19/10/2013

Mountain Goats

Caprichos de Apolo, Barcellona ( Spagna )


Tuttlingen, 1995. È l’ultima data di un disastroso tour europeo per John Darnielle e Peter Hughes: l’accoglienza riservata ai Mountain Goats dal pubblico tedesco è più gelida che mai. A Tuttlingen, tra i boschi del Baden-Württemberg, la sala che si presenta ai loro occhi è completamente vuota. Nella stanza di fianco, la gente se ne sta tranquillamente seduta a cenare. “Ti ricordi per sempre quei concerti in cui non c’era nessuno, ma ti sei messo a suonare lo stesso cercando di dare il meglio”.

Barcellona, 2013. I Mountain Goats fanno tappa per la prima volta in Catalogna, nel cuore del Poble-Sec di Barcellona. La formazione è di nuovo ristretta al duo Darnielle/Hughes, come non accadeva ormai dal 2007. E il nome che hanno scelto per il tour è tutto un programma: “Tuttlingen Warriors”. Perché lo spirito battagliero è rimasto intatto, anche se i locali nel frattempo si sono riempiti.

 

Stavolta, però, tocca alla cantautrice inglese Alessi’s Ark aprire la serata quando il pubblico occupa ancora solo le prime file. L’ambiente è intimo e raccolto, nella penombra della sala minore del club Apolo, e la voce delicata di Alessi suona come una confidenza sussurrata all’orecchio. Lei si avvicina timida al microfono, presentando le canzoni dell’ultimo “The Still Life” quasi con un senso di pudore, come se non avesse mai aperto prima il lucchetto del suo diario segreto.

La declinazione acustica dei brani, accompagnata solo dai contributi discreti del polistrumentista Dan Hoyes, tende a uniformare le sfumature della scrittura, andando a collocarsi da qualche parte tra il cantautorato di Laura Marling e il candore di Emiliana Torrini. Le incertezze non mancano, anche se Alessi non esita ad affrontare la scena senza microfono quando l’impianto si mette a fare le bizze su “The Rain”. Dal nuovo Ep “Ice House”, registrato tra le pareti di una vecchia ghiacciaia a Birmingham, arriva una rarefatta versione di “The Good Song”, ma è soprattutto l’andamento cullante di “The Wire” a distinguersi nel breve set della cantante londinese.

 

John DarnielleL’immancabile “Hi, we’re the Mountain Goats” di John Darnielle non si fa attendere a lungo: giusto il tempo di sistemare il palco, ed ecco il songwriter americano impugnare la sua chitarra acustica accompagnato dal fido scudiero Peter Hughes al basso. Abito scuro, camicia bianca e chioma più fluente che mai, Darnielle si lancia subito in un’ardente “Pure Gold”, che in quel fatidico 1995 apriva l’Ep “Songs About Fire”. È proprio questo il bello della versione a due dei Mountain Goats: la possibilità di spaziare in completa libertà in un repertorio di canzoni praticamente sconfinato, contando su un affiatamento tale da non richiedere altro che un cenno di intesa.

Subito si dipanano le immagini di “Love Love Love”, dalla Bibbia a Kurt Cobain passando per Dostoevskij, alla ricerca di quel punto misterioso di verità che anima ogni azione. “Now we see things as in a mirror dimly/ Then we shall see each other face to face”. In fondo è proprio questa l’essenza di un concerto dei Mountain Goats: un costante tentativo di dissipare la nebbia della vita di tutti i giorni per riuscire a guardarsi almeno un istante negli occhi, e cogliere il proprio vero volto.

 

Non sono solo le canzoni, però, a costruire il legame con il pubblico: aneddoti e digressioni sono da sempre un ingrediente essenziale delle performance di Darnielle dal vivo. In questo caso, il tutto si declina in un improbabile spagnolo (“como un niño bien estupido”), sfoggiato con un’irresistibile dose di ironia. Così, la Kawasaki di “Jenny” si trasforma in una più casereccia Bultaco, la storica marca motociclistica catalana. Con il suo ghigno spiritato, Darnielle trascina tutti con sé su quella moto lanciata verso l’orizzonte, rendendo un degno omaggio alla recente ripubblicazione di “All Hail West Texas”.

Al momento di introdurre gli incubi di “Maybe Sprout Wings”, poi, Darnielle mette in scena il racconto di una notte insonne all’Holiday Inn di King Of Prussia, Pennsylvania, ovvero l’apocalittico scenario in cui il brano ha preso forma. E le sue parole finiscono per tratteggiare una sorta di storia nella storia, dedicata alla desolazione del “più grande centro commerciale noto all’uomo” (“di sicuro ce ne sono di più grandi, ma non più grandi spiritualmente…”).

 

Tra una vibrante “Linda Blair Was Born Innocent” e l’arpeggio in chiaroscuro di “International Small Arms Traffic Blues”, la voce di Darnielle suona come una chiamata alle armi, sparge il sale sulle ferite per poi tornare a lenire il dolore. Lasciata da parte la chitarra, il songwriter americano va a sedersi al pianoforte, offrendo una rilettura di “Autoclave” che fa pensare agli Eels più cameristici. Quindi riapre la Bibbia di “The Life Of The World To Come” per una duplice riflessione sul significato di essere padri e madri: in “Deuteronomy 2:10” il dolore di non avere figli si trasfigura in una carrellata di specie in via di estinzione, mentre “Genesis 30:3” tratteggia la lacerazione di una madre chiamata a consegnare a un’altra il proprio figlio.

La parentesi pianistica lascia il posto a “Wild Sage”, e l’immedesimazione scende così in profondità da lasciare senza fiato. La voce si innalza, si piega in un sussurro, sembra sul punto di spezzarsi. Darnielle abbandona il microfono, si fa più vicino alla platea, riscrive i versi in prima persona: “And then somebody asks me ‘John, are you ok?’/ But I’m not ok”.

 

Peter HughesDagli ultimi dischi targati Mountain Goats, “All Eternals Deck” e “Transcendental Youth”, non arriva nemmeno un brano. In compenso, i guerrieri di Tuttlingen ne sfornano ben due da un altro Ep del 1995, “Nine Black Poppies”: “Quando fui joven escrivía muchas canciones con mucho gritando”, confessa Darnielle continuando a giocare con il suo personalissimo spagnolo. Ed ecco farsi strada la chitarra arrembante e la voce febbrile di “Nine Black Poppies”, seguita a ruota da “Cheshire County”. Brevi istantanee che tornano a infiammare l’atmosfera, riassumendo le fulminanti intuizioni dei primi Mountain Goats senza timore di dedicare un’ode persino alla contemplazione di una mucca pezzata…

Ma non c’è nessun rimpianto per il passato, come proclama a chiare lettere l’inedita “You Were Cool”, già diventata uno dei pezzi forti del gruppo dal vivo negli ultimi anni: “It's good to be young, but let’s not kid ourselves it’s better to pass on through those years/ And come out the other side with our hearts still beating”.

 

Il calore della platea di Barcellona comincia a far saltare la scaletta della serata e, subito dopo l’esuberanza di “Dance Music”, è già tempo di “No Children”, l’anti-inno dei Mountain Goats per eccellenza, che sfocia in un coro di trionfale abbandono, un collettivo “I hope we all die” rispetto a cui l’aggettivo catartico – una volta tanto – non suona solo come uno stereotipo.

I toni frementi di “Alpha Rats Nest” chiudono il sipario prima dei bis, con il pubblico chiamato a suggerire le parole dopo una falsa partenza e l’ausilio di una Alessi un po’ impacciata ai controcanti. Al ritorno in scena, sono di nuovo le note del pianoforte ad avvolgere la sala per una “Tallahassee” dal cuore in gola, con tutto il senso di ineluttabilità di una condanna a cui è impossibile sfuggire. Ma c’è una canzone che tutti stanno aspettando, e non importa che non sia praticamente mai entrata nelle setlist di questo tour: Darnielle decide lo stesso di regalare a Barcellona una fiammeggiante “This Year”, unendo tutti nel grido di certezza di un nuovo giorno capace di spazzare via angosce e contraddizioni. “Ero stanchissimo”, confesserà poi Darnielle sul suo blog, “non avevamo mai suonato a Barcellona e non avevo grandi aspettative... E invece ne è venuto fuori uno dei nostri migliori set di sempre in formato duo”.

 

L’euforia è ancora palpabile quando il pulsare del basso di Hughes, accompagnato dallo schioccare di dita del pubblico, va a materializzare l’incanto di “California Song”: lasciato di nuovo il microfono, Darnielle si protende ad abbracciare la platea e la sua voce nuda risuona nelle corde più profonde, all’insegna di una condivisione assoluta: “I got joy joy joy in my soul tonight/ I got joy joy joy in my arms alright”. Hughes resta solo sul palco, ma l’entusiasmo della sala riesce a riportare un’ultima volta Darnielle in scena, nonostante il coprifuoco anticipato imposto dal locale. Qualcuno prova a invocare “Going To Georgia”, ma la scelta cade sulla festa amara di “Up The Wolves”, a suggello del legame viscerale con “The Sunset Tree”.

È davvero il saluto finale, ma c’è un momento che resta ancora impigliato nella memoria. Nel bel mezzo del concerto, Hughes si accosta a Darnielle con il suo aplomb allampanato: “Pensa se nel 1995 fossimo andati in tour in Spagna, invece che in Germania…”. Darnielle scoppia a ridere, poi si rivolge direttamene al pubblico: “Le cose migliori sono quelle per cui sei costretto ad aspettare”. Proprio così. Ed è per questo che non ci sono dubbi: il giorno in cui i Mountain Goats sbarcheranno finalmente in Italia sarà valsa davvero la pena di averli aspettati.