19/07/2012

Bon Iver

Motovelodromo, Ferrara


La primissima data italiana di Justin Vernon e compagnia era un evento decisamente atteso, col quale ancora una volta il festival Ferrara Sotto Le Stelle si era guadagnato grande visibilità e richiamo. Com'è noto, a mettere a repentaglio l'occasione è stato il sisma abbattutosi sulle province emiliane - e Ferrara è stata tutt'altro che esente dai danni arrecati. La scelta obbligata per non rinunciare all'interezza del programma è stata quella di spostarsi in due spazi completamente diversi dal solito, lasciando indietro a malincuore la storica location del Castello Estense (piazza e cortile interno) e, dunque, l'essenza della sua peculiarità territoriale. A qualcuno potrà sembrare una precisazione a puro scopo informativo - quasi sicuramente ai megafan di Bon Iver - ma personalmente credo che questa situazione abbia inciso, e non poco, sull'esito finale di questa data, che a giudicare dagli scambi di commenti del dopo-concerto ha almeno in parte deluso le aspettative.

Eccoci infatti al motovelodromo, un ampio spazio sassoso circondato da pareti cementate e recinzioni, dove normalmente ci aspetteremmo vedere qualcosa di più simile a un concerto da stadio che non l'ultima sensazione indie. È una vera e propria arena, dove tanti gruppetti di gente si sono già accampati, birra alla mano, ad ascoltare i Poliça, opening act della serata. Da subito cattura l'attenzione la scelta scenografica: quello che inizialmente sembrava un semplice tessuto a rete sfilacciato, si rivelerà poi adibito a "schermo" per proiezioni di luci e forme colorate prevalentemente astratte. Fittamente sparse per lo stage anche delle lanterne verdi, simili a grossi lampadari capovolti, che serviranno ad avvolgere le atmosfere più raccolte o a sottolineare gli accenti delle percussioni.
E finalmente alle 21.45 il gruppo fa il suo ingresso: come annunciato, l'organico conta nove elementi complessivi, tra cui tre addetti ai fiati (Reginald Pace, C.J. Camerieri e il fenomenale Colin Stetson), due batterie e due chitarre in aggiunta a quella del frontman; una big band dalla strumentazione mutevole, che ben vedremmo sul palco di Sufjan Stevens più che di un'anima isolazionista come Vernon. E forse in fondo il non totale agio in questa veste corale lo si percepisce dalla compostezza dell'intera performance, ma ancor prima dal falsetto leggermente impacciato del nostro, al netto degli effetti di sdoppiamento che lo sostengono nei suoi dischi.
Non è facile, d'altronde, riportare in vita quella sorta di alter ego così accuratamente costruito in studio, che sembra provenire da canali molto più intimi e inespressi rispetto a un'entità fisica. Persino l'ultimo disco, nella complessità dei suoi arrangiamenti, risulta essere un'opera profondamente "solista", che necessita però di un sostegno corposo per essere esposta dal vivo.
Così anche il pubblico dovrà adattarsi alla nuova veste dei pezzi, specialmente quelli dell'esordio, le cui esili strutture sono destinate a essere rimpolpate da (talvolta ingombranti) elementi orchestrali.

Viene presentata una scaletta senza troppe sorprese, introdotta dalla stessa doppietta che apre l'ultimo disco: l'arpeggio di "Perth" al rallentatore è come un ricordo che torna a galla sprigionando luce propria; curiosamente il ritmo marziale che lo marcava risulta un po' smorzato nonostante le doppie percussioni, evidentemente meno amplificate del dovuto. Ma il gioco di luci e la melodia così azzeccata confermano che nessun altro inizio avrebbe sortito lo stesso effetto, così come la sua perfetta conseguenza ("Minnesota"), uno dei pochi passaggi in cui Vernon sfodera la sua intonazione naturale, quasi da baritono. Si devia appena dall'ordine dell'album sulla splendida "Michicant", prima occasione di raccoglimento durante la quale il pubblico resta ad ascoltare devotamente, creando l'occasione per Vernon di riprendere slancio sciogliendo la voce in acuti inediti. La vera occasione sprecata è sul più recente singolo, "Towers", purtroppo eseguito senza particolare enfasi, pur avendo un grande potenziale di clamore al termine delle prime due strofe.
La chicca per i fan è "Brackett, WI", dalla all-star compilation "Dark Was The Night", ma nel giro di poco il gruppo torna sui passi del disco (doppiamente) omonimo con "Wash": impossibile replicare l'effetto smorzato, evanescente del pianoforte, eppure il trasporto nel falsetto del frontman dà spazio a piacevoli smussature soul in stile James Blake (non a caso ha partecipato a un brano dell'Ep "Enough Thunder"). Segue uno degli episodi più toccanti, e cui infatti il pubblico risponde con entusiasmo: almeno "Holocene" suona ancor più epica, con i fiati che montano lentamente, si chetano per una breve pausa ed esplodono in un reprise quasi commovente.

Arriva l'atteso ritorno ai pezzi forti di "For Emma, Forever Ago": è solo su "Skinny Love", infatti, che si erge l'orda di iPhone in registrazione e un ampio supporto ai cori ("And I told you to be patient..."); ma a dispetto della sua elezione a inno rappresentativo di Bon Iver, è la successiva "Creature Fear" ad emozionare davvero col subitaneo contrasto tra strofe e ritornello, dove l'intera strumentazione si erge in un crescendo di sicuro impatto. La tripletta viene conclusa da "re: Stacks", unico brano dove Vernon tiene per sé l'interpretazione solista: dedicando il pezzo ad un'amica italiana ed eseguendo il pezzo nella assoluta semplicità che lo caratterizzava da principio, il buon menestrello ci consegna i pochi minuti che probabilmente rimarranno davvero nella memoria di tutti i partecipanti.
Conclusi, almeno per ora, i doverosi ripescaggi dal passato, l'ultima parte prima dei bis è destinata a colmare gli ultimi tre brani del 2011: tutto nella norma sino ad una versione ancor più effettata del discusso revival anni '80 di "Beth/Rest"; ma l'uso smaccato ed eccessivo del vocoder non fa che confermare la natura assolutamente singolare di questo pezzo, una chiusura emozionante specie nella coda strumentale, dove una volta tanto sono le chitarre a svettare sul tutto.
Sentiti ringraziamenti e uscita di scena: la platea richiama a gran voce l'ensemble, che al rientro tenta goffamente di trovare un maggior contatto col pubblico, invitandolo a ripetere ad libitum il refrain di "The Wolves" ("What might have been lost"); più che coinvolgimento, l'occasione finisce quasi per creare imbarazzo, rapidamente eluso dalla più spensierata "For Emma", la quale chiude il concerto cancellando ogni possibilità di assistere a una più significativa "Flume".

Nemmeno una menzione per i numerosi musicisti prestati all'occasione. Una apparente toccata e fuga dove il gruppo non ha (si è) concesso che pochissime variazioni sul tema. Un concerto rigoroso e anche piacevole, ma non di certo memorabile come forse avevamo il diritto di aspettarcelo. Si direbbe una sorta di rivincita per i tanti detrattori del "tutto fumo e niente arrosto", pronti ad affossare i nomi più in voga della nuova scena musicale internazionale. Ma Justin Vernon non è un ciarlatano, e il suo "buon inverno" ha già impresso tanti bei momenti nella nostra attuale esperienza musicale. È lì che rimangono, non certo tra le mura di un grigio motovelodromo né tantomeno su un cellulare di ultima generazione. Una cosa è sicura: gran parte di chi c'era lo ha voluto fortemente, pronto anche ad accettare una delusione che forse non ha nemmeno avuto, mentre gli altri avrebbero fatto meglio a risparmiarsi i (non pochi) soldi del biglietto.
È stato bello, peraltro, poter sfatare il mito del cantautore folk schivo e solitario, quando a oltre due ore dalla fine del concerto Justin è andato incontro a un gruppetto di tenaci fans, penne alla mano, che ha accontentato e ringraziato affettuosamente prima di salire sull'enorme pullman. C'è da scommettere che saranno anche al suo prossimo concerto, il 30 ottobre a Milano, a dispetto di qualsiasi lamentela.

Contributi fotografici di Francesca Baiocchi