08/11/2012

Tim Burgess

Le Scuderie, Bologna


Abbiamo già visto come a Tim Burgess, quando si muove fuori dai Charlatans, piaccia sempre fare scelte che in qualche modo possano sorprendere. Infatti, i suoi due album solisti, giunti a nove anni di distanza l’uno dall’altro, non ricalcano certo nessuna delle diverse mutazioni stilistiche della band principale, ma rappresentano ognuno un’avventura musicale autonoma. E anche il modo in cui Burgess sta presentando dal vivo il nuovo lavoro è inaspettato. Sul palco, infatti, si fa accompagnare solo dalla chitarra acustica del fido Mark Collins, compagno di una vita negli stessi Charlatans, ma assente dalla realizzazione di questo disco, e da un batterista. Un set in aperto contrasto con l’ampiezza di soluzioni sonore presente nell’album, ma che, come vedremo subito, ha portato indubbi vantaggi alla resa del live.

Il difetto principle di “Oh No I Love You” è senz’altro quello di risultare una raccolta di idee senza un reale filo logico che le unisca, piuttosto che un album nel senso classico del termine. Si capisce subito, quindi, che l’aver dato alle canzoni una veste sonora così essenziale (l’artista stesso ha definito questo uno “stripped down show” sul palco) ha portato quella coerenza stilistica che su disco manca. Non ci si è, quindi, sentiti spiazzati da repentini cambi di impronta e attitudine, ma il flow complessivo durante tutta l’ora di concerto è stato molto solido e ha contribuito a mettere a proprio agio il pubblico, non numerosissimo, ma nemmeno troppo esiguo. Il resto l’hanno poi fatto gli stessi pregi che rendono consigliabile l’ascolto dell’album nonostante il difetto di cui sopra, ovvero la qualità delle canzoni in sé e la capacità di tutti i protagonisti di proporre un’interpretazione sempre dinamica e mai piatta, pur nella citata essenzialità complessiva.

Era già evidente ascoltando il disco il fatto che Burgess sia ben lontano dal perdere l’ispirazione compositiva, qui probabilmente stimolata anche dalla collaborazione con Kurt Wagner. Riascoltando dal vivo i suoi nuovi brani, permane la stessa buona impressione sulla qualità della scrittura, che anzi, emerge ancora di più proprio perchè messa in maggior risalto dalla già descritta scelta di presentazione delle canzoni. Tenendo poi conto che Burgess poteva anche pescare dallo sterminato repertorio di una band come i Charlatans, che superata l’era britpop ha saputo reinventarsi più volte senza quasi mai scendere sotto un livello più che soddisfacente, è facile immaginarsi che di momenti meno che belli non ce ne sia stata nemmeno l’ombra. In realtà, sono state poi solo quattro le escursioni fuori da quest’ultimo disco: tre in territori Charlatans (“The Only One I Know”, “Impossible” e “North Country Boy”) e un ripescaggio dal primo album solista (“Oh My Corazon”) e comunque tutti i brani nuovi hanno retto bene il confronto con i grandi classici e il passato solista.

Parlavamo, poi, della fantasia interpretativa del trio. Tutti e tre hanno proposto una buona varietà di soluzioni, ognuno nel proprio campo, col risultato che le stesse, sia singolarmente che grazie all’interazione tra esse, hanno dato una certa caratterizzazione a ognuno dei brani eseguiti. Anche perché, a causa della differenza tra l’impostazione semiacustica e il suono su disco, alcune canzoni mantenevano un minimo di fedeltà con le versioni in studio, mentre altre venivano rivisitate in modo profondo. Particolarmente incisive sono state le modifiche a due brani storici come “The Only One I Know” e “North Country Boy”.

Una serata ben riuscita, quindi, che ha mostrato un ulteriore lato della freschezza di idee e della vitalità artistice di Burgess, indubbiamente una delle star del britpop invecchiata meglio in assoluto.