20/01/2009

C. Bozulich/ Evangelista + Savage Republic

Circolo, Roma


C’è grande attesa al Circolo per il doppio appuntamento con la pasionaria Carla Bozulich in veste di Evangelista e una istituzione del post-punk americano come i californiani Savage Republic. Certo, non una seratina spensierata, ma per chi è sempre in cerca di emozioni forti, è un’occasione da non perdere. 

Prima sorpresa positiva, l’orario. I concerti prendono il via regolarmente alle 22 (miracolo!) con un appetitoso prologo: la performance del batterista/percussionista Ches Smith. La sua militanza nella line-up dell’ultima incarnazione bozulichiana fa seguito a un palmares di tutto rispetto, che annovera collaborazioni con nomi quali Fred Frith, Marc Ribot, Trevor Dunn e Xiu Xiu, oltre a interessanti escursioni jazz come quella dei Congs For Brums. Il set dell’allampanato Smith è tanto virtuoso quanto, alla lunga, indigesto, almeno per i non patiti del percussionismo a oltranza. Riscuote comunque i consensi dei pochi presenti, mentre altri gli preferiscono un giro al banchetto del merchandising, dove campeggiano vinili dei Geraldine Fibbers e ristampe cartonate dei Savage Republic.

Poco dopo, spunta sul palco Tara Barnes, braccia tatuate e sguardo penetrante. E si intuisce subito come ci sia più del suo zampino nella nuova ditta Evangelista. Tara imbraccia il suo basso, prova qualche accordo, ma soprattutto prende letteralmente per mano una sconsolata Bozulich, alle prese con un groviglio di fili, effetti, pedali, e con una corda spezzata della sua chitarra. Carla è sull’orlo di una crisi di nervi, contrariatissima per l’inconveniente (e anche per il cambio di orario deciso all’ultim’ora).
Alla fine, tra sbuffi e imprecazioni, la sua esibizione può finalmente iniziare. Attacca “Evangelista 1”, l’incipit del suo debutto in casa Constellation. E il pubblico è ammaliato da quel saliscendi thriller, tra spasmi nervosi, stasi raggelanti e nuove, improvvise accelerazioni.

Ci si poteva a questo punto aspettare una replica, più o meno fedele, degli ultimi due album, ma la Bozulich gioca a spiazzare tutti. Così ecco un tris di brani inediti (niente male, a un primo impatto) con imprevedibili cover di Antony (“For Today I Am a Boy”, in versione totalmente stravolta) e Black Mountain, cui si va ad aggiungere quell’altra prodezza di “Pissing” dei Low (già su “Evangelista”) virata a tinte cupissime, con un lancinante maelstrom finale di chitarre in feedback e drumming forsennato (Smith è incontenibile dietro a piatti e tamburi).

Si intuisce che non tutto va come dovrebbe. La Bozulich è sempre un po’ stralunata, alterna scatti felini a sguardi spaesati, come quando non trova gli spartiti e chiede al malcapitato organista Dominic Cramp di andarle a prendere il quaderno con i testi di una canzone... Ad aggiungere confusione, il disturbo di un demente che lancia un centesimo sul palco, scatenando nella Bozulich una reazione dapprima quasi “sentimentale” (“ricordo che questo gesto, ai tempi d’oro del punk, era considerato un segno d’affetto”) poi rabbiosa (“altrimenti ti infilerei questo penny su per il culo!”). Risate generali e via.
Gli intermezzi improvvisati di Francesco Guerri al violoncello contribuiscono ad allentare la tensione, e la band si mostra affiatata alternando sapientemente fasi d'improvvisazione free-form, sonorità scarnificate, in cui la voce è lasciata in compagnia di un loop o di un tappeto di tastiera, e tempeste noise-rock.

L’epilogo è affidato a quel “buco nero” di “Hello, Voyager”, che tutto inghiotte nei suoi oltre dodici minuti di puro delirio: “Sail with me, sail with me... There’s only one word... one word... and the word is love” urla la Bozulich al colmo di una sorta di rito catartico. La sua voce ora è un tornado, brucia di furore e sconquassa l’audience. Peccato, però, che, proprio quand’era ormai decollato, il concerto debba terminare, per le teutoniche esigenze d’orario del Circolo.
“Restate a vedere i grandissimi Savage Republic”, è il congedo di Carla, ancora indecisa se gioire per l’accoglienza calorosa o sfogare la rabbia per i contrattempi che l’hanno intralciata. 

Thom Fuhrmann - Savage RepublicOrfani di Bruce Licher, un po’ avvizziti, ma sempre potentissimi, i Savage Republic prendono possesso della scena nel tripudio generale. Gli inventori della “trance californiana” (inimitabile mistura di kraut-rock, post-punk, psichedelia, arabic surf etc.) sanno ancora colpire allo stomaco, anche senza particolari effetti speciali (niente fiamme et similia).
Sul palco campeggia l’immancabile bidone di Repsol affidato alle “cure” di Ethan Port (anche chitarre e voce), il drummer Alan Waddington mostra impietosamente il segno degli anni ma è sempre un martello, così come Greg Grunke (basso), efficace anche il rosso Kerry Dowling alla chitarra, mentre il cantante/bassista Thom Fuhrmann mantiene sempre il suo ghigno demoniaco: “We are Savage Republic from Los Angeles and we have a new president… finally!” saluta il pubblico, celebrando l'Inauguration Day di Barack Obama.

 

L’avvio, con una travolgente “Procession”, ripesca in quella miniera d’oro di nome “Tragic Figures”, all’insegna di un post-punk tribale e uncinante. I nostri pestano sempre che è un piacere, anche quando si indirizzano verso territori più propriamente psych-kraut-wave. Ma anche per loro il pazzoide che aveva tormentato la Bozulich ha in serbo una bravata: due sputi sul palco, quindi un cubetto di ghiaccio scagliato a pochi centimetri da Fuhrmann, che si gira di scatto: “Chi è stato?”. Lo sventurato risponde alzando la mano. “You’re punk!” gli urla il frontman. “You suck…” gli risponde l’incauto, che rischia sul serio, perché Thom si toglie il basso e gli dice qualcosa tipo “dopo ci vediamo fuori”. Il tizio, ahimè, insisterà, urlando anche ripetutamente “Obama fuck you” e sarà allontanato solo a fine serata, quando tenterà addirittura di invadere il palco.

Il live dei Savage prosegue, sempre tostissimo e oscuro. Si spazia da “Next To Nothing” (sempre da “Tragic Figures”) a “1938” (dall’album omonimo del 2007), con Ethan Port che tortura a turno il fustino e la chitarra, dalla straordinaria cover di “Hanging Garden” dei Cure alla conclusiva “Viva La Rock’n'roll” (da “Jamahiriya”, 1988), praticamente un inno.
L’ennesima cerimonia pagana di un gruppo, nonostante tutto, inossidabile.

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