09/05/2006

Jethro Tull

Tendastrisce, Roma


Nel bellissimo “Stand up”, Ian Anderson canta: “Ieri era un nuovo giorno, ma adesso è un giorno vecchio”.
“Vivere nel passato” può anche essere più gratificante, ma, per i Jethro Tull, sembra che questo stesso passato sia diventato qualcosa di molto simile a un’ombra, un pensiero nostalgico.
Nella mediocre struttura di un Teatro Tendastrisce non completamente gremito, i soliti incroci generazionali attendono trepidanti l’ingresso ritardato di quelli che, alla lunga, si riveleranno i magici fantasmi del “c’era una volta uno dei più interessanti gruppi inglesi a cavallo tra gli anni 60 e 70”.
Le luci si spengono e, per un attimo, tutto sembra fermarsi: Anderson imbraccia la piccola chitarra acustica e partono i primi accordi di “Life Is A Long Song”.

Nonostante il sempre caratteristico look e la presenza carismatica, il “pifferaio magico” è visibilmente invecchiato. La voce oscura e gracchiante di “Up to me” e “My God” è diventata quella di un leale sessantenne al quale, ormai, è rimasta soltanto la voglia di portare un pezzo di storia in giro per il mondo.
I Tull partono morbidi, composti: “Skating Away (On The Thin Ice Of The New Day)” viene, così, accompagnata dalla fisarmonica malinconica del bravissimo tastierista Andy Giddins.
La platea romana applaude convinta per quello che si rivelerà uno spettacolo all’insegna del revival. L’armonica blues che introduce “Living in the past” e il seguente assolo di flauto con tanto di celeberrima “posizione della gru” sembrano rafforzare, infatti, un mito fatto e finito.
Spesso ignorato dalle varie compilation, l’album d’esordio “This Was” assume, qui, notevole rilevanza. Anderson guida tutto il gruppo per la jam jazz “Serenade To A Cuckoo”, mentre Barre disegna l’ipnotica linea blues di “Beggar’s Farm”.
A penalizzare il tutto, purtroppo, la pessima acustica del Tendastrisce che smorza la sezione ritmica Perry-Noyce e appiattisce la chitarra solista.

I Jethro tentano di far decollare lo show con la prima parte della leggendaria suite “Thick As A Brick”, ma proprio le parti più coinvolgenti non riescono a creare gli stessi brividi del disco.
La vena progressive, comunque, prende il suo posto sul palco. “La buona notizia - scherza Anderson - è che il signor Mozart è morto. Questo mi permette di fare quello che mi pare con la sua musica”. Parte, così, una sorta di lungo medley strumentale per classicheggianti variazioni rock tra un flauto epilettico e una chitarra hard-blues.
Alla fine, la struttura viene quasi giù sull’attacco immortale di “Bourèe”.

La seconda parte del concerto si mostra, invece, più “dura”, acustica del teatro permettendo.
E’ qui che entra in campo, ovviamente, il disco più celebrato dei Jethro Tull, “Aqualung”.
Le prime note sono quelle acustiche del breve inciso folk “Cheap Day Return”, che si trasformano quasi immediatamente nel gioiello hard-folk “Mother Goose”.
Anderson suona la carica, e “Cross-Eyed Mary” e “Hymn 43” brillano, insolite, nella fresca notte romana. Poi, un improvviso salto in avanti nel tempo e, dall’ottimo “Crest Of A Knave”, spunta la mini-suite “Budapest”. E’ soltanto un bagliore, però, perché si ritorna subito indietro con Barre che fa tremare la platea in visibilio con il riff incendiario di “Aqualung”.
I cinque musicisti sono in fila sul palco, sorridenti perché il concerto è finito. Tutti sanno, tuttavia, che “lo spettacolo deve andare avanti” dato che non può esistere un live dei Jethro Tull senza “quella canzone”.
Tra applausi e fischi, la platea si riversa in piedi sotto il palco quando appare il solo Giddings chino sulle tastiere e nessuno oserebbe mettere in dubbio il titolo del brano che sta per cominciare. “Locomotive Breath” è la firma finale dei Tull, tra palloni giganti lanciati al pubblico e cori da stadio. Un fan ne buca uno, quasi a voler simboleggiare una leggenda esplosa che, ora, vale come una bella serata-ricordo da portare a casa, da mostrare agli amici.

Questi sono oggi i Jethro Tull, “troppo vecchi per il rock and roll, troppo giovani per morire”.

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