14/06/2009

Faith No More

Rock In Idro - Palasharp, Milano


Cronaca di un festival a cui mancava il festival e report su un’iniziativa a cui mancava l’iniziativa.
Senza troppi giri di parole: Rock In Idro è stato un fallimento completo e senza appello. Lo spostamento della location dall’Idroscalo a un Palasharp arrosto per problemi burocratici non meglio specificati non è un’attenuante e non deve interessare chi ha pagato il biglietto per vedere un festival estivo come accade nel resto del mondo occidentale.
Il dilettantismo degli organizzatori ha fatto sì che i millantati "ventilatori a getto d’acqua" fossero reali solo nelle loro fantasie più sfrenate, che l’acqua all’interno del Palasharp (venduta al prezzo della benzina) fosse terminata alle 21 con una temperatura interna di 40/45°, che l’asfalto infuocato rendesse ogni attività uno strazio, che non ci fosse security che tenesse le vie di fuga libere da gente che le occupava per boccheggiare, che non ci fosse uno straccio di programma e che non esistesse dell’intrattenimento come alternativa all’asfissia.

Potrei continuare, ma credo sia più costruttivo sperare che certa gente si dedichi ad altre attività e passi la mano a chi, al contrario, riesce ancora a mettere la professionalità al servizio di chi gli permette di vivere col suo lavoro.
Tutto quel che c’è stato di buono è dipeso dalla classe immensa dei Faith No More, da una performance che li conferma parte di quella categoria di band che sono e resteranno nella storia e, di conseguenza, il paragone col resto del bill è superfluo, retorico.

Arriviamo al Palasharp quando i Gallows stanno terminando la loro performance e l’impressione generale è che abbiano timbrato il cartellino con la solita energia e dinamismo, a supporto di un album, "Grey Britain", che ha ricevuto critiche quasi unanimemente positive.

Quando i Bring Me The Horizon salgono sul palco, a farla da padrone sono i problemi logistici. Una performance sottotono per i grinders meglio pettinati di Sheffield, ma un album mediocre come "Suicide Season" non poteva di certo promettere di meglio.

Di seguito i Lacuna Coil i quali, giocando in casa, hanno dalla loro l’entusiasmo del pubblico. Un po' meno quello della Storia e della critica. Il tempo di stracciare "Enjoy The Silence" ed è il momento, per loro, di tornare da dove sono venuti.

Per pubblicizzare Rock In Idro si era parlato di ben due reunion e sembra proprio giunto il momento di verificare la validità della prima del lotto. Quando i Limp Bizkit salgono sul palco, sono già le 21 e l’atmosfera nel Palasharp è davvero irrespirabile.
Forse per questo motivo, o altri a noi ignoti, la loro esibizione dura un quarto d’ora in meno. Non che la Storia di cui sopra sentirà mai la mancanza di quei minuti perduti, e gli aficionados della band di uno dei frontman più antipatici del globo terracqueo possono dirsi soddisfatti di aver ascoltato un vero e proprio "greatest hits", con bella mostra di: "Nookie", "Break Stuff", "Re-arranged", "Counterfeit", "Take A Look Around", "Rollin'" e "My Generation".
Menzione particolare per gli strumentisti: davvero eccezionali. Se non fosse per il fatto che avere un quarantenne vestito da scolaretto a saltellare su e giù per il palco è una cosa che funziona solo con gli Ac/Dc, sarei tentato di dire che i Limp Bizkit sono a un Fred Durst dal diventare un gran bel gruppo.

Belle parole, ma il calore sale, l’umidità è palpabile e visibile a mezz’aria tra le teste e gli accendini accesi, mentre grida isolate spezzano il mormorio costante del pubblico, ormai rientrato dalla mezz’ora d’aria.
Luci ora sempre più basse, un pugno di note di piano e un basso a scivolare tra gli accordi. Pochi secondi e un boato accoglie Mike Patton che fa il suo ingresso sul palco con l’ausilio di un bastone ("Dobbiamo fare una pausa ogni tanto. Siamo vecchi !" dirà piú tardi). "Reunited" (cover di Peaches & Herb) tiene ancora al buio la sala, i ritmi sono ancora soffusi, il brano termina e torna da dove era venuto.
E' la batteria a dare il via a "The Real Thing": una strofa, esplodono le luci, il boato. I Faith No More sono tornati con qualche lustro di ritardo e da qui in avanti ogni singolo brano è un trionfo di nostalgie irregolari, imprecise, di riferimenti a così tante memorie da non poter restare imprigionate nei 4 minuti di una canzone.
"From Out Of Nowhere", "Land Of Sunshine", "Caffeine" sono un terzetto che riporta all’album forse più completo della band californiana un pubblico che segue Patton dietro ogni sillaba. Qualcuno dice che ricorderemo questo concerto per via della successiva "Evidence", cantata dal Nostro in italiano: io dico che solo chi non conosce l’intraprendenza artistica spericolata dei Faith No More poteva non aspettarsi un’uscita del genere. Il risultato "è un po' Eros", come sottolinea lo stesso Patton, ma va bene lo stesso.
Il set prosegue senza momenti morti e, anzi, conosce picchi (talvolta inaspettati) in brani come "Ashes To Ashes" (spettacolare il ritornello cantato all’unisono con un pubblico ora incurante delle condizioni ambientali sempre più avverse), "The Gentle Art Of Making Enemies" e "I Started A Joke".
Il resto è storia, e poco o nulla possono aggiungere delle versioni tiratissime di "Epic", "Be Aggressive" e "We Care a Lot" a un concerto che avrebbe potuto protrarsi ancora a lungo senza saziare chi aveva aspettato 15 anni per vedere una delle band più influenti degli ultimi 30.

La sera di fuori regala la seconda gioia della giornata. Una terza la ricevono i venditori abusivi di merchandising, indisturbati coi loro stand ai cancelli del recinto infuocato in cui, ignari, eravamo entrati qualche ora prima.
Il festival non era un festival, d’accordo, però per un attimo mi accontento del ritrovato ossigeno e ripasso mentalmente cosa conti davvero nel giudicare un gran concerto. Per tutte le volte in cui mi sono posto queste domande: stasera ho vissuto la risposta.