15/11/2015

Elvis Perkins + Kinsey

Biko, Milano


Ce le abbiamo tutti ancora negli occhi, quelle immagini. Ragazzi arrampicati a una finestra, ragazzi trascinati in mezzo a una strada. Potremmo essere noi, i ragazzi del Bataclan.

Sono passati appena due giorni dalla strage che ha ferito Parigi al cuore. Impossibile fare finta di niente: andare a un concerto, stasera, assume inevitabilmente un significato diverso. È non accettare di arrendersi: alla paura, all’odio, al male. È andare in cerca di una parola autentica su quello che portiamo dentro.

La fragilità della vita, nelle canzoni di Elvis Perkins, ha sempre avuto un posto centrale. Oggi, mentre il filo a cui è appesa la nostra esistenza sembra farsi all’improvviso più sottile, i suoi versi risuonano con una nuova urgenza. Parlano della cenere di cui siamo fatti, parlano dell’attesa di un’alba che ci risvegli.

Respiri l’aria umida di nebbia e capisci che è per questo che sei lì: per riscoprire quello che ci rende uomini, e che nessun terrore è in grado di cancellare.

 

L’ultima volta, a Milano, il songwriter americano era sbarcato con la sua banda al completo, gli “Elvis Perkins In Dearland”. Da allora, molte cose sono cambiate, nel lungo silenzio che ha preceduto l’ultimo “I Aubade”. Al fianco di Perkins, però, c’è ancora il più irriducibile dei vecchi complici: Nick Kinsey, batterista e provetto one man band, fresco reduce dall’uscita di un brillante esordio solista.

Nel precedente passaggio del tour in terra italica non era stato della partita, impegnato oltreoceano in un altro progetto. E la mancanza, stando al racconto della serata torinese, si era fatta sentire. Stavolta, invece, è proprio a lui che tocca rompere il ghiaccio di fronte alla platea (raccolta ma calorosa) del Biko.

 

Nick Kinsey

 

 

Scambiate per una volta le bacchette con la chitarra acustica, Kinsey siede al centro della scena per regalare un perfetto saggio delle atmosfere di “My Loneliest Debut”. Ad accompagnarlo è il barbuto tastierista Mitchell Robe, che con i suoi inserti di synth e mellotron riesce a declinare in una chiave più minimalista la vocazione psych-pop dei brani.

L’apertura affidata a “I’m Home” suona subito come una dichiarazione d’intenti, con il timbro magnetico di Kinsey a marcare deciso ogni verso. I piatti di un charleston e un tamburello sono tutto quello che gli occorre per sostenere i ritmi, incalzando il pubblico con un’irresistibile “Eat Your Heart Out” e con gli accenti di “Chateau Ludlow”, dedicata a una misteriosa fanciulla francese e al suo appartamento nel Lower East Side.

L’immagine dell’alba, tra i chiaroscuri di “Dawn”, sembra rubata a qualche pagina dell’amico Elvis: “As the days unfold, and darkness takes its hold/ We’ll look on to behold another dawn”. Ed è proprio lui a comparire sul palco per l’ultimo brano del set, imbracciando il basso in una dilatata versione di “We Are Pipes”.

 

Qualche istante di sosta e il microfono passa a Perkins, con una fluente capigliatura lennoniana e una camiciola hippie che lo rendono quasi irriconoscibile rispetto a quella sorta di controfigura di Mr. E vista a Milano ormai otto anni fa. Alle sue spalle, Kinsey torna nei ranghi dietro alla batteria, mentre Robe resta alle tastiere con il suo cipiglio impassibile. Danielle Aykroyd

A far capitolare i cuori di un bel po’ dei presenti, però, è la figura femminile che si profila nella penombra a lato del palco: il suo nome è Danielle Aykroyd e sì, suo padre è proprio quel Dan Aykroyd. Una figlia d’arte di Hollywood proprio come Perkins, insomma, che si accoda al gruppo con uno sguardo un po’ altero, destreggiandosi tra basso, autoharp e harmonium.

Sin dalle prime note di “I Came For Fire”, Perkins accarezza le corde della chitarra restituendo all’aura sfuggente di “I Aubade” una veste più classicamente cantautorale. Anche in questo caso, i caroselli di mellotron imbastiti da Robe contribuiscono in maniera essenziale a definire la personalità dei brani, srotolando su “On Rotation Moses” e “AM” una giostrina da “Basement Tapes” che va a compensare almeno in parte la mancanza dei fiati.

 

È il vecchio repertorio il vero protagonista della serata, a partire da una “All The Night Without Love” che scalpita sulle percussioni come una danzatrice di tip-tap. Dopo una sobria resa di “It’s Only Me”, Perkins chiude gli occhi, si protende verso il microfono e si abbandona all’intensità quasi insostenibile di una “Ash Wednesday” che diventa invocazione “for the days after a dark day”. “No one will survive Ash Wednesday alive”, canta Perkins. “No soldier, no lover/ No father, no mother/ Not a lonely child”, e nella sua voce gli spettri dell’11 settembre vanno a confondersi con il sangue del novembre parigino.

La morte non è che un’illusione, riflette rivolgendosi al pubblico. A definirci non è il nostro corpo, il nostro lavoro, il nostro conto in banca: è qualcosa che è fatto per non morire. Parla proprio di questo “Doomsday”, del rifiuto che la morte sia l’ultima parola. Perkins la dedica agli innocenti a cui è stata tolta la vita, con una certezza negli occhi: “We’ll see them again”. E “Doomsday” si dipana lenta e solenne come un inno da funeral band, con il pubblico a sostenere il canto in un coro a mezza voce.

 

Elvis Perkins

 

Le pagine di “Elvis Perkins In Dearland” vengono saccheggiate più del previsto, dal grido di libertà di “Chains, Chains, Chains” (“What am I if bound to walk in chains 'til I die?”) a una “I’ll Be Arriving” al rallentatore, passando per il gospel-folk di “I Heard Your Voice In Dresden”, con i suoi trionfali “glory, hallelujah” sospinti dal passo più spedito della batteria.

Mentre il soffietto dell’harmonium fa levitare il crescendo di “Hogus Pogus”, in mezzo agli estratti dall’ultimo disco si insinua anche una canzone inedita, presentata con il titolo di “One”, che sembra presagire un riavvicinamento ai toni più corposi del passato.

 

Ma è già tempo del gran finale, e dopo una fluttuante introduzione (in cui Perkins sfodera persino una sorta di flauto sudamericano) “Shampoo” riscalda gli animi, facendo da apripista per una trascinante ripresa di “Doomsday”. Stavolta la versione è l’originale, qulla da banda dell’Esercito della Salvezza, con Kinsey che prende a tracolla la grancassa come ai vecchi tempi per lanciarsi in un’incontenibile cavalcata alla guida del gruppo.

L’imprescindibile “While You Were Sleeping” che chiude il concerto (meno convincente però di quella a cui ci avevano abituati i Dearland al completo) non riesce a scacciare dalla memoria la forza della domanda ripetuta fianco a fianco da Elvis e Nick, come una provocazione lanciata a pieni polmoni alla fragilità dei nostri timori: “I don’t let doomsday bother me/ Does it bother you?”.

No, l’oscurità non ha vinto. In questa notte di fine autunno, l’alba sembra un po’ meno lontana.

Setlist

KINSEY

 

  1. I’m Home
  2. My Loneliest Debut
  3. Youth
  4. Eat Your Heart Out
  5. Chateau Ludlow
  6. Dawn
  7. We Are Pipes

 

Elvis Perkins

 

  1. I Came For Fire
  2. On Rotation Moses
  3. All The Night Without Love
  4. It’s Only Me
  5. Ash Wednesday
  6. Chains, Chains, Chains
  7. I Heard Your Voice In Dresden
  8. Slow Doomsday
  9. I’ll Be Arriving
  10. AM
  11. Hogus Pogus
  12. My Kind
  13. My 2$
  14. One
  15. Shampoo
  16. Doomsday
  17. While You Were Sleeping

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