23/01/2013

Vibrators

Sinister Noise, Roma


Organizzata a un prezzo convenientissimo e supportata dall'allettante offerta etilica "Più bevi - Meno paghi", questa è la data che riporta a Roma a distanza di un anno circa la storica formazione londinese. Siamo al Sinister Noise, un pub nei pressi della stazione Piramide, l'ambiente ideale per una serata di punk and roll con un gruppo come i The Vibrators. Chiunque si trovi in quel di Roma, dovrebbe farci un salto almeno una volta: la selezione musicale è da leccarsi le orecchie e l'ambiente freak-artistoide lo rende uno dei locali più allettanti e accoglienti della capitale.

Appena entrati, ci imbattiamo nel cantante e bassista Pete Honkamaki - sguardo beffardo, gilet di pelle nera con toppa strategica dei Social Distortion cucita vistosamente a mano e un'involontaria (?) quanto imbarazzante somiglianza con Joe Strummer da giovane - intento a sorseggiare del vino rosso sulla porta d'ingresso e ci fermiamo così a fare quattro chiacchiere con lui. Il suo è il classico atteggiamento di chi ormai ha finito di illudersi e di giocare a fare la rockstar. E' pacato e affabile nelle risposte, come se ci si conoscesse da una vita, forse perché alla base del nostro botta e risposta c'è quella disincantata consapevolezza di chi sa di piacere solo a una nicchia di persone, ma allo stesso tempo è cosciente che quel piccolo manipolo dei "suoi" (virgolette, visto che della formazione originale è rimasto solo il batterista John "Eddie" Edwards) Vibratori conosce la vita, la morte e pure i miracoli. Come quello di essere sopravvissuti a più di trentacinque anni di storia della musica, per dire. Come essere ancora qui a dimostrare quanto sia possibile fare del buon rock senza aspirare minimamente a una vaga idea di successo, personale o commerciale che sia.

Si parla ovviamente di punk. Ci dice che la scena romana è tra le migliori che ha trovato in Italia, che non riesce a capire quanto sia piccola o grande, ma che ha visto molta gente giovane dentro il locale. Ci racconta di aver parlato con una ragazza, tra i diciotto e i vent'anni, di gruppi come The Undertones, The Adverts, 999 e The Dickies e che suonare davanti a un pubblico così non può che renderlo euforico. Gli facciamo notare che allora internet forse non ha fatto solo danni, visto che ai nostri tempi troppi dischi e troppe riviste dovevi acquistare prima di arrivare a questo genere di ascolti. Sorride e annuisce facendo una digressione sull'importanza, in tal senso, delle care e vecchie fanzine.
"Male che vada, stasera potreste suonare 'Rock The Kids' come vademecum", scherziamo. Butta giù un altro sorso di vino e fa cenno di no con la testa, ci dice che non sono qui per fare la lezioncina a nessuno ma solo per fare un po' di festa, se no non suonerebbero mai canzoni come "Yeah Yeah Yeah" (ovviamente inserita nella scaltetta). Tutto ciò già lo avevamo immaginato ma non ci sembra il caso di puntualizzare.

Lo lasciamo rientrare e scendiamo assieme al piano di sotto dove gli opening act Poker stanno già suonando. Non vorremmo mai essere causa dei problemi di line-up di una band, ma la cantante Giulia ci è sembrata acerba quanto basta per preferire di gran lunga i corposi innesti vocali (dal malcelato sapore Oi!) del chitarrista Molla. Forse c'era un po' di ansia da prestazione, forse siamo stati sfortunati noi: avremo di sicuro modo di rivederli in azione. Intanto ci passa vicino il chitarrista Mark Duncan ed è pura iconografia punk '77. Cammina quasi strisciando i piedi, bandana in testa stile naufrago e maglia a righe orizzontali bianche e nere se non fosse chiaro il concetto; senza mezzi termini, da un'idea di come potrebbe essere Keith Richards tra vent'anni - se dovesse arrivarci. Sale tranquillo al piano di sopra e riscende con due bicchierini colmi di liquido trasparente (Vodka, Gin, Grappa, semplice acqua minerale? Non lo sapremo mai...) e li posa vicino il suo amplificatore. Sale nuovamente ciondolando e riscende con altri due bicchierini con le stesse caratteristiche (il mistero si infittisce). A differenza di Pete, non ride affatto e sembra avercela con tutto il mondo.
Qualcuno inizia a temere il peggio per il live in sé ma, come spesso accade in questi casi, imbracciata la chitarra, Duncan dimostra a tutti che avrà anche seri problemi di deambulazione, d'estetica e (forse) pure d'alcolismo, ma con la sua sei corde va liscio come l'olio. Non suona punk, Mark è punk.

Così la band si fa strada sul palco, circondata da un pubblico calorosissimo e devoto, che oggi comprende anche qualche culo noto della scena apocalittica romana. Le canzoni dei Vibrators giocano a rimpiattino tra Pete ed Eddie, intervallate, per una buona mezz'ora, soltanto dai celeberrimi "one, two, three, four" di ramonesiana memoria. Sono un concentrato di quasi quarant'anni di scuola punk, e non si può chiedere altro. Da quello "positivo" dei Buzzcocks, all'impegno sociale à-la Stiff Little Fingers, passando attraverso il cemento degli Exploited e le virate più stradaiole dei New York Dolls, dato che tutto viene unito dal seme del rock and roll più viscerale.
Pete è la prima donna. Suona, balla e flirta con tutto il pubblico dalla prima all'ultima fila e sembra odiare solo il fonico che non riesce a mettergli abbastanza voce in spia. Eddie è pura istituzione, e se a vederlo pensi in un solo momento che non sfigurerebbe affatto dietro il banco di una macelleria della Garbatella a farti un chilo di fracosta, si dimostra un motore trainante dietro una batteria scarna ed essenziale. Già, essenziale. Così ritorniamo a Mark che intanto a stento ha fatto tre passi avanti e due indietro ma inizia a sorridere compiaciuto per l'ennesimo applauso da portare nella tomba. Un concerto(ne) da vedere tutto d'un fiato, tra vecchi successi e competitive nuove tracce, come non ci capitava di notare da tempo. Forse dall'ultimo tour dei The Urges, anche loro (e forse non a caso) proprio al Sinister Noise di Roma.

Foto di Massimo Monacelli