21/07/2015

Notwist

Villa Ada, Roma


21 Luglio. Roma. Caldo torrido. Villa Ada è un’oasi salvifica di questi tempi, lì la temperatura è sempre più mite rispetto alla calura degli asfaltati quartieri capitolini. La serata in cartello propone i Notwist, band tedesca nota alle cronache indie da quel lontano 2002 che li lanciò con il loro acclamato capolavoro “Neon Golden”. Qualche attimo di attesa nel parco tra le sedie a sorseggiare una birra ghiacciata, le 22 appena passate, ed ecco che fanno il loro ingresso sulla scena cinque nerd che sembrano appena usciti dal Generator Hostel di Berlino. Il tempo di imbracciare qualche strumento e subito in orbita con un groove di batteria che quasi non ci lascerà per tutta la durata del concerto.

I Notwist sono qui in Italia per rilanciare il loro ultimo lavoro, grazie al quale seguiranno altre date in giro per l’Europa. La traccia di lancio del concerto è “Kong”, dall’ultima fatica del quintetto, ottimo incipit per un concerto che si rivelerà così fresco e dinamico. Batteria pulsante, chitarra che avanza, voce gioviale e scanzonata. Dal secondo brano in poi, “Boneless”, l’elettronica prenderà il sopravvento, portando il gruppo in ambiti decisamente più congeniali.
Dopo un’altra incursione nel loro nuovo disco con il brano “Into Another Tune” di chiara ispirazione kraftwerkiana, il terreno è fertile per la trilogia di brani tratti da “Neon Golden”: “One With Freaks”, “Pick Up The Phone” e “This Room”. Queste tre gemme ci riportano indietro a quel 2002 quando il sound del disco partorito dalla band fu quasi come una luce in un immenso buio. L’elettronica suonata con eleganza, in maniera quasi minimal, produce un’oasi di suoni accattivanti; c’è chi accenna a un ballo, il pubblico è caldo, il clima pure e i Notwist sembrano decisamente divertirsi con la miriade di giocattoli che rimbalzano tra le mani.

Il brano successivo, “One Dark Love Poem”, è il più antico riproposto al concerto romano, dall’album “Nook”, datato 1992, dove la band era ancora alle prese con il “cosa farò da grande”; le sonorità decisamente punk-hardcore, al passo con gli anni Novanta, ancora oggi sono eseguite con energico spirito e diletto. Sì, diletto, perché guardando la band esibirsi sul palco, l’idea che rimbalza alla mente è quella di un gruppo che suona per se stesso, divertendosi, giocando con i suoni fino a creare, da una struttura basica, continue improvvisazioni, trasporti musicali in eterna evoluzione. Lo stesso Markus ha una voce quasi adolescenziale, imprecisa su alcune tonalità, ma calda e trascinante, tenera e seducente.
L’abbigliamento dei nostri amici è scarno, ai limiti della decenza, utile solo per coprirsi o scoprirsi dalla calura romana. Lo star-system poco interessa agli alfieri dell’indietronica; ciò che conta è sperimentare, immaginare un suono moderno, ricercando lo strumento adatto nel miglior momento possibile. Il concerto prosegue la sua prima fase con altri due brani dall’ultimo disco: “Run Run Run” e “Close To The Glass”. Il primo, un brano elettronico dalle tinte scure, il secondo che dà il titolo all’album, un misterioso intreccio di suoni tribal acid-techno.

“No Encores”, unico brano del disco “Shrink”, e “Gravity” mettono fine al primo atto del concerto. Come da copione il quintetto saluta come se dovesse andar via per sempre, ma il pubblico prontamente li richiama all’esibizione e loro rispondono, con fare celere, senza indugi. Indossati nuovamente i giocattoli scenici, Markus Acher parte con l’arpeggio orientale di “Neon Golden”, brano d’alleggerimento prima del rush finale in crescendo. Ciò a cui assistiamo successivamente è un vero e proprio esercizio di stile, un saggio esecutivo di sperimentazione live. “Different Cars And Trains”, tratto dall’Ep omonimo del 2003 dove la band si era divertita a mixare alcune tracce di “Neon Golden”, spazia tra acid-jazz, space-rock, house e techno; Markus lascia la sua chitarra per scratchare dischi sul palco, fino a legare il suono e il fraseggio con il brano successivo, vera e propria hit dei tempi che furono: “Pilot”.
Il pubblico è entusiasta e divertito, siamo alle battute finali. Lo si capisce quando partono le note della splendida ballad “Consequence”; il suono, seguendo il testo, ci lascia paralizzati, ipnotizzati, accompagnandoci appagati verso il traguardo finale.

In chiusura, Markus Acher si congeda con “Gone Gone Gone”, eseguita con il solo supporto della sua Telecaster; letteralmente il testo sembra parlare in maniera diretta ad ognuno di noi: “We’ll never let you go…i will never let you go”. E’ evidente che anche noi vorremmo restare ancora per un po’ in questo fresco paradiso sonoro, lontano dalla calura della città; in effetti, se una fine doveva pur esserci, questo è stato il modo più emozionante ed elegante per farlo.