Ricordo perfettamente i 150 chilometri percorsi al buio. Ricordo la fatica fatta per orientarmi all'interno dell'aperta campagna trevigiana: la location del concerto è una vecchia filanda persa nel nulla, splendido esemplare di archeologia industriale. Ed è davvero adatta per ospitare la musica di Carla Bozulich, un rudere cupo e sporco che si erge sulle fondamenta di un folk ormai dimenticato. Ricordo il mio arrivo di fronte al palco, e il mio compiacimento nell'osservare la strumentazione lì presente, a metà tra formazione da camera e attrezzatura post-rock.
Poi, da quando Carla e gli Evangelista sono saliti sul palco, i ricordi si fanno confusi. Perché questa musica ti rapisce, ti mastica e ti risputa, lasciandoti senza nessun punto di riferimento: un caos psichedelico che ti mette sottosopra, tanto che può essere raccontato iniziando dalla fine e finendo con l'inizio.
Lo show dura poco, appena un'ora e un quarto, encore compreso. Ma l'ultima canzone è una di quelle che vanno metabolizzate: la delirante title track di "Hello, Voyager" vede la Bozulich recitare una disperata confessione (o forse un avvertimento?), accompagnata dalle cacofonie di organo e violoncello che risentono evidentemente dell'influenza dei Velvet Underground.
Durante la serata Carla parla poco, quasi sempre sottovoce. Ringrazia il (poco) pubblico, dice (come sempre) di essere felice di suonare in Italia, si scusa per i problemi alla schiena che le impediscono di scatenarsi sul palco. Nonostante ciò, sono la sua voce e la sua band a scatenarsi.
Prendiamo ad esempio "Pissing", una delle più indecifrabili opere dei Low, che si amalgama perfettamente con il repertorio classico dell'ex-Geraldine Fibbers. Inizia sommessa, con un triste e martellante Si minore che sembra non finire mai: "I can't see..." sibila Carla, creando un'empatia tra sé e lo spettatore che porta quest'ultimo a ritrovarsi smarrito nel buio, alla ricerca di una via d'uscita. Il passaggio al Re maggiore sembra offrire a tutti un happy ending, ma è solo momentaneo. Il volume si alza, la voce da sospiro diventa urlo: "...lovers sleep alone. Alone...ALONE!", il pubblico viene nuovamente lasciato solo, in balia di un'orgia di feedback che mette a dura prova l'udito. Viene da pensare che gli Evangelista abbiano imparato la lezione di "Sister Ray" quando il basso distorto di Tara Barnes gareggia con organo, violoncello e percussione a chi riempie maggiormente di suono la vecchia filanda.
Il cuore della setlist è, inevitabilmente, "Evangelista I". Questa canzone, su cd, dura una decina di minuti, ma nella sua versione live è impossibile dire per quanto si protragga: potrebbe essere un attimo come un'eternità. Carla scende dal palco, cammina lentamente a un palmo di naso dal pubblico, e, come un moderno sciamano, recita quasi in trance i suoi versi, alternando con maestria sussurri e grida: il pathos raggiunge il suo apice quando tutti gli Evangelista, in contemporanea, fanno esplodere uno tsunami strumentale che investe senza pietà l'uditorio attonito.
Questa è una musica difficile, fatta di lacrime e sangue, come è stato detto. E' necessario trovare una chiave di lettura per decifrare una simile giungla sonora, e tale chiave forse la offre la stessa Bozulich quando, al termine di "Evangelista I", attende che ritorni il silenzio per pronunciare una sola parola: "Love".
L'opera di Carla Bozulich potrebbe quindi essere una traduzione rock del più misterioso tra i sentimenti: quello che tranquillizza, inquieta e ipnotizza; quello che permette sogni sereni e che impedisce di dormire; quello che può essere invocato con un sospiro e odiato con un grido.
Un caos che mette sottosopra, abbiamo detto, tanto che può essere raccontato iniziando dalla fine e finendo con l'inizio. Allora questo racconto, come ogni favola, potrebbe cominciare così: "C'era una volta l'amore"...
(foto di Nico Covre)