10/07/2013

Atoms For Peace

Zenith-Die Kulturhalle, Monaco


Lo ammettiamo. È difficile essere imparziali quando si è dei veri “fan” dell’opera di qualche artista da molti anni e si è seguita con fedeltà nel tempo la sua evoluzione stilistica. Pertanto, nonostante molti abbiano storto un po’ il naso di fronte al primo album degli Atoms For Peace, "Amok", o dinnanzi  al precedente "The Eraser" a firma del solo Yorke, l’arrivo di un concerto “solista” di Yorke ci pare comunque un grande evento.

È vero che si fa fatica ad ascoltare "Amok" dall’inizio alla fine senza correre il rischio incappare in qualche attacco di sonno (cosa abbastanza grave considerata la sua relativamente breve durata), tuttavia quattro brani ammirevoli lì dentro pur sempre ci sono: “Before Your Very Eyes”, “Ingenue”, “Stuck Together Pieces” e la title track “Amok”.
Quattro brani in cui la tensione verso la sempre più essenziale astrazione musicale avviata con l’ultimo "The King Of Limbs" dei Radiohead (forse ancor più che con "Kid A") non eccede nell'intellettualismo stucchevole, ma mantiene invece un forte senso istintivo di bellezza, vuoi talvolta per l’eleganza delle melodie scarnificate fino all’osso, vuoi talvolta per il sostenuto senso ritmico (elementi questi provenienti da "The King Of Limbs"), vuoi per un’interpretazione eterea ma al contempo desolata di Yorke, sempre più lontana dal mondo quotidiano. La curiosità quindi di sentire come questi brani possano suonare dal vivo è alta.

Nell’offerta centellinata di concerti da parte degli Atoms For Peace, arriva la data di Monaco di Baviera (due sole esibizioni in Germania, come per l’Italia), la quarta a livello mondiale. L’audience non è molto numerosa, e d’altronde la promozione dell’evento è stata molto contenuta (si direbbe che gli Atoms For Peace facciano di tutto per tenere alla larga gli “ascoltatori per caso”). È comunque abbastanza cospicua da raggiungere una soddisfacente massa critica.
Il gruppo spalla, gli Owiny Sigoma Band, riesce comunque a scaldare immediatamente il pubblico accorso con il proprio tocco etnico internazionale, trascinandolo nella danza a suon di strumenti e canti world music, e sfoggiando un look da Blues Brothers versione Capanna dello Zio Tom veramente incisivo. Appena salgono sul palco, si capisce subito che ci sarà da divertirsi.

L’avvio con questo tipo di gruppo di supporto non è del tutto fuori luogo, come forse ci si potrebbe aspettare in un primo momento. Infatti, quando successivamente sul palco salgono le star, si capisce bene quanto gli Atoms For Peace abbiano ideato un concerto tutt’altro che assorto ed etereo, bensì ritmato ed energico dall’inizio alla fine.
Se l’ascolto di "Amok" richiede preventivamente una certa dose di rilassamento e preparazione psicologica alla concentrazione, non così le tracce dell’album suonate dal vivo. Insomma, per dirla tutta, gli Atoms For Peace lo vogliono far ballare sul serio il proprio pubblico. Questo però non va letto come un intento superficialmente accomodante e accondiscendente, quanto piuttosto come uno studio attento sul valore e il potere del ritmo; ciò diviene evidente in modo particolare nelle esecuzioni di “And It Rained All Night” e “Skip Divided”, che andremo ad ascoltare, ridotte a pura essenza di battito cardiaco.

Ecco quindi che lo strumento che domina tutto il concerto è il basso di Flea, in modo ben più preponderante di quanto non sia nell’album registrato in studio. E, a proposito di Flea, ci viene subito da osservare la grande novità di questo progetto: Thom non è più “solo” sul palco. Sì, perché bisogna essere non proprio degli ascoltatori dell’ultim’ora per conoscere i volti degli altri membri dei Radiohead, e addirittura dei fan incalliti come il sottoscritto per conoscerne i loro nomi.
Durante i concerti gli altri quattro bravi ragazzi si limitano a suonare gli strumenti come figure scenograficamente di contorno. Ma ora invece Thom deve competere con un grosso rivale. Già subito con l’ingresso sul palco dei due protagonisti si capisce che il gioco si farà duro: Thom è immediatamente seguito da un Flea in camicia e sottanone neri, che creano un effetto tunica lunga da cui escono due tozze scarpozze da tennis con annessi tubolari arrotolati dal risultato alquanto spassoso. Ben presto si comprende però che quell’effetto tunica è tutt’altro che castigato, dal momento che Flea, dimenandosi come un ossesso sul palco tutto il tempo, esibisce con disinvoltura uno spacco che sale pericolosamente molto in alto sì che veramente per poco non si riesce a capire se al di sotto egli porti qualcos’altro oppure no (la domanda non si porrebbe affatto se si trattasse di qualcun altro, ma nel caso di Flea è del tutto legittima…).

E, in seguito, le movenze epilettiche di Thom non saranno più sole in scena, ma dovranno competere con le convulsioni del bassista dei Red Hot Chili Peppers. E poiché il suo fare sornione non può che risultare terribilmente simpatico agli spettatori… ecco che Thom non può permettersi di essere da meno: ammicca, sbaciucchia il pubblico, gli lancia sorrisi, sguardi calamitici. Insomma, non si tratta certamente di un Thom autistico, immerso nelle proprie angosce esistenziali. L’impressione generale è invece che si stia divertendo moltissimo a flirtare con il pubblico da gran seduttore e a farsi influenzare dal rozzo “ragazzo di borgata” statunitense al suo fianco (abbiamo una nuova coppia “Bowie-Pop” in giro?).
Quella che abbiamo definito come competizione è ovviamente in realtà null’altro che il dominio incrociato e virtuosistico della scena di due giganti del palco che giocano insieme, sicché lo “scontro” avviene non perché voluto, ma in quanto inevitabile compresenza di due fuoriclasse su uno stesso campo da gioco. L’intesa tra i musicisti e le prime file è veramente notevole, ci si scambia l’entusiasmo reciprocamente. Con due tali appassionati intrattenitori (!) e questi nuovi arrangiamenti energetici non ci si riesce proprio né a distrarre né a stare fermi.
L’impressione è che Yorke abbia registrato Amok per una ragione analoga a quella per cui Lou Reed realizzò "Metal Machine Music": togliersi di dosso gli ospiti indesiderati. Ma a quelli che fedelmente lo hanno seguito, egli dona poi calorosamente tutta la sua riconoscenza e il suo affetto.

Ad un certo punto sbaglia il ritornello finale di “Harrowdown Hill”, errore che può essergli fatale perché rischia di non trovare la giusta cadenza per introdurre il momento di sospensione che precede la coda conclusiva, se ne accorge appena in tempo, gli scappa un sorrisino del tipo “Eh, sì, buonanotte!” e con un colpo di maestria nel giro di qualche secondo finge una crisi epilettica al microfono vomitando fuori un delirio di parole a velocità frenetica, ma riuscendo così a recuperare la giusta frase. Veramente una prontezza di riflessi e una professionalità notevoli.
Flea d’altronde pare sovente avere problemi di acustica e cerca più volte il sostegno dei tecnici tra un dondolamento convulso e l’altro.
Insomma, i due “mattatori” possono pure talvolta apparire in trance, ma in realtà sono ben coscienti e non perdono mai il polso della situazione.

Nel complesso l’interpretazione vocale di Yorke abbandona gli strati eterei e irraggiungibili nei quali si era ritirata in studio per tornare qui coi piedi maggiormente per terra. Anziché il sussurrato intimista dell’album, abbiamo una voce piuttosto piena che sulle note ci spinge e si fa sentire.
L’altra presenza importante, meno scenica rispetto a quelle di Yorke e Flea e soprattutto meno nota ai non addetti ai lavori, è quella di Nigel Godrich, il produttore storico dei Radiohead, che, inutile negarlo, è il sesto componente del gruppo (il settimo è invece il fido creatore dell’artwork Stanley Donwood). Lo sappiamo, non ci sarebbero probabilmente i Radiohead, questi Radiohead, senza Godrich. Ma chissà, forse gli Atoms For Peace potrebbero esserci lo stesso; in fondo non è la sua produzione l’elemento più interessante di "Amok", la quale suona anzi un po’ troppo manieristica e autocompiaciuta (anche se Godrich ha sempre fatto magie per Yorke, con o senza Radiohead, volendo essere imparziali bisogna con tutta tranquillità ribadire l’ovvio e riconoscere che per quanto si possa essere straordinariamente dotati non tutto quello che si produce nella vita può sempre portare i segni della genialità).

Ad ogni modo Godrich esce allo scoperto e si prende il suo spazio di gloria finalmente come membro formalmente riconosciuto, se non proprio dei Radiohead, almeno di questo progetto laterale (ammesso che vogliamo chiamarlo così, non dobbiamo dimenticarci che stiamo parlando di un “supergruppo”). E non pago di starsene sullo sfondo alle tastiere o ai sintetizzatori, alla fine afferra la chitarra in mano e si prende la prima linea a fianco di Thom e Flea.
Oltre all’esecuzione del nuovo lavoro, viene recuperato quasi tutto "Eraser", con l’eccezione della title track e di “Analyse” (quest’ultima mancanza dispiace in particolar modo a chi scrive).
È “Black Swan” da quell’album a chiudere il secondo bis di un concerto intenso ma non molto lungo ( l’ovazione del pubblico li chiama ancora fuori insistentemente, ma senza esito positivo, d’altronde i due non più giovanissimi frontman dopo tanto dispendio di energia saranno abbastanza stanchi…). Questo brano segue un’omonima “Atoms For Peace” eseguita da Flea con un basso del modello suonato usualmente da Paul McCartney.
La scaletta è quindi abbastanza prevedibile, ma segnaliamo la bella sorpresa di “Rabbit In Your Headlights”, magnifico brano prodotto da un precedente progetto laterale di Yorke, gli UNKLE. E con questo brano Flea ha finalmente la possibilità di andare anche lui al microfono (lo stesso microfono di Yorke!) per interpretare la parte di recitato in esso contenuta. È proprio così: Thom non è più solo sul palco, ma pare che la cosa non gli dispiaccia affatto…