15/03/2016

Francesco De Gregori

Teatro Colosseo, Torino


Chissà cosa sarebbe successo se Francesco De Gregori fosse venuto alla luce sulle sponde del Lago Superiore, in quel di Duluth, e non sulle nostrane rive del Tevere. Forse oggi qualche cantautore americano lo avrebbe già omaggiato con un disco di cover, setacciando le perle meno note del suo repertorio. Esagerato? Forse un po’, certo è che il Principe, per quanto si è potuto ascoltare nel concerto di martedì sera al Teatro Colosseo di Torino, ha dimostrato di aver poco da invidiare, in termini compositivi e interpretativi, a un mostro sacro della musica di ogni tempo come Bob Dylan.

È la scaletta di “Amore e furto Tour 2016” (venti date nei principali club e teatri italiani) a dimostrarlo. Una prima parte fissa interamente dedicata all’ultima fatica celebrativa e una seconda che regala un pugno di must di Francesco, oltre ad alcuni pezzi raramente proposti in versione live, affascinanti nel loro connubio di forza poetica e sonorità ricercate. Brani molto belli, quelli dell’album pubblicato ad ottobre 2015, ma scelti escludendo i cavalli di battaglia dylaniani più celebri. D’altronde, di furto per amore (quasi cinquantennale quello nei confronti di Dylan) si tratta e quindi di un rapporto molto personale con l’opera omnia del vate di Duluth che, proprio con l’omonimo “Love And Theft” nel 2001, aveva a sua volta dichiarato esplicitamente le sue passioni e influenze musicali.
Gli arrangiamenti restituiscono rispettosamente le atmosfere delle esecuzioni originali, pur ricercando una certa omogeneità di fondo. L’esecuzione di pezzi non propri dà modo di apprezzare ancor meglio le doti esecutive del De Gregori interprete, spesso rilegate in secondo piano rispetto alla grandezza dell’autore. Qui spicca, invece, la capacità di scandire i testi facendo risaltare l’importanza delle parole, spesso parole ricercate, parole di uso non comune, che sono il vero patrimonio culturale della lingua italiana.
Un altro devoto, sincero amore, quello di De Gregori, per la parola. Testimoniato quando confessa candidamente di dare, di tanto in tanto, una sbirciatina ai testi appoggiati sul leggio perché, spiega lui mettendo in mostra anche il suo lato umoristico, "con le mie canzoni spesso mi capita di modificare alcuni versi, addirittura migliorando il testo originale ma quando si canta Dylan bisogna essere rigorosi, non si può improvvisare, e poi non vorrei mi facesse causa…".

L’apertura è opportunamente affidata a “Via della Povertà” (“Desolation Row”), già tradotta in coppia con Fabrizio De André nel 1974, che fa capire fin da subito il tiro molto rock più che folk dell’intera serata. Il suono è compatto e potente, con il basso del fido “capobanda” Guido Guglielminetti e la batteria di Stefano Parenti a tracciare linee ritmiche ben marcate e le chitarre di Paolo Giovenchi e Lucio Bardi a ricamare l’indimenticabile intreccio melodico definito da Charlie McCoy in “Highway 61 Revisited”.
Seguono “Acido seminterrato” (“Subterranean Homesick Blue”s), “Non è buio ancora” (“Not Dark Yet”), “Servire qualcuno” (“Gotta Serve Somebody”), “Non dirle che non è così” (“If You See Her, Say Hello”), l’altra cover già precedentemente pubblicata nel disco dal vivo del 1997 “La valigia dell’attore”, “Mondo politico” (“Political World”), il primo singolo “Un angioletto come te” (“Sweetheart Like You”), “Come il giorno” “(I Shall Be Released”). Rispetto al disco restano fuori solo le ultime tre tracce, vale a dire: “Una serie di sogni” (“Series Of Dreams”), “Tweedle Dum & Tweedle Dee” (“Tweedle Dee & Tweedle Dum”) e “Dignità” (“Dignity”). Brani che, per esplicita ammissione del Principe, presentano parecchie difficoltà nell’esecuzione dal vivo, anche per lo stesso Dylan.

La pedal steel guitar di Alessandro Valle (anche alla chitarra e al mandolino) fornisce un importante contributo alla definizione delle atmosfere più country-folk, mentre la robustezza è garantita dalla sezione fiati, costituita da Giorgio Tebaldi (trombone), Giancarlo Romani(tromba) e Stefano Ribeca (sax).
In generale l'organizzazione del concerto è piuttosto rigorosa, con spazi ben definiti per ogni componente della band e una certa staticità fisica che, tuttavia, nulla toglie alla felicissima dinamicità sonora, con le chitarre spesso in primo piano a dettar legge come duri e puri sceriffi del Far West.

La seconda parte si apre (come in tutte le date precedenti) con l'ode di “A Pa’”, dedicata a Pier Paolo Pasolini, mentre l’affinità elettiva tra De Gregori e Dylan si conferma nell’esecuzione di pezzi che potrebbero benissimo provenire dalla penna di quest’ultimo, come “Buonanotte Fiorellino” (d’altronde ispirata dai ¾ di “Winterlude”, da “New Morning”, e recentemente rielaborata sulla base di “Rainy Day Woman #12 & 35”).
Trascinanti i pezzi veloci come “L'agnello di Dio”, “Vai in Africa, Celestino” e “Adelante! Adelante!”, mentre l’emozione di lenti storici, come “Generale”, o di più recente splendore, come “Gambadilegno a Parigi” è sottolineata dal violino appassionato di Elena Cirillo.
Il gran finale con “Pablo” fa sussultare anche il composto parterre sabaudo. All’encore non si poteva chiedere di meglio: una “La donna cannone” solo piano(Alessandro Arianti)e voce che toglierebbe il respiro a un cavernicolo e la fine eleganza senza tempo di “Rimmel”.

Una performance brillante, quella del sessantaquattrenne cantautore romano, che dopo ben 25 brani lascia ancora tanta voglia di ascoltare nuove canzoni, che si tratti di altri grandi classici - da “Alice non lo sa” a “Il bandito e il campione” - o delle tante perle nascoste negli oltre venti album di una carriera ormai ultraquarantennale. Al termine dell’esibizione, mia figlia di 6 anni, accanto a me per il suo primo concerto mi confida: “Grazie Papà, mi è piaciuto tantissimo”. C’è bisogno di aggiungere altro?