12/10/2012

Wilco

Teatro della Concordia, Venaria (TO)


Raccontare un concerto degli Wilco senza scadere in sterile retorica è sempre un’ impresa assai ardua. Come documentato dall’imperdibile live album “Kicking Television” ormai sette anni orsono, la band di Chicago è esempio lampante di come una scrittura già di livello eccelso possa coniugarsi sul palco con perizia tecnica e capacità interpretativa.
Nonostante gli sperimentalismi che li hanno imposti come alfieri del rock americano indipendente dell’ultimo decennio, gli Wilco non hanno mai occultato le proprie radici, ma sono sempre stati in grado di amalgamarle nel loro personalissimo microcosmo e svelarle ancor più efficacemente in performance sanguigne dalla potenza emotiva devastante.

220x270_i_09Queste sono le premesse con cui il pubblico di Venaria accoglie la terza e ultima tappa di un mini-tour italiano iniziato due giorni prima con le date di Padova e Firenze. La location scelta è il Teatro della Concordia, struttura non particolarmente capiente (circa 1.500 posti), ma intima quanto basta per esaltare il concerto come momento di raccoglimento e, dettaglio non trascurabile, dotata di un’ottima acustica.
Mentre il teatro è ancora in attesa di riempirsi (alla fine l’affluenza sarà ottima, pur senza arrivare al sold out) fanno il proprio ingresso in scena gli Hazey Janes, quartetto scozzese fautore di un indie-rock estremamente debitore del lato più springsteeniano degli Arcade Fire. Altalenante la loro scaletta, in cui si alternano cavalcate estremamente piacione, ma, tutto sommato, godibili (tra cui il singolo “New York”, posto sapientemente in chiusura) e clamorose sviste di un songwriting che, fra tronfie colate di synth e reumatiche country-ballad, fatica a trovare la propria collocazione. Stenta poi a convincere la voce del frontman Andrew Mitchell, tecnicamente valida, ma talmente accomodante da risultare impalpabile.

220x270_ii_07Alle 21.30 in punto le luci si spengono per la seconda volta e finalmente sono gli Wilco a impadronirsi del palco, accolti da un’ovazione che testimonia con quanta passione sia seguita la band dalle nostre parti. Passione subito giustificata da un’apertura stordente in cui ci trova subito a fare i conti con passato e presente del lato più inafferrabile dei Nostri, quello delle divagazioni “cosmiche” che smembrano la ballata pop nel classico “Misunderstood” e si dilatano ulteriormente nello stream of consciousness di “Art Of Almost”, highlight assoluto dell’ultimo “The Whole Love”.
Della band, che come al solito si muove in maniera magistrale, colpisce un’integrazione ancora maggiore dell’estro di Nels Cline, chitarrista tanto virtuoso nella tecnica quanto sensibile negli arrangiamenti, vera e propria punta di diamante di un mostro a sei teste che ha pochi eguali nel rock contemporaneo. Fra suoni curati nei minimi particolari e una precisione chirurgica nell’esecuzione, tutto appare straordinariamente perfetto nella prima parte del set, ma forse fin troppo. Complice infatti la scelta di mettere subito in terza posizione un brano insipido come “Standing O”, la band appare sì in ottima forma, ma non in grado di sprigionare quella forza dirompente che da sempre caratterizza le sue esibizioni.

220x270_iii_05Addirittura anche il capolavoro “I’m Trying To Break Your Heart”, pur suonato con un pilota automatico di livello superiore, risente di un’eccessiva compostezza nell’interpretazione. Ma proprio quando la catarsi sembra destinata a lasciare posto ad un eccellente mestiere, improvvisamente, accade qualcosa. Su un sottofondo di fan pronti a cogliere un attimo di silenzio per suggerire i brani da inserire in scaletta, Jeff Tweedy, con apparente noncuranza, imbraccia l’acustica e accarezza i primi tre accordi di “Sunken Treasure”. Nel momento in cui la sua voce strozzata intona i primi versi “There’s rows and rows of houses with the windows painted blue, with the light from the T.V running parallel to you” il tempo sembra dilatarsi ed è come se iniziasse un altro concerto: Glenn Kotche traccia un attacco che è come un pugno nello stomaco, mentre la performance canora di Tweedy è talmente struggente che ci si accorge a malapena di un nuovo, sontuoso arrangiamento di synth da parte di Jorgensen.

220x270_iv_05Il cambio di registro appare chiaro nella successiva, dinamitarda versione della recente “Born Alone”, mentre una “Laminated Cat” recuperata addirittura dal debutto dei Loose Fur, funge da preludio per una “Impossible Germany” che è scroscio di applausi a scena aperta. Le tre chitarre di Tweedy, Cline e Sansone preparano i soliti, deliziosi intrecci armonici prima che sia il solo Cline ad imporsi con un’improvvisazione memorabile che lascia trasparire la sua impostazione jazzistica. Tweedy, insolitamente su di giri, dedica sorrisi e dimostrazioni d’affetto al pubblico che diventa protagonista cantando in coro la prima strofa di una “Jesus etc.” suonata in punta di piedi con classe ineguagliabile. E se certamente non sfigura una frizzante “Whole Love”, positivamente contagiata dal mood della serata, semplicemente irresistibile risulta una sequenza incendiaria in cui sfilano senza un attimo di sosta “Handshake Drugs”, “War On War”, “I’m Always In Love” e “Heavy Metal Drummer”.
Solo il contagioso vaudeville di “Hummingbird” concede un po’ di respiro prima che “A Shot In The Arm” chiuda la prima parte di set con un’altra pietra miliare.

220x270_v_03Gli Wilco non si risparmiano nemmeno durante gli encore: prima è “Via Chicago” a strappare ovazioni con il suo geniale mix di melodie pop, escursioni rumoristiche e silenzi improvvisi, poi spetta ad una rilettura chiltoniana di “Passenger Side” il compito di prendere per mano i presenti e portarli su territori più classicamente rock n’ roll. “California Stars”, direttamente dall’operazione-tributo a Woody Guthrie “Mermaid Avenue”, spiana degnamente la strada ad una chiusura che odora di southern rock con la tripletta “Hate It Here”, “Walken” e “I’m The Man Who Loves You” che riporta alla mente una commistione fra precisione e passione tipica delle grandi live band degli anni ‘70.
C’è ancora tempo per un ultimo encore in cui si alza ulteriormente il tiro con l’uno-due ad alto voltaggio “Monday”- “Outtasite (Outta Mind)”, chiusura anthemica che chiude il tutto in un’atmosfera di festa, rendendo quasi lecita la comparsata del baffuto roadie chiamato ad esibirsi scuotendo le proprie terga sulle note della conclusiva “Hoodoo Voodoo”.

Sono passate due ore e mezza, ma nessuno sembra essersene accorto al Teatro Della Concordia. Tutti hanno ancora negli occhi, ma soprattutto nelle orecchie e nel cuore, l’ennesimo concerto memorabile di sei musicisti immensi. Nell’opinione di chi scrive, per qualità delle canzoni, chimica sul palco e impatto emotivo, la migliore live band al mondo in questo momento.


Contributi fotografici di Stefano Ferreri