09/06-11/06/2016

Nos Primavera Sound 2016

Parque da Cidade, Porto


NOS Primavera, questo sconosciuto...

Dopo l'abbuffata di musica del Primavera di Barcellona, che forse mai come quest'anno ha catalizzato su di sé l'attenzione del mondo grazie a una più che sontuosa line-up (Radiohead, LCD Soundsystem e compagnia più che bellissima), per il quinto anno di fila il Parque da Cidade di Porto ospita il Primavera NOS, una sorta di spin-off del suo ben più conosciuto fratello maggiore spagnolo. Un festival che coinvolge un'intera città alle prese proprio in questi giorni con la festa nazionale e che, come a Barcellona una settimana prima, si rivela una vera e propria parata di stelle: dagli Air a Pj Harvey, da Brian Wilson ai Sigur Ròs, i nomi sono tanti e si dividono su quattro palchi per un totale di circa cinquanta esibizioni spalmate su tre giorni. Non ci resta che iniziare a raccontare le tante belle cose che abbiamo visto.

DAY 1 - Giovedì 09 giugno

375x375Avete presente quella fantastica adrenalina che si scatena nei momenti subito precedenti all'arrivo nel posto in cui il tuo artista preferito suonerà da lì a pochi minuti? Ecco, moltiplicatela per dieci e avrete ciò che si prova quando si arriva davanti alla scritta del Primavera. Esattamente come a Barcellona, le lettere luminose ondeggiano e offrono il benvenuto del Parque da Cidade, meravigliosa distesa verde a due passi dall'oceano e a una ventina di minuti dal centro, che fino a sabato diventerà la nostra casa. A differenza degli altri giorni, oggi non c'è bisogno di studiare i giusti “incastri” di orario poiché sono solo due i palchi attivi, il grande palco principale NOS e alla sua destra l'ottimo Super Bock, praticamente uno di fianco all'altro. Quindi, ça va sans dire, se si suona da una parte non si suona dall'altra.
E così, dopo aver incrociato nelle battute finali l'ingiudicabile U.S. Girls, è proprio al Super Bock che inizia il “nostro” Primavera: sul palco si presentano gli Wild Nothing, una band tanto bella a vedersi quanto da sempre poco consistente sul palco. L'indie-pop vintage e annacquato accompagna la voce distratta e rarefatta di Jack Tatum in un impasto sonoro molto retrò che, sebbene ci possa stare come leggera e disimpegnata “intro” del Festival, non riesce proprio a emozionare.

Ancora inebriati dall'adrenalina da “primo giorno di scuola”, ci spostiamo al NOS Stage per i Deerhunter. La band di Atlanta non poteva mancare all'appello, e questa esibizione è l'ennesima conferma della loro consistenza: un Bradford Cox in veste sempre più da frontman che si presenta sul palco per ultimo, incravattato e senza chitarra, mentre il resto della band (arricchita dalla presenza di due musicisti di supporto alle percussioni, al sax e al synth) apre la setlist con il classicone “Rainwater Cassette Exchange”. I pezzi da novanta ci sono quasi tutti (“Revival”, una sempre bellissima “Agoraphobia” e “Desire Lines”), ci sono le incursioni più noise di “Monomania” con la doppietta “T.H.M.” e “Dream Captain”, ma soprattutto c'è la consapevolezza di essere al cospetto di una band in continua evoluzione e che non accenna ad arrestare la sua corsa creativa. Menzione speciale per la versione agrodolce di “Living My Life”, con sax spianato e sapori dreamy tipicamente estivi.

julia_holter_nosConcluso il live di Bradford e soci, ne approfittiamo per fare un sopralluogo nel parco che ospita il Primavera. Dando un'occhiata in giro non possiamo fare a meno di notare la perfetta organizzazione, una consistente presenza di famiglie, poche e veloci code per mangiare e bere nei diversi chioschi street food: insomma, un po' tutto quello che si vorrebbe vedere in un Festival. L'area è comprensibilmente molto più piccola del Forum di Barcellona, perciò le camminate chilometriche per spostarsi da un palco all'altro si rivelano brevi e piacevoli passeggiate nel bosco, nonostante le persone presenti siano tutto fuorché poche.
Nel frattempo Julia Holter incanta il Palco Super Bock con un'esibizione molto elegante, accompagnata da un trio di batteria e archi che supporta la delicata voce della musa californiana e il suo pianoforte che spazia in libertà. La già corposa discografia della Holter si è arricchita di recente con quella perla che risponde al nome di “Have You In My Wilderness” i cui pezzi dal vivo non tradiscono le attese. Un art-pop di grande classe che raccoglie l'approvazione del pubblico, mentre insieme a un vento minaccioso si alza un senso di attesa sempre più forte.

img_20160610_115845_600Sul palco principale è infatti la volta dei Sigur Rós, creatura artistica ormai quasti ventennale che non ha certo bisogno di presentazioni o inutili preamboli. Gli islandesi, ormai stabilmente in formazione a tre, si confermano ancora una volta emozionanti sia quando c'è da tirare fuori gli artigli con il post-rock più potente (le esplosioni fragorose di “Sæglópur” e “Glósóli” saranno difficilmente dimenticabili per i presenti) sia quando la delicatezza dei vocalizzi di Jónsi smuove le emozioni fino a commuovere, come nella stupenda “Vaka”. E così, in mezzo a una scenografia evocativa con magma incandescente, nubi gassose, tempeste e traccianti luminosi, i Sigur Rós procedono con le iperboli di “Festival” per arrivare alla chiusura di “Popplagið”, un vero e proprio regalo ai fan della prima ora. Attendiamo a questo punto una ulteriore conferma dalle loro imminenti date italiane, certi che Jónsi e compagni sapranno farci vibrare il cuore ancora, e ancora.

Smaltita l'enorme sbornia emozionale, ci accorgiamo che la pioggia finissima aumenta la sua intensità, e con lei il pungente vento atlantico. Saltiamo non senza rimpianti il live dei Parquet Courts (che anche da lontano ci sembrano davvero niente male) per cercare un riparo e rifocillarci una mezzoretta, nell'attesa degli Animal Collective. Ed è proprio il collettivo di Baltimora a chiudere idealmente la prima giornata di questo Primavera, e come tre anni fa a Barcellona (e di recente nella loro data milanese) l'impressione mutuata è di una band tanto formidabile da disco quanto poco performante sul palco. Atmosfere electro-pop troppo dilatate e sfuggenti, loop e tappeti di synth che si sovrappongono, sgusciano e zampillano ma alla lunga stancano, una setlist decisamente troppo sbilanciata sul nuovo album, eccezion fatta per "Daily Routine" e una emozionante "Loch Raven" (quest'ultima con Panda Bear decisamente sugli scudi). E questa ormai irritante mania di Avey Tare di rovinare il ritornello di "FloriDada" con una performance vocale ai limiti dello scazzo. Insomma, un live che sa tanto di ennesima occasione persa.

DAY 2 - Venerdì 10 Giugno

Il giorno seguente, fra starnuti e colpi di tosse retaggi della velenosa pioggia portoghese della sera prima, arriviamo al Parque dopo aver visitato un po' più approfonditamente la città. Ora, senza voler annacquare troppo il nostro racconto, vale la pena spendere due parole su Porto. L'impressione principale è quella di un posto in cui decadenza, rovina e un vago senso di disfacimento si amalgamano con la vita, i sorrisi, i colori e un autentico tumulto tutto sudamericano. Una città completamente diversa e molto più mansueta dalla caotica e densa Barcellona, perfetta da visitare in pochi giorni e per niente dispersiva.
Avevo letto da qualche parte che Porto si presenta come una bella signora che non ha paura di mostrare al mondo le sue rughe: una fotografia più che azzeccata.

Ma torniamo alla musica. Il nostro venerdì di Festival si apre ufficialmente con i BEAK>, interessante prototipo sonoro di Geoff Barrow dei Portishead insieme a Billy Fuller dei Fuzz Against Junk e a Matt Williams dei Team Brick. Si parte subito col botto, perché quello che sfoderano i BEAK> è un live veramente ottimo: linee di basso ruggenti e minacciose, giri di synth claustrofobici e una batteria molto pinkfloydiana a tracciare scenari post-apocalittici, cavalcate acide e viaggi nel cosmo. Un incontro-scontro fra il kraut-rock e la psichedelia davvero apprezzabile. Peccato per alcuni fastidiosi problemi tecnici a interrompere il nostro trip, puntualmente sdrammatizzati dal brillante batterista, ad ogni modo ci sono piaciuti davvero moltissimo.

brian_wilson_nosEd è a questo punto che si palesa il primo grande dilemma di questa straordinaria line-up portoghese: Brian Wilson o i Dinosaur Jr? Così diversi eppure geograficamente per una volta così vicini: non ce ne voglia il nostro super amico J Mascis, ma questo è il momento di vedere mr Wilson. Brian il Genio. Brian il visionario del pop. Una leggenda che, non ce ne voglia nessuno, difficilmente potremo rivedere su un palco, nel 50esimo anniversario del suo più grande capolavoro, quel “Pet Sounds” che Wilson e la sua band (e coadiuvato dal fido compagno nei Beach Boys Al Jardine) presentano integralmente in questa edizione del Primavera.
Non credo abbia senso dare un vero e proprio giudizio all'esibizione di un Wilson visibilmente stanco, provato e sfiorito dagli anni che passano. Quello che però ci è piaciuto molto è stato il mood generale del concerto in cui la grandezza delle singole canzoni, comprese quelle degli esordi più radiofriendly dei furono “ragazzi da spiaggia”, sopperiva da sola a ogni eventuale mancanza.
Abbiamo visto ballare e cantare insieme almeno tre generazioni di uomini e donne sulle note di “I Get Around”, “Fun Fun Fun”, “Good Vibrations” e “Barbara Ann” e il fatto che su quel palco ci sia l'uomo che ha donato al mondo tutta questa gioia non può essere una cosa da poco. Eppoi la struggente tenerezza con cui Brian canta “Sometimes I feel very sad/ I guess I just wasn't made for this time”, specialmente ripensando a tutto quello che ha passato, ci resterà per sempre.

savages_nosDal Palco principale ci spostiamo al nostro ormai amatissimo Super Bock dove ad attenderci ci sono le Savages. E, come era lecito attendersi, si cambia totalmente registro: il post-punk irruento delle londinesi è davvero una forza della natura e Jehnny Beth è una vera tigre (lei dice che le fa male la schiena, ma da come “surfa” sul pubblico non sembrerebbe proprio...). Anche se alla lunga i muri sonori finiscono per essere un po' monotoni e i vocalizzi della Beth risultano a tratti di un'ossessione quasi stucchevole, la carica emotiva che traspare dalla musica delle Savages raggiunge dei picchi di grandezza e violenza totali. Ritmiche spianate, chitarrone nebuloso, irruenza e schizofrenia come se piovesse. C'è anche tempo per una rivelazione da “Libro Cuore” di Jehnny che manda in visibilio il pubblico: “Fuckers”, il pezzo conclusivo, nasce proprio su quel palco, in occasione del Primavera NOS di tre anni fa, dove la band suonò nel tour di “Silence Yourself”.

I ritmi di questa seconda serata di Festival sono serratissimi e non c'è un attimo di tregua. Facciamo ancora una volta il percorso a ritroso e cerchiamo senza fortuna un angolo privilegiato nel mare di gente che è già parcheggiato davanti al Palco NOS. E alla fine (per la precisione, alle 22.35) arriva Polly. Le Savages e PJ Harvey, una diversa faccia della stessa "medaglia rosa". Ma rispetto all'urgenza delle giovani leve londinesi, Polly Jean ha capito come ipnotizzare le folle senza dover spendere nemmeno una goccia di sudore.
Il concerto di PJ Harvey è qualcosa di meraviglioso, incorniciato in una scenografia elegante e minimale, con una vera e propria banda ad accompagnarla. La sua voce ferma e intensa, le sue movenze suadenti e il suo carisma, il sax che ogni tanto imbraccia: c'è tutto questo e anche di più nell'ora e un quarto di concerto della dark lady inglese, che concentra nella sua setlist quasi tutti pezzi degli ultimi due (bellissimi) album. Anche se poi il momento più rumoroso è senza dubbio su “Down By the Water”, canzone che ancora oggi dopo più di dieci anni conserva la sua enorme carica sensuale. Menzione speciale per Enrico Gabrielli e Alessandro Stefana, i due italiani che prendono orgogliosamente parte al roster di musicisti sul palco: un pizzico di Italia in un Festival che, ahimè, noialtri possiamo solo guardare.

beach_house_nosLa fase di decompressione doveva arrivare, il tour de force a cui ci siamo sottoposti chiama una pausa e perciò decidiamo di stenderci un po' sull'erba godendoci l'elettronica degli islandesi Kiasmos a distanza di sicurezza. Un live a dire il vero non proprio memorabile, specialmente dopo quello che abbiamo visto prima, ma tant'è. Si sentono ruggire in lontananza i chitarroni dei Mudhoney e un po' ci dispiace non essere in mezzo a quell'inferno. Ci sarebbero anche i Protomartyr nell'ancora inesplorato palco Pitchfork. Il Festival non ti aspetta, come è giusto che sia. Lo devi aggredire, lo devi dominare.
Intanto è l'una passata e sul Palco NOS è il turno dei Beach House. Lo stage si tinge di rosso fuoco e sulle note di “Beyond Love” inizia la suggestiva performance di Victoria Legrand e soci, in penombra e praticamente quasi invisibili nel buio della notte di Porto. Una band che ho sempre considerato oltre lo spazio e il tempo, cristallizzata nell'immaginario collettivo come una delle più solide e intense realtà dream-pop dell'ultimo decennio. Da “Wishes” a “Other People” per arrivare a “Myth”, i Beach House sfoderano i pezzi da novanta in mezzo ai brani degli ultimi due lavori. Pregevole la dolce slide guitar di “Space Song”, davvero immensa la chiusura di “Days Of Candy”. Se a inizio concerto avevo qualche perplessità sulla voce (invero più roca del solito) della Legrand, il resto del concerto e alcune potenti divagazioni vocali spazzano via ogni mio dubbio. Due grossi nei: l'orario proibitivo che non aiuta a focalizzare la giusta attenzione su una band già piuttosto “soporifera” e alcuni momenti un po' piatti e senza il necessario trasporto emotivo, quasi come se ci fosse il pilota automatico inserito.
Prima di uscire c'è tempo di un'altra birretta in compagnia della dancefloor colorata e coinvolgente dei Roosevelt a suggellare una seconda giornata densa e bellissima.

DAY 3 – Sabato 11 Giugno

Come ogni Primavera che si rispetti, che sia Barcellona o Porto, anche quest'anno non mancano i cosiddetti locals, artisti e band dei paesi ospitanti che beneficiano dell'esposizione internazionale del Festival per far conoscere al mondo la loro musica. Noi scegliamo di aprire il nostro terzo e ultimo giorno con i Linda Martini, formazione di Lisbona che sfodera un gradevolmente intenso mischione alt-rock con venature tra il grunge più cupo e l'hardcore. Non so quanto possa avere a che fare con una musica del genere la lingua portoghese, così rotonda e morbida, eppure al primissimo ascolto non mi sembrano niente male. Guardo il trasporto dei ragazzi sottopalco, il loro entusiasmo gridando ogni singola parola, la classica “presa bene” degli intransigenti fan della prima ora e mi vengono in mente subito i nostri Verdena. E penso che sarebbe bello ospitare anche noi un nostro Primavera in cui fare sfoggio di qualche nostra eccellenza nostrana...

Ci spostiamo sulla collina del Super Bock per gli Algiers. La curiosità è tanta, specie dopo aver praticamente consumato il bellissimo album d'esordio uscito lo scorso anno e valso elogi un po' da ogni dove. Il live fila via liscio e, come anche il disco aveva mostrato, le coordinate sonore della band di Atlanta si rivelano molto diverse, affondando le radici del blues e della musica nera, nel gospel e nel soul per lasciarsi contaminare da suoni più recenti e non per questo meno irrequieti. Siamo forse un po' troppo lontani per lasciarci travolgere dal vortice, e l'orario non aiuta a creare la giusta atmosfera “darkettona” che i nostri richiederebbero, eppure la verve e la voce fuori dal comune di Franklin James Fisher resteranno come una delle miriadi di cose da portarci a casa.

Dopo gli Algiers, l'elegante e molto femminile synth-pop dei Chairlift ci sembra davvero l'ideale per “staccare la spina” per una mezz'ora, guardando negli occhi il nostro ultimo sole portoghese. Intorno a noi un sacco di bambini, di famiglie, di gente bella che danza a piedi nudi sull'erba. Un'atmosfera molto hippie ci circonda, ma noi che “siamo dei duri e non ci facciamo troppo intenerire” ci buttiamo sottopalco in attesa dei Battles.
img_20160612_051336_600I newyorkesi si dimostrano ancora una volta dei martelli pneumatici, una band veramente imperdibile e ai limiti della perfezione, che però stasera fatica a trovare la perfetta alchimia: fin dall'intro di “Dot Com” - che avevano già sfoderato a Milano qualche mese fa - i tre si cercano con gli occhi, fanno smorfie di disapprovazione, a volte si cacciano addosso qualche urlo. Ci sta, sono dei perfezionisti e lo si sapeva: nonostante qualche imprecisione, la loro musica resta una formidabile palla di cannone sparata sul pubblico a tutta velocità. Le solite ritmiche poderose di John Stanier sorreggono loop e sintetizzatori geometrici e sovrapposti, cavalcate chitarristiche e matematiche improvvisazioni (un ossimoro che sembra inventato apposta per loro). Pezzi come “Atlas” e “The Yabba”, poi, sono dei veri e propri miracoli.

Il senso di attesa, quello che nelle altre serate aveva preceduto i live dei Sigur Rós e di PJ Harvey, monta sempre di più mentre gli Air prendono posto sul NOS Stage. I francesi, sebbene non siano mai passati troppo spesso nelle mie playlist post-adolescenziali, sono sempre stati uno di quei intoccabili titani della musica contemporanea che mi ripromettevo un giorno di vedere dal vivo. Dopo aver letto alcuni commenti poco rassicuranti sulla loro presunta esibizione “molle” di Barcellona, la curiosità nei loro confronti era ancora più grande. Per questo motivo, data la nebulosa di incertezza che me li nascondeva, il loro concerto è stato una vera e propria rivelazione.
Delicati, eleganti e pulitissimi, con una scaletta praticamente analoga ai due live italiani di qualche settimana fa, i due alieni parigini irradiano il Parque con il loro french touch passando in rassegna i loro più grandi successi (“Venus”, la gigantesca “Cherry Blossom Girl”, una versione strumentale di “Playground Love”, “Kelly Watch The Stars” accolta da un tripudio). Il finale è da urlo con la celeberrima “Sexy Boy” e il wall of sound in chiusura de “La Femme d'Argent”. Aspettavo “All I Need”, non è arrivata. Pazienza, è stato comunque tutto bellissimo.

Altro giro, altra corsa: è il turno degli Explosions In The Sky, che decidiamo di goderci nel miglior modo in assoluto: sdraiati sull'erba con gli occhi chiusi, come probabilmente avremmo dovuto fare anche prima con gli Air. Gli Explosions In The Sky sono una certezza, con il loro post-rock che alterna caotiche atmosfere noise a virate più melodiche e intimiste. Esplosioni nel cielo, per l'appunto. E come l'intensità della loro musica, anche le nostre emozioni viaggiano a corrente alternata: la lontananza dal palco e l'abbondanza da Festival ci restituiscono un'impressione parziale e forse troppo fredda, anche perché sul palco la band americana sa davvero il fatto suo.

A questo punto, si palesa l'ultimo grande bivio del Primavera che volge al termine: Ty Segall Moderat? Una sovrapposizione imperdonabile che ci porta a dover scegliere fra due vere e proprie correnti di pensiero: da una parte l'urgenza e il sudore del rock'n roll allo stato brado, dall'altra l'ennesima grandeur elettronica degli Anni Zero. Optiamo per Ty e la sua masnada di folli, e non potremmo essere più felici della scelta. L'irruente californiano, in tuta da meccanico e con il supporto dei suoi fidati Mugglers (e di un sempre ottimo Mikal Cronin), non imbraccia più la chitarra ma sa ancora come smuovere le folle.

img_20160612_0149042_600I suoni sembrano meno fuzzati e riverberati del solito, e se la prima metà della setlist è quasi tutta incentrata sull'ultimo album, “Finger” e “Thank God For The Sinners” fanno da ideale spartiacque con un seconda parte in cui sono i pezzi di “Manipulator” a far da padrone. La chiusura con la grezzissima cover di “L.A. Woman” dei Doors è il preludio all'ovazione forse più lunga di tutto il Festival.
I concerti ipercalorici di Ty Segall sono davvero qualcosa da provare almeno una volta, stando bene attenti a (non) finire risucchiati nel pogo selvaggio o in balia di uno stage diving molto poco rassicurante.

Il nostro Primavera è finito. Facciamo appena in tempo a farci grattuggiare le orecchie con i dieci minuti finali degli eterni Shellac (che se avessero suonato in altro orario avremmo visto di sicuro) ed è già ora di andare. E quasi non ci sembra vero.

Obrigado, Porto. Obrigado, NOS Primavera!