12/02/2013

Jon Spencer Blues Explosion

Molodiciotto, Torino


Qualcuno ha scritto che un concerto dei Flaming Lips somiglia a una torta. Una di quelle proprio straripanti, per intendersi: botta ipercalorica con farciture sontuose, rinforzi pacchiani e fregi di glassa confetto, smodato e iperbolico arzigogolo di panna dai colori chiassosi affastellati in uno stravizio a più piani. E questo ben di Dio, sia chiaro, sempre immancabilmente identico a se stesso, eventuali candele e confezione comprese. Il bello, diceva sempre quel qualcuno, è che al di là delle esagerazioni dei pasticceri, quando ce la si ritrova sotto il naso una fetta la si prende sempre con piacere. Fatte le debite proporzioni e definiti i necessari distinguo, potremmo dire che lo scheletro di questa metafora funziona anche per qualsiasi esibizione della Blues Explosion di Jon Spencer. Senza gli stucchi zuccherini e le tinte improbabili, ovvio, più simile semmai a una torta al cacao ricoperta dalla classica blindatura di cioccolato nero extra-fondente. Inconfondibile nel suo standard rodato fino all’ultimo cliché, irrinunciabile quando una delle sue porzioni capita a tiro del rocker affezionato. Certo il gusto è di quelli intensi, molto decisi, e per forza di cose può non piacere a tutti. Chi ama il genere, tuttavia, tende a non negarsi la gratificazione davvero liberatoria di una ripassata.

 

L’intento è stato questo – né più né meno – quando abbiamo scelto senza troppe esitazioni di non mancare all’ennesimo appuntamento con Spencer e i suoi accoliti. Si tratterà pure di show dalla sceneggiatura risaputa sin nel più insignificante dei dettagli, eppure basta quella bella faccia di bronzo su una foto promozionale a fare da irresistibile richiamo. 270x220_iiiFunziona. Già quando ha accanto quella di Matt Verta-Ray per la (divertente) variante rockabilly degli Heavy Trash. Ancor più quando al posto della mascella erculea del chitarrista country c’è l’assai più allettante rimpiazzo rappresentato dalla signora Spencer in persona, l’incantevole pantera Christina Martinez, e siamo in clima di rock grezzo anni ’90 con i Boss Hog. A maggior ragione – e non potrebbe essere altrimenti – da i suoi frutti migliori quando è affiancata sulle ali dagli adorabili volti da schiaffoni dei suoi sodali storici: l’incarognito Russell Simins e il fanciullo angelico Judah Bauer. Quasi un moderno messia del rumore con attorno due begli sgherri di ladroni redenti nel loro apostolato rock’n’roll. Maschere che devono aver fatto un patto con il diavolo per conservarsi così bene, un cerbero elettrico che per i devoti estimatori sarà sempre soltanto JSBX, semplicemente.

 

Il culto riservato al trio newyorkese sopravvive intatto allo scorrere del tempo. Il tacito accordo tra band e fan si nutre dell’illusione condivisa di un benevolo congelamento, di un’eterna replica del 1994 protratta ad oltranza con il benestare di tutti. Ecco perché questo terzetto di canaglie con la sua formula alchemica, sopravvissuta nel frattempo a più tentativi di imitazione che La Settimana Enigmistica, gira il mondo con assiduità impressionante e torna sempre puntuale ad alimentare il proprio sacro fuoco live in ogni dove, quasi temesse il disamore tra i seguaci. Che rimangono numerosi e motivati ad ogni tappa, sempre un po’ più vecchi ma accompagnati di tanto in tanto da nuove reclute imberbi ed entusiaste. Bel segno. Da parte sua la Blues Explosion vive di conferme a tutto campo anche quando, come nel caso di quest’ultimo tour, c’è la novità di un disco di canzoni nuove di zecca da battezzare dal vivo. E’ la prima volta che questo accade negli ultimi otto anni ma il dettaglio è trascurabile. “Meat and Bone” non ha tradito l’ortodossia di un sound verace e sanguigno come quello della casa, adeguandosi con un certo profitto ai canoni che negli anni d’oro hanno fatto di questo gruppo una straordinaria polveriera di stili ed influenze. La dimensione live, come sempre nel loro caso, contribuisce a limare i pochi residui scarti di inventiva ed energia rispetto ai gioielli del repertorio, a schiantarli tutti assieme nel ribollente calderone e a bagnare il tutto con l’immancabile buona dose di isteria senza filtri e senza quartiere.

 

Ma JSBX è indice di qualità anche nella scelta degli occasionali comprimari. In una delle precedenti puntate italiane, avevamo scoperto proprio grazie a Spencer una sensazionale formazione garage finlandese all female, The Micragirls, che aveva destato in chi scrive qui una certa impressione, tra brucianti cavalcate ed esemplare vitalità pestona. 270x220_iiNon è andata peggio questa volta con l’apertura affidata a The Mentalettes, nutrita quanto insolita compagine a metà strada tra canonico girl group ed energica beat band, coordinate e stereotipi sonori conficcati nel cuore dei primi anni sessanta e ben sette scatenati elementi in scena tra cui tre smaliziate (e scosciatissime) cantanti. Un bel mix di generi come per gli headliner ma anche di nazionalità, considerate le diverse provenienze (Germania, Svezia e Spagna) dei suoi entusiasti componenti, indiavolati sull’ampio palco del torinese Molodiciotto per tre quarti d’ora abbondanti, abbastanza per farne un antipasto gustoso e lungo quel tanto da scongiurare il senso di noia nell’attesa. Il riallestimento per lo spettacolo principale si è rivelata la solita, rapida passerella, per vedere all’opera i tre statunitensi nel loro embrionale ma già illuminante pre-concerto: sbocconcellate di Telecaster per Judah (glabro e assai più giovanile rispetto a un paio di anni fa, quando sfoggiava un look da attempato cowboy), verifica sostanziale del drum kit per il monumentale Russell e comparsata piaciona del titolare della ditta nella sua mise d’ordinanza: pantaloni a zampa in pelle nera, camicia e gilet. Prima ovazione.

 

Quindi il buio in sala e il via con l’intatto copione di ogni altra occasione oltre al piacere indescrivibile di ritrovarcisi, comparse nel cast di un film gagliardo quanto delirante in omaggio a oltre mezzo secolo di irrequietezza rock.270x220_i Infantili nell’esaltarsi tra urla e braccia tese ad ogni deviazione dell’istrionico leader sul bordo della pedana, affacciato sugli astanti come un perfetto animale da palco nelle sue pose plastiche destinate ai flash delle reflex e degli smartphone. Intramontabile Jon. "Una specie di vampiro che si nutre della vitalità stessa della sua musica, sia essa blues ibridato, rock scapestrato o qualsiasi altra deriva rumorosa – post, hardcore, garage, noise, punk – le etichette sceglietele voi, sono tutte plausibili. Non un granello di impegno o un decibel in meno rispetto alle altre volte che ci era capitato di incrociarlo. Una prova? Già alla terza canzone il frontman grondava sudore in maniera impressionante e, manco a dirlo, procedendo ha se possibile aumentato i giri del proprio motore. Simins non è mai parso da meno. Inutile rimarcare che senza il magnetico primitivismo della sua batteria-reattore la compagine di Jon Spencer produrrebbe un decimo della sua energia atomica. E superfluo ribadire che senza la chitarra tagliente e al tempo stesso elegante di Bauer la parola Blues andrebbe cancellata per forza dalla ragione sociale dei newyorkesi". Ci si perdoni lo sfregio di un’autocitazione da cronache gettate altrove, qualche tempo fa. Come detto, è sempre lo stesso dolce che stiamo raccontando.

 

E ancora una volta ci manca la scaletta da riportare a corredo. Ci manca perché non esiste, non è mai esistita forse. Dal riff d’apertura allo strascico di feedback agonizzanti in coda all’ultimo bis, un'unica ininterrotta sequenza di esorcismi elettrici e tumultuosi sconquassi ritmici, cento e più minuti di magma che hanno travolto e assimilato buona parte di “Meat and Bone” presentandocela come un rosario di appendici pressoché indistinte rispetto al resto, refrain storici, fratture funk, camei del theremin e cover di James Brown o dei Beastie Boys comprese. 270x220_ivI concerti della Jon Spencer Blues Explosion hanno questo di particolare: una sola canzone che si snoda mostruosa in set frenetici, incendiari, senza un attimo che sia uno per tirare il fiato, plasmata dall’istinto e dal potere straripante dell’improvvisazione e scagliata come un’auto impazzita verso un finale di spasmi allucinanti: le “Wail” e le “Afro”, le “Dang” e le “High Gear”, guizzi appena riconoscibili nel flusso torrenziale di una band davvero unica al mondo, corroborata come nessun’altra quando si trova a recitare nel suo habitat naturale. Spizzichi di “Extra Width” e “Acme”, un po’ di “Now I Got To Worry” e tanto, tantissimo “Orange”, a fronte di un oblio quasi totale per quel paio di album licenziati a nome della sola Blues Explosion. Un messaggio forte e chiaro su come vadano intesi oggi “Plastic Fang” e “Damage”, figli ripudiati dalla stagione meno autentica del gruppo americano. Un lungo frangente, questo, cui “Meat and Bone” ha posto fine nel solco di una ritrovata euforia. Oltre alla faccia e al cuore, Jon ci ha rimesso il nome. Poco più di una nota a margine forse, oppure l’ingrediente che mancava a questa torta per tornare ad essere davvero speciale anche senza rivoluzioni nel gusto. Ce ne hanno servita un’altra fetta, non potevamo tirarci indietro.