13/07/2008

Sigur Ros

Arena Civica, Milano


Immaginate un altro tempo, un altro luogo. Non una Milano stretta dalla canicola estiva. L’Islanda, forse. O piuttosto il mondo un istante prima del diluvio. Non può venire che da lì, quella luce livida che filtra attraverso i cumuli di nubi che ingombrano il cielo. Il rimbombo dei tuoni in lontananza, i lampi che squarciano all’improvviso l’oscurità: l’aria di tempesta fa sentire come sospesi sull’orlo di un baratro.
La pioggia filtra rada, in aghi freddi e sottili, quando i Sigur Rós entrano in scena. Ombre di creature notturne che si profilano al chiarore dei globi luminosi del palco. Basta il pulsare di un unico suono, l’eco di un canto di balena: “Svefn-G-Englar” è un richiamo che sembra giungere da oltre l’orizzonte cupo delle nuvole. Jónsi Birgisson accarezza la chitarra con l’archetto, la ferisce, la lascia sanguinare: poi la sua voce si avvita verso l’alto come una falena ipnotizzata dall’addensarsi dell’elettricità.

In un concerto dei Sigur Rós si viene risucchiati: lentamente, un passo dopo l’altro, ci si ritrova altrove, in un luogo nascosto da qualche parte in un angolo dell’anima. Scandita da un incedere plastico, “Glósóli” si solleva in un turbine chitarristico, mentre le folate di vento sospingono lontano i vapori colorati che avvolgono il gruppo. Lo confessa anche Jónsi: stasera sembra davvero di essere in Islanda.
Le Amiina fanno il loro ingresso con tuniche e acconciature degne di un tiaso di ninfe dei boschi, accompagnando con il lirismo degli archi il tintinnare di rugiada di “Sé Lest”. E all’improvviso, ecco apparire come in sogno una processione di musicanti in livrea candida e bombetta, figli illegittimi dei drughi di “Arancia Meccanica”, che con una marcia da banda di paese attraversano la scena illuminando di un baluginare di fiati la coda del brano.

Come prevedibile, è sugli estratti di “Takk...” e dell’ultimo “Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust” che si incentra la serata: ma la scelta di privilegiare gli episodi più vivaci del recente passato, rispetto alle meno convincenti diversioni acustiche dell’attuale fase di transizione del gruppo, riesce a dare vita a un coinvolgente connubio di ritmi e rarefazioni, capace di far dimenticare anche la presenza di un solo brano dal capolavoro “Ágætis Byrjun”.
“Við Spilum Endalaust” e “Hoppípolla” sbocciano in un tripudio di archi e ottoni, con Orri Páll Dýrason alla batteria a segnare il passo, di profilo rispetto al pubblico e rivestito di un folle copricapo da principe-giullare. Tra i classici crescendo di “Festival” e “Saeglópur”, Jónsi imbraccia la chitarra acustica per tratteggiare la delicata melodia di “Góðan Daginn”, il volto stretto dal bavero di una giacca rubata agli eroi di qualche saga nordica.

Come lune fluttuanti, le sfere della scenografia assecondano con i loro colori il dipanarsi della musica. Il palco ravvicinato e la platea raccolta contribuiscono a rendere ancora più intima l’atmosfera dell’Arena. La fanfara e il pianoforte di “Inní Mér Syngur Vitleysingur” introducono il momento più apertamente pop della serata, mentre le vibrazioni del basso, con Georg Hólm a percuotere le corde con una bacchetta, innervano il crescere di “Hafsól”, direttamente dall’esordio “Von”, fino alla convulsa accelerazione finale, con Jónsi che si abbandona al delirio sferzando la chitarra con l’archetto.
Poi, i Sigur Rós invitano tutti ad alzarsi in piedi e a unirsi al frenetico battimani di “Gobbledigook”, tra luci variopinte, grancasse, tamburi e cori alla Animal Collective. Una cascata di coriandoli scende sul pubblico al culmine della festa, come cristalli di neve che danzano nel vento.
Tutti si stringono intorno al palco quando gli islandesi ritornano in scena per l’imprescindibile commiato di “Popplagið”, l’ottava traccia innominata di ( ). La pioggia batte più fitta sugli impermeabili di fortuna acquistati all’ingresso dell’Arena, le tinte sanguigne delle luci sembrano riflettere lo scenario apocalittico del cielo rossastro: tra i vocalizzi eterei di Jónsi, il suono assume l’impeto dell’avanzare di una marea, come un’onda che si abbatte impetuosa sui volti rigati di pioggia, fino a travolgere ogni cosa nell’esplosione shoegaze del finale, estrema catarsi che lascia immobili a volgersi intorno senza fiato. Un inchino, un sorriso. Non c’è altro da aggiungere. L’incantesimo, ormai, è custodito nel segreto del silenzio di ogni sguardo.

(25/07/2008)