12/02/2011

Iron & Wine

Locomotiv, Bologna


Terzo live in Italia in dieci anni di carriera per il barbuto Sam Beam, in arte Iron & Wine. Un successo inaspettato e tardivo quello del cantautore del South Carolina: affermatosi come uno dei principali esponenti del nuovo folk statunitense, con una doppietta di dischi di struggente semplicità, ha poi cambiato strada, allargando i confini della propria musica collaborando con i Calexico, e realizzando un terzo album (“The Shepherd's Dog”) che contaminava abilmente soffuse melodie d'amore con atmosfere psichedeliche e caraibiche. Nel frattempo il passaparola, l'inclusione di alcune canzoni in film popolari soprattutto tra i più giovani (“In Good Company”, “Garden State”, ma soprattutto il primo episodio di “Twilight”) ne hanno decretato lo status cult, tanto da far esordire l'ultimo lavoro in studio di Beam (“Kiss Each Other Clean”, che prosegue il discorso iniziato nel precedente lavoro, nonostante un lieve calo d'ispirazione in fase compositiva) direttamente alla posizione numero due della classifica Billboard. Nonostante ciò, termini come hype, teenager e cult sembrano proprio essere estranei al personaggio in questione. E il live al Locomotiv Club di Bologna pare confermare questa idea.
 
L'esibizione di Beam e della sua band sembra fatta apposta per scontentare ogni tipo di pubblico e fan, una vera dichiarazione di libertà e intenti. Impeccabile nella sua giacca, ignorando il caldo insostenibile all'interno del locale (che spinge addirittura molti avventori ad uscire prima della fine dello show) si lancia in insospettabili rivisitazioni in chiave soffusamente psichedelica di alcuni brani del suo repertorio. Negando molti cavalli di battaglia come “Naked As We Came”, “Southern Anthem”, “The Trapeze Swinger”, la cover di “Such Great Heights” dei Postal Service, ma anche il singolo apripista del nuovo album, “Walking Far From Home”, Beam si avventura in territori più difficili e lontani dai gusti del pubblico generalista, e lo fa aprendo il concerto con “Rabbit Will Run”, che tra echi di Peter Gabriel (in acido) e David Byrne, introduce il pubblico al caleidoscopio di suoni e strumenti di ogni genere (sax, flauti, banjo, bonghi...) che permea il palco del locale. Un duro colpo per chi si aspettava di veder comparire in scena il solo Sam Beam con la sua chitarra acustica. Si prosegue con una “Sunset Soon Forgotten” rivisitata in un'allegra chiave funky (un altra stilettata non indifferente per i puristi delle prime cose del Nostro). Tra una “Wolves” ancora più oscura e improvvisata rispetto alla versione in studio, c'è tempo anche per il pop solare di “Tree By The River” (forse il brano più gustoso dell'ultimo lavoro), non a caso una delle poche canzoni cantata da tutto il pubblico. Atmosfere funky alla Stevie Wonder rispuntano pure in “Big Burned Hand”, ma poi si torna nei territori ostici e torridi (o forse sarà stata solo l'atmosfera irrespirabile del locale?) del blues di “Arms Of A Thief”, anch'esso dilatato e destrutturato rispetto alla versione su disco, che va a sfociare nel rock'n'roll vintage di “The Devil Never Sleeps”.

Ignorando del tutto, purtroppo, il primo album “The Creek Drank The Cradle”, Iron & Wine va a pescare a piene mani dal secondo lavoro “Our Endless Numbered Days”, da cui ricava una lunga e tenebrosa variazione jazz sul blues di “Free Until They Cut Me Down”, ma rispolvera anche chicche come “My Lady's House” (dal l'Ep“Woman King” ) riarrangiata in chiave soul. Il pubblico è però sempre più perplesso, non riesce quasi a riconoscere queste versioni stravolte e “arricchite” della canzoni di Sam Beam, una sensazione di spaesamento che negli ultimi anni solo certi live di Bob Dylan o degli Eels sono riusciti a procurare. In dirittura d'arrivo Beam è quasi “obbligato” a regalare qualche contentino ai suoi fans, e tra una “House By The Sea” piuttosto fedele all'originale e una “Boy With A Coin” che si conclude con inaspettati, e non del tutto convincenti, martellanti ritmi beat, non poteva mancare “Flightless Bird, American Mouth”, interpretata in una sorprendente versione a cappella dal solo Beam, in una esemplare dimostrazione dell'empatia che la sola voce del cantautore americano riesce a trasmettere.



Sam Beam è un artista a pieno titolo, un autore che ama rischiare e andare al di là dei paletti imposti dall'industria musicale (ricordiamo che “Kiss Each Other Clean” è il suo primo album distribuito da una major) anche incorrendo nel pericolo di inimicarsi una bella fetta di pubblico, e con l'onestà intellettuale di non ridursi alla parodia di se stesso, senza timore, e forse con la consapevolezza, di poter sbagliare (e di certo quello a cui abbiamo assistito al Locomotiv è stato più un live “di pancia” che “di testa”). Almeno lui ci sta provando, nel tentativo, che oggi appare quasi un ossimoro, di far convivere velleità artistiche e ragioni dell'industria.

Setlist

1. Rabbit Will Run
2. Sunset Soon Forgotten
3. Wolves (Song Of The Shepherd's Dog)
4. Tree By The River
5. Cinder And Smoke
6. Big Burned Hand
7. Arms Of A Thief
8. The Devil Never Sleeps
9. Summer In Savannah
10. Glad Man Singing
11. Free Until They Cut Me Down
12. House By The Sea
13. Love And Some Verses
14. My Lady's House
15. Me And Lazarus
16. Boy With A Coin
     encore
17. Flightless Bird, American Mouth

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