalla speranza di ascoltare le stesse canzoni: “Heroin”, “Venus In Furs”, “Perfect Day”.

Ma questa sera, Lou Reed non è “l’ex Velvet” né il Frank Sinatra depresso di “Berlin” o il nichilista di “Street Hassle”. “L’uomo di New York” è semplicemente se stesso: un’artista completo, eversivo, un decadente poeta rock che vuole affermare con forza la propria multiforme identità musicale.
Sono passate le nove quando il “nostro uomo” si presenta sul palco e, schivo come sempre, comincia la rollingstoniana cavalcata di “Paranoia Key Of E”. Ad accompagnare il suo “Winter Rock Tour”, i fidi compagni di mille avventure sonore: la chitarra precisa di Mike Rathke, la tonitruante, elefantiaca batteria di Tony Smith, il basso eccelso di Fernando Saunders e il gradito rientro del vecchio Rob Wasserman al contrabbasso.
L’idea è, quindi, quella di tornare alle radici del rock torrido, pilotato in feedback e distorsioni per una rivisitazione in chiave punk del suo repertorio più recente.
Brillante la ripresa di “Sword Of Damocles” e “Gassed And Stoked” da “Magic And Loss”, dove tutta la band inizia un gioco di improvvisazioni sul momento al limite dell’impostazione jazz.

E’ vero, Reed non è mai stato un virtuoso della chitarra e, forse, in certi momenti, ha anche esagerato, ma ha reso perfettamente quell’effetto di stridore che ti assale in modo lancinante fino a costringere una delle signore impellicciate a coprirsi le orecchie con le mani.
I lunghi assoli sono i principi che governano questa serata, data anche la soddisfazione dello stesso Reed per l’acustica della sala.
Meno efficaci, invece, i momenti più blandi della scaletta, quando Lou affida a Saunders la controparte vocale (e il bassista sa essere veramente melenso, al limite della noia). “The Day John Kennedy Died”, “Tell It To Your Heart” e “Why Do You Talk” scorrono troppo lunghe e non riescono a emozionare sul serio.
L’esibizione raggiunge il suo apice in due momenti precisi. “Rock Minuet” si dilata all’infinito tra pause e riprese, accelerazioni distorte, furenti e dolci, melodici accordi. “My Red Joystick” (da “New Sensations”, uno dei dischi peggiori di Reed) sorprende con una jam in bilico tra punk, metal e funk con un grandissimo Rathke al suo primo, lungo assolo.
Finale con “Who Am I”, rovinata dall’inutile show di Master Ren (esperto di arti marziali).
Applausi scroscianti, inchini: il concerto sembra finito del tutto.

Poi il “grande vecchio” ritorna. Eccolo, il favore che fa a Roma: “Standing on the corner… suitcase in my hand”.
Sarà anche che la sua giornata vale più di una nostra settimana, ma, ascoltando questi tre accordi immortali, le nostre due ore valgono un’intera vita.

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