03/12/2010

Swans

Sala Espace, Torino


Ovvero per la serie “eventi speciali”. Volendo ragionare a mente lucida, limitandosi alla sfera squisitamente musicale, sarebbe difficile negare agli Swans ammirati questa sera alla Sala Espace di Torino la palma per il miglior concerto del 2010. Certo per farlo occorre vestire i panni dei critici asettici, imperturbabili alle ventate emotive che spesso fanno la differenza in ambito live, per guardare unicamente alla resa pratica di un’esibizione, all’aderenza di un artista agli standard e cliché del suo genere musicale di riferimento, tagliando fuori tutto ciò che non è misurabile secondo questi freddi parametri. Occorre anche una buona dose di tolleranza nei confronti di una musica decisamente non accostabile a concetti quali easy-listening, catchy o “accessibile”, occorre una certa predisposizione se così si può dire. Definita questa semplice premessa, certificata la disponibilità a rinunciare a quel quid emozionale in più, il ritorno in pista dei rinati Swans merita davvero ogni sorta di encomio. Incoraggiato dal più che lusinghiero nuovo esordio discografico di “My Father Will Guide Me Up a Rope to the Sky”, ci siamo presentati all’Espace con un livello di aspettative decisamente rimarchevole, soglia poi confermata in pieno dalla qualità di un concerto che è forse riduttivo definire sconvolgente.

220x270_isDa Michael Gira lo si doveva e poteva immaginare. Dal vivo, un paio di anni fa, era parso molto meno tormentato, molto più ortodosso rispetto ai suoi furibondi anni d’oro, pur rivelando ancora su disco scintille del suo nerissimo ed irriducibile genio di sperimentatore. Ma quelli erano gli Angels of Light, tutt’altra cosa rispetto agli Swans, e non deve trarre in errore la realtà di una reunion dopo quindici lunghi anni: contrariamente a quanto sosteneva il titolo di un doppio live pubblicato nel ’98 a mo’ di canto dei cigni (chiediamo venia per questa metafora fin troppo ovvia), gli Swans non sono mai morti davvero, semplicemente perché la loro anima e padre padrone non ha mai smesso di fare musica. C’é stata una pausa, significativa, nelle attività (ostilità) della band ma la battaglia è ripresa a tutti gli effetti con il convincente ritorno dell’album sopra citato. Questo per sgombrare subito il campo dalle facili conclusioni legate all’idea, ormai sempre automaticamente negativa, di “reunion”. Non sono tornati insieme per soldi, anche perché è fuori luogo proprio l’idea di “tornare insieme”. Michael deve aver sentito di nuovo il fuoco dentro di sé e ha radunato un po’ di bella gente: ha girato l’invito a buona parte delle (eccelse) maestranze del progetto Angels of Light (il chitarrista Christoph Hahn, il batterista Phil Puleo, il percussionista e vibrafonista Thor Harris, titolare negli Shearwater), ha tirato fuori dalla polvere per l’occasione il chitarrista storico Norman Westberg, assoldando un bassista nuovo di zecca, il giovane Chris Pravdica. Un gruppo di sei elementi tostissimi quindi, cattivi quanto basta nel suonare e con facce grottesche d’ordinanza. Che la potenza di fuoco dei nuovi Swans fosse elevatissima, con un simile arsenale umano a disposizione, non era quindi difficile da immaginare, ma il livello dei feedback sparatici addosso da questa squadriglia di americani pazzoidi è andato ben al di là delle attese, riuscendo nella non semplice impresa di devastare l’udito dei tanti presenti e di colmarli nel contempo di soddisfazione.

 

220x270_iisLa prima impressione della serata legata al guru del post-punk, va detto, non era stato proprio delle migliori. Giunti sul posto con la nostra proverbiale buona dose di anticipo, abbiamo fatto in tempo ad assistere ad una scena curiosa quanto antipatica: seccato dall’apertura del locale agli spettatori, un Gira con grosso cappello da texano in testa negava con estrema scortesia l’autografo a un paio di giovani fan che gli avevano presentato un Cd apposta per quello, chiudendo il suo notebook e abbandonando indispettito la piccola area bar dell’Espace davanti a pochi testimoni esterrefatti. Non proprio edificante come aneddoto ma, si sa, ogni star che si rispetti (quelle alternative evidentemente non fanno eccezione) non sarebbe tale se non fosse lunatica ad un buon livello. Ancora prima dell’inizio Gira continuava a dare segni di insofferenza a differenza di tutti i suoi tranquillissimi colleghi (fenomenale Hahn, con la sua aria da professore di storia dell’arte e occhialini da lettura perennemente sul naso), arrivando a fare una piazzata monumentale a una giovane donna del suo staff – con ogni probabilità la sua compagna – durante l’esibizione/antipasto del fenomenale ma scazzatissimo James Blackshaw. Proprio il trentenne londinese in forza alla label di Michael Gira è riuscito a stemperare l’implicita tensione causata dall’intrattabile leader grazie alle meraviglie del suo breve set introduttivo, una mezzoretta a base di primitivismo folk strumentale e virtuosismi fingerpicking semplicemente pazzeschi: mai vista suonare con una simile velocità e con tanta leggiadria una dodici corde, e mai viste unghie lunghe come quelle della sua mano destra. Monstre!

220x270_iiisChiusa la parentesi e iniziato il concerto vero, tutte le cattive sensazioni sono state spazzate via come da una mareggiata, per quanto il cantante non abbia smesso fino alla fine di atteggiarsi da tiranno, ora nei riguardi di un compagno, ora dell’altro, perché qualche dettaglio non era di suo gradimento. Partenza lentissima: una lunga introduzione con gli strumenti avviati uno per volta, progressivamente, a creare uno scenario sonoro maestoso ma incombente con tanto di sonagli e reminescenze neanche troppo vaghe dalla musica tibetana, oltre al sibilo mugghiante della pedal-steel distorta di Hahn. Ultimi a salire sul palco (solo dopo diversi minuti) gli altri due chitarristi, con licenza ufficiale di appiccare il fuoco e assortimento di pose da invasato per il maturo frontman. Di qui in avanti, quasi due ore di spettacolo. Davvero devastante l’esordio di “No Words/No Thoughts”: la sezione ritmica a fare da supercompressore mentre il resto della banda imperversava in un marasma di riverberi, con Gira intento dapprima a schitarrare in ginocchio quindi a cantare tenebroso ma inespressivo sovrastato da un muro di feedback e infine lanciato in una sorta di predicazione mistica nel silenzio più totale. Un quadro, quest’ultimo, replicato con enfasi anche maggiore poco più tardi in una memorabile ripresa di “Sex, God, Sex”, una delle rarissime concessioni al passato remoto del gruppo in barba ai consueti standard da greatest hits che ogni reunion che si rispetti porta inevitabilmente con sé.

220x270_ivsQuesta non è stata proprio la classica rimpatriata per nostalgici, ormai è chiaro. Il recupero dal leggendario “Children Of God” resta un caso unico assieme a quelli delle più datate “Your Property” (da “Cop”, 1984) e “I Crawled” (dal primo Ep): classici ostili fatti di granito, con splendido campionario di ossessioni giriane, chitarre elettriche suonate come grattugie ed una band assestata come una macchina da guerra magistralmente rodata; per il resto solo pezzi dall’ultimo disco più un paio di inediti promettenti – sempre tra math ciclico e post-rock senza il minimo svolazzo estetizzante – e tutti a casa ugualmente contenti. Proprio il principio della reiterazione si è imposto in qualità di sacra legge del songwriting del vecchio leone: tra impennate, rallentamenti, dilatazioni cadenzate e crescendo marziali, gli Swans si sono mossi come onde su una scogliera, con la sola eccezione dell’apparentemente più canonica “Avatar” (uno dei titoli nuovi), crepuscolare e dominata da basso e percussioni. A tratti il gruppo ha giocato a illudere il pubblico, fingendo di spezzare questo schema consolidato avvicinandosi ora al psych-folk di marca Angels of Light (“Jim”), ora a una forma di cantautorato più ortodosso à la Nick Cave (“Eden Prison”), salvo poi sconfessare tali premesse con nuove bordate di radicalismo sonico. Da bravi terroristi gli Swans non hanno badato ai convenevoli avendo cura di attaccare, sempre e comunque.

220x270_vsTra le cose migliori va menzionato un inedito senza titolo della durata di una quindicina di minuti, tetro e incendiario ma allucinato dai sonagli impazziti di Thor Harris, con eccelso dialogo ritmico Puleo/Pravdica, cartavetro e detriti vari portati in dote dal canuto Westberg (“Un uomo di 365 anni”, così l’ha definito Michael) e il frontman a interpretare come al solito la parte più umorale ed imprevedibile, regalando al macilento finale noise una serie di strascicati deliri elettrici oltre ad un sinistro lamento d’armonica. E ancora lui, vero protagonista, a improvvisare uno sgradevole siparietto durante la non meno minacciosa “I Crawled”, strizzandosi più volte le parti basse e ravanando come un ossesso nei pantaloni, prima di lanciarsi in completo delirio da una parte all’altra del palco violentando la sua Gibson Lucille (con sottofondo western-tibetano). Uno spasso. Visto il tenore della performance, prima dell’unico bis (“Little Mouth”, scaracchio rumorista con coda recitativa nel silenzio) qualche spettatore ha rilanciato in maniera non meno assurda i saluti del cantante a Ennio Morricone (!) e Fabrizio Modenese Palumbo (dei Larsen, torinese), aggiungendo alla lista i nomi di Roberto Maroni e di Mara Carfagna. A quel punto però, dopo circa due ore di pura razzia sonora, l’affidabilità delle nostre orecchie lasciava sicuramente a desiderare per cui non siamo sicuri di quest’ultima cosa e potremmo anche essercela sognata. Come quelle precedenti, forse. Quando siamo tornati in noi, c’era ancora sul palco Michael Gira che salutava sbandierando un fazzoletto con un sorriso largo così, felice come una pasqua ed affabile come il migliore dei cristiani. Sì, ripensandoci tutto il resto doveva proprio essere un sogno. O un incubo, fate voi.