29/07/2015

Bjork

Cavea dell'Auditorium, Roma


Stavolta la Cavea è una curva. Neanche più uno strapuntino libero e tifo da stadio, unito a un'attesa quasi mistica, per la dea venuta dai ghiacci. E lei non si fa attendere: con precisione più svizzera che islandese, si presenta sul palco alle 21 spaccate, preceduta dalla sua affollata orchestra: una sezione d'archi di 15 elementi, in bianco e in buona parte femminile, con alle spalle il percussionista Manu Delgado e il producer e mago dell’elettronica Arca (Kanye West, FKA Twigs).
Insomma, si respira il clima delle grandi occasioni, di quegli appuntamenti sciaguratamente ribattezzati dalla stampa “concerti-evento”, per questa unica data italiana sold-out, che segna anche il ritorno a Roma dell'artista islandese dopo 7 anni. E Bjork ha il carisma della star di caratura mondiale: l'entrata in scena è un'ovazione da Broadway, ogni suo piccolo movimento è tanto istintivo quanto magnetico, e scatena un'eccitazione incontrollabile in platea, dove scorgiamo – e come poteva essere diversamente? - l'immancabile edonista notturno D'Agostino.

La musa di Reykjavík non ha indosso l'attesa maschera di spine gialla con cui si è spesso presentata sul palco del Vulnicura Tour. La sostituisce con una più pratica mascherina con velo rosa attorno al collo, il dettaglio più straniante di un look sempre eccentrico, ma meno del previsto, con abito rosso fiammante, calze a rete e un paio di giganteschi zatteroni ai piedi, a regalare qualche prezioso centimetro in più. Cammina da una parte all'altra del palco, apre e chiude le braccia con un movimento ritmico che ricorda l'apertura d'ali di qualche nobile rapace. E invece si mostra fragile, indifesa. Proprio come nelle canzoni di “Vulnicura”, il suo ultimo album che è insieme una ferita (vulnus) e un tentativo di guarigione (cura) dai dissesti sentimentali seguiti alla fine della sua storia d'amore con l'artista Matthew Barney, il padre di sua figlia Isadora. Un disco travagliato fin dalla genesi, se si pensa che la pubblicazione, programmata per marzo 2015, è stata anticipata di due mesi a causa di un'incontrollata fuga dei brani sul web. E “Vulnicura” è il piatto forte di una serata che sarà tanto affascinante dal punto di vista della performance quanto avara nei confronti dei vecchi fan, orbati praticamente di tutte le hit della ultraventennale carriera dell’elfo islandese.

Bjork a Roma“Vulnicura” si aggiudica l'intero sestetto iniziale, che riproduce fedelmente l'ordine della tracklist, dalla quale alla fine resterà fuori solo “Atom Dance”, la traccia cantata in duetto con Antony. E, va ribadito, “Vulnicura” non è uno dei suoi lavori migliori, viziato com'è da una certa monotonia e da un velleitarismo di fondo, nonostante una maggiore accessibilità rispetto ai precedenti “Volta” e “Biophilia”.
Però Bjork dal vivo è uno schianto. La sua voce – sola sul palco senza i cori e gli enormi marchingegni sperimentali utilizzati nei precedenti tour – fende la notte romana coma una lama di ghiaccio, tanto è potente, cristallina, vibrante. E a impreziosire la sua esibizione sono i suggestivi visual, che la ritraggono all’interno di un arido paesaggio islandese – sull'intensa “Stonemilker”, tutta giocata sul dialogo tra la sua voce e i violini – oppure vestita da “sposa futurista”, con la fatidica maschera di spine, come da copertina di “Vulnicura”, nella più incalzante “Lionsong”, dove l'intuizione definitiva della sua carriera – il connubio tra archi e battiti elettronici – torna in grande spolvero, a incorniciare il racconto dolente della rottura di una storia sentimentale lunga 13 anni.

Non è un concerto normale, questo è evidente. Bjork è un’aliena venuta a celebrare un incantesimo, un piccolo sogno di una notte di mezza estate. Volteggia sul palco proprio come quelle farfalle che scorrono sullo schermo, in un senso di comunione universale tra i sensi e tra gli elementi della natura: Fuoco, Aria, Acqua e Terra ricorrono in qualche modo nel caos primordiale della sua arte, evocati dalle immagini - come nel filmato che mostra i bruchi che fuoriescono lentamente dai loro bozzoli sulle note di “Notget”, oppure nelle sequenze di insetti e rettili che faticosamente si riproducono - dalle storie dei brani e dagli effetti speciali, come i veri e propri fuochi d'artificio che si accendono alle spalle dei musicisti sulla sarabanda di “Mouth Mantra”, lanciando vampate di calore fino all'ultima fila della platea.
Ma non è l'artifizio, il tasto su cui più spinge Bjork. Semmai è l'emozione nuda, scarnificata, come il grido di dolore di “History Of Touches”, intonato con il solo accompagnamento elettronico, oppure la piaga sanguinante di “Black Lake”, in cui canta “I'm one wound, my pulsanting body suffering being” (“Sono una ferita, il mio corpo pulsante è un essere sofferente”), innalzando il microfono al cielo con gesto quasi ieratico, prima di abbandonarsi a una danza lasciva con le percussioni. Una teatralità che ci ricorda non poco quella di un’altra sciamana doc di nome Kate Bush. E il pubblico resta rapito, lasciandosi andare a ripetuti applausi a scena aperta.

Bjork a RomaDel passato, solo qualche sparuta traccia. Come una trasfigurata “Come To Me” (dall’epico “Debut” del 1993), quasi irriconoscibile nei suoi nuovi arrangiamenti più solenni, se non fosse per quel grido “you know that I love you”, che risuona in tutta la sua melodiosa irruenza. I gioielli dell'altro capolavoro “Homogenic” restano invece – ahimè - chiusi nello scrigno, ad eccezione di una magnetica “All Neon Like” trascinata dalle tastiere e dall'interplay tra la batteria elettrica e quella fisica: "Don't get hungry with yourself", si auto-ammonisce la protagonista di questa tormentata novelty sentimentale, che si snoda quasi sottotraccia nel breve saliscendi vocale di “Pleasure Is All Mine” (da “Medulla”, 2004) e nel bozzetto neoclassico di “Harm Of Will”, ripescato da “Vespertine” (2001). E se con “I See Who You Are” (da “Volta”, 2007) e con i ritmi quasi dub di “Quicksand” le pulsazioni salgono di giri, scatenando una liturgia tribale, è “Wanderlust” a sancire lo zenit drammatico dello spettacolo, con la voce di Bjork che si erge drammaticamente in tutta la sua potenza, mentre sullo schermo appaiono le immagini della cantante che attraversa un fiume, in compagnia di una sorta di doppelgänger/divinità delle acque. Ed è idealmente sulla cima di un vulcano, con i campi di lava che sfrigolano nel buio della notte artica, che si chiude lo show, con l'esplosione del bis “Mutual Core”, a calare il sipario sui tormenti di questa minuta eroina extraterrestre. Nel frattempo il pubblico si è accalcato sotto il palco, estraendo come oggetti proibiti del desiderio gli smartphone banditi durante lo show. Una foto-ricordo, in fondo, non si nega a nessuno.

Poche parole – qualche timido “grazie” e la presentazione dei musicisti – e praticamente nessuna concessione ai fan di vecchia data, come si diceva. Ha senso una scaletta che, già tutta sbilanciata sull'ultimo disco, ripesca dal passato solo qualche chicca misconosciuta? Difficile credere che tutti coloro che hanno sborsato una fortuna per procacciarsi i biglietti siano andati a casa soddisfatti, considerata anche la brevità del concerto (non più di un'ora e mezza). Resta negli occhi lo spettacolo di un'artista unica, di una performance ipnotica e onirica, in cui alla fine la musica, paradossalmente, è stato l'aspetto meno convincente.