30/11/2012

Toy

Spazio 211, Torino


Li aspettavamo al varco con impazienza, i TOY. L’esordio eponimo di pochi mesi fa andava al di là della semplice rivelazione, della promettente sorpresa fra le altre nel panorama indie britannico di questi indecifrabili anni Zero. Per le prospettive immaginifiche aperte in quel contesto è in fondo più opportuno parlare di autentica folgorazione, dicendosi fiduciosi riguardo alle ricadute che un disco importante come il loro sembra poter prefigurare in seno all’intera scena darkwave. Come con gli Horrors qualche stagione fa e gli (ormai disciolti) S.C.U.M. l’anno scorso, siamo stati così fortunati da poter saggiare le qualità live dell’ennesima next big thing in una prova del nove programmata a due passi da casa. Proprio il locale scelto per ospitare la prima delle quattro date del tour italiano dei londinesi, lo Spazio211 di Torino, ha rafforzato in noi consumati avventori del club quest’idea di rifugio quasi domestico, di secondo domicilio in città, che le azioni in ascesa del rampante (e più modaiolo) Astoria sembravano aver messo in discussione. Trovarsi al cospetto di una delle realtà più interessanti del momento in un posto familiare è proprio il massimo che si possa pretendere da un venerdì sera di fine autunno.

Ed eccoli i TOY, silenziosi e concentrati entrando in scena uno dopo l’altro dalla tenda dei camerini a lato del palco, dinanzi ad un pubblico cospicuo se pur lontano dall’atteso pienone.270x220_ii_01 La tastierista Alejandra Diez prima degli altri, in un vestitino nero attillatissimo che sarebbe riduttivo definire vistoso e che, indipendentemente dalla volontà degli astanti (ambosessi), si rivelerà un inesorabile catalizzatore di sbirciate fugaci. Seguono tutti i compagni con in coda il frontman Tom Dougall, star imbronciata nel suo bel cappotto da dandy edoardiano. La presentazione affidata non alle sue parole ma all’attacco irruento degli strumenti, con “Colours Running Out” negli stessi ideali panni di abbrivo già vestiti sull’album. Un titolo quasi beffardo considerate le circostanze, con l’inchiostro nero del basso di Maxim Barron che invade e satura a sorpresa tutti gli spazi, limitando nelle finiture le altre tonalità: classici problemi di equalizzazione con inevitabile intoppo nel sound, più impastato e confuso del dovuto. Solo un fastidio passeggero comunque, già archiviato con il successivo passaggio da una resa ottimale a livello tecnico che fa giustizia delle complesse stratificazioni sonore nella dote del gruppo.

Il sound scuro rimane la cifra fondamentale di un live da subito incredibilmente carico, tiratissimo, ma senza difettare in lucidità.270x220_iv_01 Sono davvero formidabili sia la precisione di questi cinque ragazzi, che suonano con un’intesa che ci si aspetterebbe solo da veterani di provata affidabilità, sia quel muro sonoro senza crepe o incertezze che colpisce con impatto quasi brutale gli entusiasti spettatori, imponente nella sua architettura ritmica di mostruosa regolarità (notevole il batterista Charlie Salvidge) eppure valorizzato fin nei particolari dalla complicità irresistibile tra la chitarra discreta di Dougall e quella più tagliente di Dominic O’Dair.
Il prorompente singolo di debutto “Left Myself Behind”, escluso a suo tempo dall’album, racchiude in sé tutto l'impeto post-punk della band e quell’enfasi rumoristica ed atmosferica che ne rappresenta forse il più immediato marchio di fabbrica. Una vera bomba, scagliata con noncuranza all’interno di un filotto di pezzi non meno eclatanti (sugli scudi “Dead and Gone” e lo space-rock avvolgente della strumentale “Drifting Deeper”) sciorinati senza mai tirare il fiato e senza perdersi in inutili smancerie da poser.

Con appena qualche sfumatura dreamy e qualche scampolo di affettazione in meno ma anche tanta sostanza rock nuda e cruda in più rispetto al disco, i TOY lasciano ammirati per la personalità.270x220_iii_01 L’impronta kraut garantita dalla Diez si mantiene alquanto rilevante anche nei frangenti più furibondi che infiammano il crescendo nella seconda metà di show. E’ proprio il suo synth a confermarsi elemento di raccordo melodico assolutamente cruciale nell’economia della formazione londinese, per quanto siano le due elettriche impennate a prendere il sopravvento nelle battute conclusive.
Intavolano cavalcate dalla fluidità impressionante fondendo a meraviglia psichedelia e deviazioni shoegaze, dilatando a dismisura le code strumentali ma scongiurando nel contempo il rischio di una prolissità compiaciuta e di maniera. Il finale di “Kopter” coincide con il più riuscito di questi maelström, un ampio gorgo ipnotico esacerbato dai feedback a mille e alimentato da un reattore ritmico indefesso. Si chiude nel rumore, schiumante e allucinata, e non occorre chissà quale genio per capire che non si potrebbe immaginare conclusione più degna, che i TOY stanno uscendo in un tripudio di grida ed applausi per non fare ulteriori apparizioni sul palco.

Niente bis quindi ma anche niente recriminazioni: settanta minuti intensi non necessitano di postille. 270x220_i_01Volendo proprio fare le pulci ad una prova invero assai generosa, resterebbe il dettaglio non proprio entusiasmante del Dougall cantante: tutto sommato in parte nel suo calco di performer monocorde, ma spesso davvero troppo scarico a livello vocale, sovrastato dal marasma chitarristico per l’intero concerto ed incapace di riemergerne con spunti apprezzabili. Nulla di veramente decisivo comunque, a fronte delle numerose note di merito, per stravolgere un giudizio complessivo più che lusinghiero. In fondo erano stati bravi ma non perfetti anche gli S.C.U.M., quando li abbiamo visti nello scantinato dell’Astoria. Il pensiero in quel caso era stato: “bene, e quando li incontreremo la prossima volta sarà anche meglio”. Per questo gioiellino di band che sono i TOY è sufficiente augurarsi di tutto cuore che, presto o tardi, quella fatidica prossima volta ci sia davvero.