16/11/2010

National

Alcatraz, Milano


Era difficile immaginare anche solo un paio di anni fa un Alcatraz esaurito in prevendita per i National. Ma sono ormai diversi anni che i commenti sui loro dischi e sulle loro prestazioni dal vivo sono quasi sempre entusiastici, ed evidentemente il passaparola ha ancora una certa utilità nel far crescere l'attenzione degli appassionati nei confronti di gruppi che se lo meritano.
Ognuno può avere le proprie opinioni dettate dal gusto personale su "Alligator", "Boxer" e "High Violet", le ultime tre fatiche della band newyorkese, ma è indubbio che si tratti di tre dischi ben costruiti, con idee quantomeno interessanti dal punto di vista compositivo e caratterizzati da un timbro vocale importante come quello di Matt Berninger. Allo stesso modo, è stato naturale per chiunque sentirsi molto coinvolti dal concerto tenutosi nel 2007, sempre a Milano, o dai set presenti negli ultimi anni all'interno di numerosi festival europei, che, si sa, sono sempre pieni di italiani, visto che qui da noi un festival con tutti i crismi è e resterà sempre un sogno proibito. Addirittura per questa serata è stata organizzata una semplicissima coreografia per salutare l'ingresso del gruppo sul palco: una cosa normalmente estranea al circuito cosiddetto indie, seppur allargato come in questo caso, ma che i musicisti mostrano di gradire.

Prima del concerto principale, l'atmosfera viene scaldata da Phosphorescent con il suo gruppo. Matthew Houck mette in mostra sia il proprio amore per il classicismo country che la propria capacità di darvi una vitalità assolutamente moderna. Il suo repertorio è fortemente legato alla tradizione d'Oltreoceano ma c'è qualcosa nel modo di cantare e nell'impostazione degli arrangiamenti che fa sembrare credibile e attuale la sua rivisitazione. Non perché faccia cose che nessuno ha mai fatto, ma perché riesce a mostrarsi come un artista che non vuole necessariamente apparire senza tempo, ma che sa invece calare i propri riferimenti nell'epoca in cui vive. Sono degni di attenzione sia i momenti più elettrici, che quelli caratterizzati dagli arpeggi della chitarra acustica, che quelli dove svettano giri di pianoforte. Non si riscontrano abilità tecniche particolari, ma la voce è pulita ed espressiva e la band molto affiatata e compatta: di conseguenza, i presenti non fanno mancare i propri applausi.

I National, al contrario, sfoggiano una prestazione di prim'ordine dal punto di vista strettamente tecnico e mostrano di tenere nella giusta considerazione ogni aspetto formale di cui dev'essere composto un live. Non basta, infatti, salire sul palco e suonare uguale ai propri dischi per coinvolgere la platea, specie quando è composta da un numero di persone a tre zeri, e il quintetto, accompagnato da due musicisti aggiunti ai fiati, mostra di aver fatto proprio questo concetto. C'è, infatti, una buona capacità di utilizzare soluzioni un po' diverse dal punto di vista dell'arrangiamento (soprattutto grazie ai citati fiati) senza snaturare i brani, ma rendendoli semplicemente più adatti a un live; c'è un Berninger che talvolta si lancia in un cantato abrasivo che su disco non si è mai sentito; c'è la voglia di mostrarsi il più possibile come delle persone normali, senza porsi su un ipotetico piedistallo riservato ai gruppi particolarmente capaci. Quest'ultimo scopo viene ottenuto un po'involontariamente, con la dimenticanza di un testo da parte del frontman, e un po' volontariamente, grazie prima ai discorsi fatti dai musicisti sul palco che sembrano dire alla gente "ci piace condividere il nostro stato d'animo perché siamo come voi" e nel finale a un Boeringer che cammina in equilibrio sulla transenna e che poi scende in mezzo al pubblico attraversando tutto il club e cantando le ultime note letteralmente in strada dopo aver varcato l'uscita.

In mezzo a questi aspetti di contorno, come si diceva, c'è una performance inappuntabile da parte del gruppo. Ogni aspetto che compone l'ampio ventaglio di soluzioni vocali, compositive e sonore proprie del repertorio dei National, è reso in modo preciso e impeccabile. Il suono può essere saturo o delicato, diretto o dilatato, di impronta puramente rock o arricchito dal pianoforte o da sintetizzatori; il timbro vocale passa dalla profondità baritonale, alla morbidezza, a una sfrontata spavalderia, a una tagliente abrasività, come accennato; la sezione ritmica ha un tasso di intensità sempre diverso e viaggia ora in modo regolare, ora invece giocando su azzeccati cambi di tempo. Tutto viene eseguito alla perfezione, non c'è mai nulla fuori posto e da questo punto di vista non si vede nemmeno l'ombra di un intoppo per tutta la durata del concerto, circa un'ora e quaranta con una setlist che vede gli ultimi due dischi farla da padroni ma che non manca di interessanti ripescggi dal passato.

I National stasera hanno dimostrato anche al pubblico italiano di saper gestire con disinvoltura anche situazioni di dimensioni maggiori rispetto al concertino per pochi intimi, e la maggior parte dei presenti in sala applaude convinta. Certo, c'è poi una minoranza che ha ammirato la perizia del gruppo ma che non si è sentita coinvolta emotivamente come sperava: anche per loro, comunque, questo è stato tutt'altro che un brutto concerto.

Foto di Anna Cerabino

Setlist

1. Runaway
2. Anyone's Ghost
3. Mistaken For Strangers
4. Bloodbuzz Ohio
5. Slow Show'
6. Squalor Victoria
7. Afraid Of Everyone
8. Available / Cardinal Song
9. Conversation 16
10. Sorrow
11. Apartment Story
12. Abel
13. Daughters Of The Soho Riots
14. England
15. Fake Empire
16. About Today

17. Lucky You
18. Mr. November
19. Terrible Love

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