17/05/2007

Pere Ubu

Auditorium Flog, Firenze


Stando a racconti e foto, David Thomas lo immaginavo gigantesco, molto più grande di un uomo normale. Doveva essere immenso, sovradimensionato come certi cattivi dei cartoni animati, quelli dotati di una forza prodigiosa. Invece è grande, sì, ma rientra tranquillamente nei parametri umani. Questa è l’unica delusione della serata.

Il sottoscritto era finora uno di quelli convinti di importanza, bellezza e blablabla della proposta musicale di Thomas nelle sue molteplici sembianze, Pere Ubu in testa. Quello che ancora mancava era la fede, l’arrendersi incondizionato. E’ servito un concerto. E’ bastato esserci, toccare con mano, sentire dal vivo.
La band comprende una sezione ritmica che picchia realmente duro (Steve Mehlman, il batterista, mostra fiero tatuaggi di Bauhaus e Einstürzende Neubauten: buon inchiostro non mente), il Pale Boy Keith Moliné alla chitarra e Robert Wheeler dietro un vecchio sintetizzatore e un theremin dalla forma alquanto singolare, costruito da lui stesso.

L’uomo entra quando gli altri hanno già cominciato a suonare. La lunga giacca nera, un cappello, lo sguardo serio rivolto verso il basso, una valigetta in mano dalla quale estrae un libretto che colloca su un leggio. Sull’asta del microfono c’è anche una cornetta del telefono, usata di tanto in tanto per far uscire una voce effettata e ancor più nasale.
Il suono che si materializza è quello che abbiamo imparato a conoscere negli anni. Dapprima new wave più per contingenza che per convinzione, poi tendente a una classicità diagonale che porta avanti il discorso rock sulle strade, raramente battute, di una sorta di classicità avant. O di un avant a suo modo classica, legata a radici profondamente americane.

Poco importa che il repertorio sia in gran parte recente o recentissimo (ma c’è spazio anche per una cover: “Sonic Reducer” dei Dead Boys). Su tutto regna la figura imponente di David Thomas, il suo sguardo rosso dietro il quale la scintilla è ancora un fuoco. E’ lui, ed è ancora l’iconoclasta, il clown, la tragedia, l’intellettuale, il pagano. Qualsiasi cosa faccia non puoi smettere di guardarlo. Che apra la sua fiaschetta, che la riempia nuovamente a metà concerto perché già svuotata, che si sieda e si asciughi, che si scoli lattine di birra spaccandosele poi in testa, che conduca il gioco con quell’atteggiamento fieramente anti-realistico, o iper-reale, che tiri fuori espressioni assurde. Tutto è formidabilmente contenuto in quella visibilissima tensione tra un corpo che risponde placidamente anche agli impulsi più distruttivi e una mente in continuo, frenetico movimento.
Su “The Modern Dance”, ovviamente accolta come il Messia dai presenti, sembra che stia malissimo, fra tosse e pianti disperati terribilmente verosimili. Si andrà via con il dubbio: tutto vero o sublime messinscena?
I suoi discorsi fra un brano e l’altro  sono filastrocche recitate con un’innaturale vocina in falsetto, bubbling incomprensibili, oppure surreali storie umoristiche in cui Elvis gli detta un hit (“sono passati molti mesi e questa canzone ancora non ha avuto alcun successo: Elvis mi ha mentito, o forse non era davvero Elvis”). O in cui gli amici suggeriscono a David di scrivere qualche pezzo più impegnato, e lui scrive una canzone “sulle foreste pluviali: come bruciarle tutte”.

Come se non bastasse già quello che vediamo sul palco, su “Final Solution” ci troviamo pure a pogare(!) insieme a uno scatenatissimo Piero Pelù(!!), apparso fra il pubblico da chissà dove.
Poi arriva quello che Thomas chiama “il mio momento preferito”: la fine del concerto, l’ora di sprofondare in un letto d’albergo. Saluta tutti su una lunga versione di “Love Song” (incendio, quiete e presentazione della band, incendio e infine silenzio). Poi ordina al pubblico di dividersi in due per farlo passare, come se fosse le acque del Mar Rosso e lui Mosè, e si mette a vendere l’ultimo cd della band (“Why I Hate Women”, un anno di vita), firmare autografi e scambiarsi battute.

A qualche tempo di distanza, il lascito più stupefacente di questo concerto è la sua sedimentazione nella coscienza. Per giorni non ho potuto smettere di riflettere e pensare a quale spettacolo avevo assistito. Lasciate stare quei quattro imbecilli vestiti da fighetti più o meno indie: il rock è questo tizio, pericolosamente in bilico fra genio e cirrosi epatica.

Setlist

  1. Slow Walking Daddy
  2. Two Girls (One Bar)
  3. Babylonian Warehouses
  4. Caroleen
  5. Electricity
  6. Flames Over Nebraska
  7. Folly Of Youth
  8. The Modern Dance
  9. Perfume
  10. Phone Home Jonah
  11. Sad.Txt
  12. Sonic Reducer
  13. Stolen Cadillac
  14. Wheelhouse
  15. Dark
  16. Final Solution
  17. Mona
  18. We Have The Technology
  19. Street Waves

Pere Ubu su Ondarock