05/07/2005

Kraftwerk

Villa Arconati, Bollate (Mi)


Un concerto dei Kraftwerk è come la fatidica pillola rossa di Morpheus: è la rivelazione del mondo di macchine in cui ti trovi immerso. Ma è anche molto di più. È la scoperta che la macchina è parte di te. The Man-Machine .
Non sono forse macchine quelle quattro ombre androidi che giganteggiano sul pubblico, proiettate in controluce sul sipario che vela il palco?
E il riecheggiare metallico della voce che annuncia il loro ingresso non è forse il segnale dell’avvento dell’era meccanica? Ma le macchine dei Kraftwerk, al contrario della Matrice dei fratelli Wachowski, non aspirano alla schiavitù dell’uomo: quello che vogliono è un universo di geometrica perfezione al servizio dell’umanità, un nastro d’asfalto che si snoda verso l’orizzonte, un treno lanciato ai confini della terra. È la Prima Legge della Robotica: "Un robot non può recare danno a un essere umano".

All’aprirsi del sipario, allora, sembra quasi naturale che le quattro ombre rivelino la loro appartenenza a una stirpe dalla duplice natura, in simbiotica unione con la propria componente non-umana. The Man-Machine. Impossibile scindere i quattro uomini in abito grigio dalla sagoma squadrata delle loro tastiere e dei loro computer.
Immobili e ieratici come icone di un’utopia asimoviana, i quattro golem sono pronti a mostrare agli umani che anche gli androidi sognano pecore elettriche.
Un concerto dei Kraftwerk è un’esperienza sorprendente: nulla a che vedere con l’algida distanza che ci si potrebbe attendere da oltre due ore di musica elettronica.
Merito del calore di quei palpiti sintetici dall’incedere metronomico e dal suono talmente perfetto da lasciare a bocca aperta. Ma merito anche di uno scenario multimediale ironico e immaginifico, che conferisce all’ascolto della musica dei Kraftwek uno spessore ancora più coinvolgente rispetto alla semplice fruizione su disco.
Alle spalle delle postazioni dei quattro tedeschi, lo schermo che copre tutta la lunghezza del palco si riempie di un caleidoscopio di immagini, che danno corpo e anima alle suggestioni tecnologiche kraftwerkiane . Dalla pioggia di pillole multicolori di “Vitamin” all’epica in bianco e nero del Tour de France, dai binari senza fine di “Trans-Europe Express” all’eleganza retrò dei volti femminili di “The Model”, diventa impossibile separare la musica dal suo apparato scenico.

La sequenza dei brani rispetta rigorosamente l’ordine di “Minimum Maximum”, ma del resto sarebbe follia attendersi improvvisazioni in un programma pianificato da infallibili automi.
Così, proprio come nel doppio album live appena pubblicato, a convincere di meno sono certe derive techno che accompagnano le composizioni recenti, come i brani tratti dall’ultimo “Tour De France” e il party finale della più datata “Music Non Stop”: se è vero che sono stati proprio i Kraftwerk ad aprire la strada alla generazione di Chemical Brothers e Daft Punk, quella di inseguire i propri emuli non si rivela quasi mai una scelta felice. Soprattutto quando gli emuli hanno saputo eguagliare di rado la genialità dei loro precursori.
Ad accendere le ovazioni del pubblico assiepato nel teatro-tenda di Villa Arconati, quindi, più che il tentativo di adeguarsi alle mode, è l’impronta inconfondibile della volksmusik dei quattro di Düsseldorf, che prende avvio con il motore rombante di “Autobahn” per arrivare sino alla danza cibernetica di “The Robots”.

Tra i classici minuetti sintetici e gli stranianti riverberi di voci aliene che identificano per tutti il modernariato dei Kraftwerk, a svettare maggiormente rispetto ai leggendari originali è senz’altro “Radioactivity”: introdotta da un monito apocalittico a base di vocoder, che unisce Hiroshima alla centrale nucleare inglese di Sellafield, la sua melodia da vecchio cartone animato giapponese si innalza con trascinante energia tra i colori elettrici dei simboli di pericolo atomico e la vorticosa orbita degli elettroni intorno al nucleo.
Al centro della consueta progressione di brani sull’era informatica tratti da “Computer World” arriva poi l’attesa versione di “Pocket Calculator” in italiano, che raccoglie, come prevedibile, l’entusiasmo del pubblico: “Sono l’operatore del mio piccolo calcolatore/ io aggiungo/ io sottraggo/ io programmo/ io compongo/ se premo un bottone/ lui suona una canzone”.
La definitiva contaminazione tra umano e artificiale si compie quando il sipario si riapre per i bis: al posto di Ralf, Florian e compagni ci sono quattro robot-manichini umanoidi con le loro fattezze, che terranno il palco per tutta la durata di “The Robots” esibendo movimenti al rallentatore. Se Kubrick avesse realizzato il progetto di girare “Artificial Intelligence”, non si sarebbe lasciato sfuggire un’immagine del genere. “We’re functioning automatic/ And we are dancing mechanic/ We are the robots”.

Per l’ultima parte del concerto, i Kraftwerk dismettono giacca e cravatta e calzano fantascientifiche tute aderenti scure percorse da un reticolo di linee fosforescenti, che li fanno sembrare appena usciti da una scena di “Tron”. Parte la pulsazione incalzante di “Elektro Kardiogramm” e il pubblico ormai si è assembrato intorno al palco per celebrare la carnalità delle astrazioni kraftwerkiane. Da lì in poi sarà letteralmente “Music Non Stop”, visto che suoni e ritmi continuano a vibrare nel parco di Villa Arconati anche dopo che i Kraftwerk hanno lasciato le loro postazioni. D’altro canto, sono loro stessi ad averlo proclamato: basta premere un tasto per creare una melodia. Le macchine possono davvero fare a meno dell’uomo?