E' una fase come minimo interessante quella che sta attraversando Tori Amos: dopo la tremenda crisi creativa in cui era entrata da tempo - c'è chi ne individua l’inizio nel 1999, chi nel 2005, poco importa - gli ultimi due episodi da studio hanno gradualmente restituito dignità a uno dei talenti storici del cantautorato al femminile, in particolare la sorpresa positiva di "Unrepentant Geraldines". Restava quindi da capire se alcuni degli aspetti più convincenti dell'ultimo full-length - la ritrovata sobrietà, oltre che identità, e una voce di nuovo espressiva e autorevole - venissero confermati anche in sede live. Ebbene, se l'ultima buona prova da studio richiedeva comunque cautela prima di scomodare proclami di rinascita, lo spettacolo romano ha lasciato tra molti dei presenti, probabilmente anche tra i più timorosi/scettici, l’idea che quella Tori Amos possa davvero tornare definitivamente.
Ma si parta in ordine: cosa aspettarsi all'iniziare dello spettacolo nell’ormai abituale sala Santa Cecilia, presso l'Auditorium Parco Della Musica di Roma? In linea con il ritorno da disco alla “girl with the piano”, nessun altro musicista oltre alla rossa compositrice è presente sul palco: nessun Matt Chamberlain alle pelli, niente basso, chitarra, neanche l'ottimo quartetto di archi che accompagnava l'apprezzabile tour di "Night of Hunters". Solo la cantautrice con il suo fido Bösendorfer. Prima conseguenza preventivabile tra chi la conosce è la totale imprevedibilità della scaletta, confermata dalle date precedenti nelle quali giusto un paio di brani sono apparsi con regolarità (circa una settantina i pezzi distinti presentati nelle sole ultime cinque date). Proprio uno di questi fa da rompighiaccio, a inaugurare la serata: "Parasol" si rivela ben più energica e viva della controparte che introduceva lo sfortunato "Beekeper". Più in avanti non meno fortuna avrà "Ophelia", una volta decontestualizzata dal dimenticabile "Abnormally Attracted To Sin".
Ciò che lascia piacevolmente sorpresi è l'eccellente stato di forma dell’artista. “Icicle”, highlight arrivato già dopo i primi saluti di rito, mostra una voce sicura e potente come l’artista del North Carolina non sfoggiava da tempo, soprattutto ricordando le molte performance fragili e traballanti nel non lontano periodo 2007-2010. Ma, al di là delle corde vocali rinvigorite, è il complesso che convince: si rivedono guizzi della Tori Amos più sanguigna, con quel proverbiale e carnale rapporto con il suo pianoforte. Indimenticabile il crescendo finale di “Icicle”: l'americana calca la mano alimentando sempre più la tensione, quasi a emulare l’atto erotico clandestino a cui il testo allude. Quando questa si fa insopportabile nel crescendo del bridge, un violento colpo sul piano fa trasalire tutti in sala rimarcando quell’ultimo rabbioso “I didn't go!”.
Curiosa è tuttavia la scelta di concedere poco spazio all’ultimo album, nonostante i buoni successi di vendite e di critica. Un peccato, considerando come il pathos di "Invisible Boy" venga amplificato da una veste live più cupa e profonda. A tal proposito si poteva magari fare a meno di una delle due cover proposte: “The Rose” di Bette Midler e “Boys In The Tree” di Carly Simon.
Altre contraddizioni lasciano perplessi. Dopo aver sfoggiato il rinomato talento nello stravolgere e dare nuova vita ai propri brani dal vivo - vedi una “Blood Roses” sorniona, felina, e una “Iieee” acida e strisciante - risulta inconcepibile proporre “Cornflake Girl” con una invadente base registrata, cori inclusi. Volendo a tutti i costi trovare un senso a questa scelta kitsch, essa poteva al più funzionare come ultimo bis, in una sorta di saluto goliardico finale (un po’ come fu per la caciarona “Big Wheel” nella data del 2011), ma l’unica cosa che ottiene è un inappropriato tonfo in un’atmosfera perfetta, tra l’altro rispettata da un pubblico educato e concentrato. Ma sono macchie tutto sommato trascurabili nel complesso delle quasi due ore di spettacolo, che prosegue sempre su alti livelli emotivi.